Cambiare i toni sul coronavirus converrebbe a tutti

Non sappiamo che cosa abbia potuto rispondere il presidente Sergio Mattarella quando, alla vigilia di Pasqua, Matteo Salvini lo ha raggiunto al telefono per lamentarsi della scorrettezza politica e istituzionale del famoso messaggio serale di Conte a reti unificate. Sicuramente, il capo dello stato non può essere soddisfatto dell’esito dei suoi reiterati e accorati appelli a unire sforzi e intenti nel contrasto al coronavirus. Ma Mattarella ne ha viste davvero tante e, per quanto Salvini sia rispetto a lui su un altro pianeta di valori e di comportamenti, il momento difficile del leader del centrodestra (tuttora maggioritario secondo i sondaggi nel paese) è comprensibile e da tenere in considerazione. Anche perché, con tutti i limiti e tutte le responsabilità del capo leghista, il suo non è certamente un caso isolato, né nella storia politica né nell’attuale incredibile panorama mondiale.

Già, perché la legge immutata e immutabile delle emergenze è scattata ovunque nel mondo a prescindere da nome, caratura e professionalità dei governanti: dichiarato lo stato d’assedio, l’unica figura che dappertutto conta e alla quale si guardi è chi occupa il quartier generale in quel momento. Gli altri, recitano da comprimari. Più o meno fastidiosi, sta a loro deciderlo. Ma comprimari. E infatti dappertutto le correnti d’opinione premiano in questo istante leader nazionali che hanno dato tutt’altro che buona prova di sé – Trump, Johnson – o che erano in grave difficoltà fino al giorno prima dell’esplosione della pandemia, come Emmanuel Macron.

Giuseppe Conte in Italia non fa eccezione. Anche lui ha esitato, ha resistito, ha barcollato, si è deciso in ritardo, si è contraddetto, come quasi tutti i suoi colleghi a ogni livello e in ogni angolo del mondo: premier, presidenti, governatori, sindaci, a partire da Xi Jinping per finire con Fontana, Sala, Sadiq Khan o Bill de Blasio, per citare a caso, mentre pochi si sono distinti in positivo: la neozelandese Jacinda Ardern, il governatore dello Stato di New York Andrew Cuomo… Ciò nonostante, il presidente del consiglio italiano ha avuto un’impennata di gradimento oscurando tutti intorno a lui, alleati e avversari. Probabilmente oltre i suoi effettivi meriti, per la situazione oggettiva e per demeriti altrui.

Bisogna riconoscere che non è mai facile per chi si trova all’opposizione azzeccare il giusto tono e il giusto punto d’equilibrio quando deve confrontarsi con un governo in stato d’emergenza, nell’impossibilità di rimanere sulle barricate e trovandosi costretto a faticose forme di sostegno. Non è mai stato facile per nessuno e sono pochissimi coloro che da situazioni del genere siano usciti meglio di come ne siano entrati (i sostenitori del Pd potrebbero immaginare se stessi oggi in quegli scomodi panni, se soltanto otto mesi fa Salvini non si fosse autoescluso dal Viminale: sarebbero bastate le loro virtù patriottiche, a sostenere l’operato di quel governo e quel ministro nel contrasto alla pandemia?).

Un rapidissimo giro d’orizzonte internazionale fa capire meglio il problema, emergono analogie e differenze significative, in sistemi politici e istituzionali fra loro diversi ma accomunati in queste settimane da dinamiche incredibilmente simili.

Una autentica e visibile unità nazionale non c’è da nessuna parte. Gesti e dichiarazioni di collaborazione bipartisan affiorano debolmente in un orizzonte di freddezze, polemiche, ritorsioni. Per esempio è stata “molto amichevole” la telefonata del 6 aprile fra Donald Trump e colui che tra meno di sette mesi gli vorrebbe togliere la Casa Bianca. Lo stesso presidente americano l’ha definita così, addirittura una “really wonderful, warm conversation”. Ed è tutto finito lì. Perché Joe Biden da quel momento ha cercato spazio e motivi per una visibilità che era rapidamente sfocata dopo la vittoria anticipata nelle primarie democratiche, mentre guarda caso i media si appassionavano per il ruolo e le prospettive di un altro democratico, non “presidenziale” ma enormemente coinvolto nella primissima linea del fronte anti-pandemia, cioè il governatore Cuomo.

Biden cerca ora di sconfiggere questa pericolosa impressione di inutilità, intima a Trump di “smettere di chiacchierare” e nella domenica di Pasqua ha annunciato sul New York Times un progetto di “riapertura in sicurezza” degli Stati Uniti: niente di inedito (test, tracciamenti, investimenti straordinari nella sanità con maggiori controlli pubblici), però accompagnato da una dura stroncatura degli errori commessi dalla Casa Bianca. “L’incapacità dell’Amministrazione nel prevenire, nel prepararsi, nel valutare e comunicare onestamente alla nazione quale fosse l’entità del pericolo ha condotto a risultati catastrofici”.

Poco bipartisan, certo, ma del resto con Trump l’unità nazionale è un concetto totalmente impraticabile. Dopo che i suoi opinionisti in giro per i network avevano per settimane descritto il coronavirus come una perfida manovra anti-patriottica di cinesi e democratici, il presidente già alla fine di marzo aveva platealmente messo in scena la rottura, a modo suo: fregandosene che repubblicani e democratici avessero con gran fatica raggiunto un accordo nel Congresso sulle prime (ma già colossali) misure economiche anticrisi, al momento della firma con foto di rito della relativa legge Trump aveva chiamato intorno a a sé alla Casa Bianca solo i fedelissimi. I democratici? Neanche citati.

Non va meglio in altri grandi paesi sconvolti dalla pandemia. Marine Le Pen non tratta la questione e il proprio governo in modi molto diversi da quelli di Salvini, anzi. Anche in Francia all’esplosione del contagio si erano fatti discorsi di solidarietà nazionale e unità di intenti. Naufragati, però, in una campagna della destra che associa le consuete teorie dietrologiche sull’origine del virus (nei famosi laboratori cinesi) alla richiesta di chiudere ogni frontiera a ogni straniero (esattamente la linea opposta a quella declamata dall’Eliseo, anche a proposito dei movimenti da e per l’Italia), e alla denuncia delle oggettive clamorose lacune evidenziatesi anche a Parigi quanto alla disponibilità di test, mascherine, posti letto in terapia intensiva.

Il caso francese, quando mancano due anni alle prossime presidenziali, è emblematico dell’implacabile legge sul consenso ai tempi del virus. Macron e il suo premier Philippe erano solo agli inizi di marzo tra i governanti meno popolari d’Europa. E non si può certo dire che abbiano gestito l’esplosione della pandemia con particolare rapidità ed efficienza rispetto ai loro colleghi, anzi. Eppure il rimbalzo positivo nei loro sondaggi è impressionante: il 46 per cento di giudizi favorevoli sul comportamento del presidente lo fanno tornare a livelli che non vedeva da oltre due anni, con una dinamica simile a quella che premiò il fragile Hollande a ridosso degli attentati del 2015.

E qui, nei molti precedenti utilizzabili a partire da Hollande, sta l’incognita: quanto è drogato il consenso di questi giorni drammatici per chi governa le crisi nazionali? Gli automatismi non sono mai scattati, nella storia e nella politica: il giorno dopo la fine di una guerra è sempre il giorno dopo, un giorno diverso. Non raramente, chi fino al giorno prima aveva impersonificato le virtù di resilienza di una nazione, all’indomani si scopre penalizzato dall’improvviso prorompente desiderio di passare oltre, di identificarsi con qualcos’altro e con qualcun altro, mettere alle spalle simboli e memorie di un brutto momento: un teorema che trovò il suo svolgimento perfido e perfetto nella sempre riproposta storia di Winston Churchill, sconfitto alle elezioni del luglio del ’45, due mesi dopo aver vinto la più terribile delle guerre.

Boris Johnson è uno che di Churchill, dopo esserne stato il biografo, ha pensato forse di essere la reincarnazione. Perfino il recente ricovero in terapia intensiva ha ricordato qualcosa di analogo accaduto al premier di guerra: la polmonite che lo colpì in pieno conflitto, nel 1943. Abbiamo qui il caso di un altro governante che ha totalmente fallito l’approccio col coronavirus, stavolta in maniera clamorosa, intenzionale e colpevole (è diventato virale in rete un lungo post nel quale sono messi a confronto i dati sul contagio nel Regno Unito e quelli nella vicina e simile Irlanda: dati raggelanti, spiegabili solo con i tempi di reazione molto diversi nei due paesi delle isole britanniche).

Eppure, complice proprio la disavventura personale, Jonhson in questo momento gode di un consenso stellare, concentrato sulla sua persona. E stiamo parlando del leader di un partito che è generalmente considerato responsabile di tagli feroci in quella stessa sanità pubblica britannica oggi popolata di santi e di eroi, salvatrice del premier e applaudita in ogni strada.
Le elezioni inglesi ci sono appena state, a dicembre, e per il Labour del neo leader sir Keir Starmer l’orizzonte della rivincita è lontanissimo. Un po’ per questo, un po’ per la popolarità del premier convalescente, un po’ per le condizioni pietose del Labour al proprio interno, Westminster è forse l’unico sistema politico nel quale una forma di solidarietà nazionale abbia fin qui preso corpo, soprattutto all’ombra della potentissima straordinaria leadership della Regina Elisabetta. Purtroppo per gli inglesi e per Johnson, però, la curva dell’epidemia e le previsioni per l’autunno promettono davvero solo lacrime e sangue. Sia i rischi per l’economia (post-Brexit) che l’insofferenza verso le limitazioni alle libertà personali sono superiori che nel Continente. Di tutti i paesi occidentali, il Regno Unito è forse quello che si è fatto trovare più vulnerabile all’arrivo della pandemia, e il mandato di Boris Johnson sarà in ogni caso molto diverso da quello glorioso che lui aveva sognato per tutta la vita.

A proposito di mandati, non sappiamo come adesso Giuseppe Conte immagini il proprio. Certo, le circostanze di questi due anni lo hanno proiettato là dove nessuno lo avrebbe mai pronosticato, per la missione che si ritrova assegnata e per la fiducia che, stando alle rilevazioni, riceve dall’opinione pubblica. Ha sicuramente dei meriti per questo – soprattutto il fatto di aver saputo decidere misure di contenimento mai viste prima quando ancora nessuno in Occidente si azzardava anche solo a pensarle, e poi una capacità personale di dialogo con i cittadini che non paga pegno ai molti errori di comunicazione dell’istituzione che guida. Ma l’apprezzamento travalica i suoi meriti, oltre a perdonare (fino ad adesso) la grande indeterminazione nel predisporre un credibile piano di uscita dal lockdown. Analogamente a tanti suoi colleghi nel mondo, il presidente del consiglio viene premiato più che altro come figura di riferimento nel momento dell’incertezza e della paura.

La politica italiana è notoriamente molto litigiosa, eppure nessuno dei paesi citati fin qui ha avuto come noi esperienze frequenti e ripetute, in diverse occasioni, di unità e solidarietà nazionali. Per un certo periodo siamo stati addirittura degli esperti nel ramo, soprattutto di recente nella versione che si esprimeva con la formula (intraducibile in lingua straniera) dei governi tecnici. Stavolta questa molla in Italia non è proprio scattata, non è stata mai neanche realmente innescata al di là delle tante chiacchiere e dei retroscena, anche per una certa goffaggine nel proporre governi di salute pubblica da parte di chi troppo scopertamente era in sofferenza col governo presente.

In effetti, al di là delle improbe condizioni oggettive, gli attuali attori sulla scena italiana non sembrano minimamente versati per un’opzione difficile come quella di una vera solidarietà nazionale. Quasi tutti cresciuti, e cresciuti recentemente, nella pratica della campagna elettorale permanente. Oppure, come Conte, protagonisti di rotture personali prima ancora che politiche, e detentori ora di un vantaggio competitivo che non hanno ragione di intaccare.

Per paradosso, ma neanche tanto, chi avrebbe più da guadagnare da formule emergenziali di tipo solidaristico è anche colui che appare in assoluto il meno adatto a proporsi e a perseguire questo tipo di politica. Innanzi tutto per la tipologia di leadership che Matteo Salvini incarna, quanto di più distante si possa immaginare dalla famosa “opposizione di Sua Maestà”.

Detto che nell’attuale clima di rottura in Italia ognuno reca la propria parte di responsabilità, proporzionata al ruolo che si trova a ricoprire, in questa sua non flessibilità il capo della Lega conferma un limite generale, già verificato in altri momenti: conosce e sa praticare una sola modalità di azione politica. Ha una capacità di adattamento alle situazioni nuove e impreviste minima. Soffre la necessità di recitare parti diverse da quella del capopartito d’attacco, e alla fine è sempre questa parte a prevalere, sia che si tratti invece di svolgere ruoli istituzionali o di praticare una politica di appeasement. Per finire, in tempi di social e di comunicazione istantanea questa insofferenza tracima in ogni istante, non si può comprimere né mascherare. Ne risulta un’immagine un po’ schizofrenica, una permanente contraddizione fra l’intenzione dichiarata di collaborare e le sortite un po’ scomposte in campi improbabili come l’epidemiologia e la farmacologia.

Sono limiti che si pagano, di questi tempi. Attenzione: l’opinione pubblica non è né soporifera, né rassegnata, né pacificata. E certo non rimarrà sdraiata per sempre su un governo che mostrava di apprezzare molto poco soltanto due mesi fa. Però non può gradire, in queste giornate di sacrificio, sofferenza e grandissima incertezza sul futuro, comportamenti pubblici che causano più confusione che altro, che risultano divisivi e oppositivi oltre il dovuto. La modalità di leadership che ha funzionato in altri momenti – una sortita al giorno, sempre all’attacco, sempre in primo piano, sempre fuori sincrono rispetto agli altri – risulta fastidiosa e inadeguata. Se n’è accorto a proprie spese l’altro giovane leone della politica italiana, Matteo Renzi, che stenta a trovare un ruolo e talvolta ha finito per trasmettere messaggi peggiori del contenuto che voleva dargli.

Ma se la formula del governo di unità nazionale non appare tecnicamente né politicamente perseguibile (e neanche auspicabile, perché in questo momento avviarsi lungo questo percorso causerebbe sicuramente più instabilità che stabilità), questo non significa che il compito improbo di vincere il coronavirus e di gestire il dopo-coronavirus possa essere affrontato facendo finta di niente, con le stesse modalità di permanente conflittualità tribale che caratterizzano da tempo lo scontro politico in Italia, e come abbiamo visto non solo in Italia.

Infatti, se a qualcosa possono servire i sondaggi molto virtuali e drogati di queste settimane, è a questo: a decifrare l’umore collettivo, a ricavarne la spinta necessaria per modificare stili e linguaggi che sembravano tanto vincenti e chiaramente non lo sono più.

In questi giorni nessuno scommetterebbe sulla possibilità che, tra le molte cose che sicuramente cambieranno nel nostro prossimo futuro, la politica possa uscire migliorata dallo sconvolgimento della pandemia: non ce n’è alcun segnale, casomai il contrario. Eppure se i vari soggetti coinvolti — sia quelli che ora sembrano favoriti che quelli che risultano sfavoriti – facessero con attenzione e preveggenza anche i conti sulla propria convenienza futura (per non parlare del famoso interesse nazionale), scoprirebbero che il tribalismo piace ormai soltanto alle tribù rimaste accampate. E che per vincere su scala più ampia si dovranno trovare modalità molto diverse, e sicuramente molto più inclusive, di azione e di comunicazione.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.