Il giorno dopo in 14 punti

Commento ancora a dati “caldi” sul primo turno delle primarie. Dalle file ai seggi a Monti, passando per due o tre vincitori, alcuni perdenti volontari e un Grillo furioso

Un primo commento rapido, per punti

1. Durante la notte la partecipazione alle primarie del centrosinistra è calata dai 4 milioni di cui si parlava ieri sera a 3 milioni 100 mila: non facciamoci distrarre, perché è un risultato enorme. La comparazione con le primarie precedenti non è solo confortante in assoluto, diventa eccezionale se si considera in quale diverso clima politico e sociale generale s’è votato ieri.
Scrivevamo sull’edizione straordinaria diffusa ai seggi di «un bel regalo» che il centrosinistra faceva alla democrazia nel suo insieme: da oggi in effetti tutti i ragionamenti sulla disaffezione andranno rivisti. Nulla è risolto, ma almeno s’è trovata la chiave, che poi era ovvia: quando si consegna al cittadino uno strumento per contare, la risposta è immediata e poderosa.

2. È anche una risposta non prevedibile e non controllabile. Prima ancora di verificare regione per regione l’esito del primo turno, possiamo avere la conferma di un fatto noto a tutti i professionisti della politica: nessun partito, nessuna organizazione, è ormai in grado di predefinire il comportamento dei liberi elettori. Ogni primaria, ogni referendum ribadisce la stessa tendenza da questo punto di vista. La libertà del cittadino elettore ha ormai conquistato anche lo zoccolo duro dell’elettorato più affezionato e attento.

3. Centrosinistra e Pd avevano già vistosamente goduto di un positivo “effetto primarie” nei mesi scorsi. L’andamento di ieri, il risultato e la prospettiva di un’altra settimana di totale dominio della scena mediatica garantiscono un ulteriore vantaggio. Da lunedì 3 dicembre ci sarà solo da continuare a correre sfruttando una spinta che nessuna manovra di Palazzo, nessuna alleanza e nessuna operazione di immagine studiata a tavolino avrebbero potuto offrire.

4. Bersani esce da vincitore dal primo turno non solo per il vantaggio largo su Renzi. Ha ragione a rivendicare queste primarie come un proprio successo personale. Prima Vendola (lo scorso anno), poi Renzi lo hanno incalzato sul punto. Lui però avrebbe potuto arroccarsi, in un fortino che tutta la nomenklatura democratica avrebbe volentieri presidiato, e continuare in un avvicinamento passivo alle elezioni politiche. Ha fatto l’opposto, per una lettura coraggiosa e corretta non tanto dei rapporti di forza interni al centrosinistra, ma della relazione drammatica fra elettori e partiti, fra cittadini e democrazia.
Non è solo il favorito per palazzo Chigi a questo punto: ora è un leader riconosciuto, come in tre anni di segreteria del Pd e di scelte spesso troppo statiche non era riuscito a diventare.

5. È molto difficile che Matteo Renzi diventi il candidato del centrosinistra per guidare il governo: quasi quattrocentomila voti assoluti sono ardui da rimontare. Ma ha tutte le ragioni per brindare a una vittoria già acquisita. La sua sfida è vinta. Ha definito uno standard diverso per la competizione democratica nel suo insieme, in tutto l’arco politico, non solo a sinistra.
Correrà per vincere e fa bene a farlo, comunque è ragionevole per lui puntare a “chiudere” domenica almeno col 40 per cento dei consensi al ballottaggio: quota impensabile per uno sfidante che il corpo del Pd aveva provato a respingere come alieno. Il “suo” milione di voti è solo una parte del bottino elettorale che la sua presenza e le sue idee possono consegnare al partito e al centrosinistra. È conosciuto e seguito anche fuori dall’Italia (alla vigilia si informavano sulle sue chances alcuni importanti leader laburisti).
Insomma, Renzi è imprenscindibile. E Bersani ha dimostrato in ogni occasione – con lungimiranza, generosità e calcolo politico – di saperlo molto bene.

6. Vendola è andato sotto le proprie aspettative come anche, a dire il vero, Tabacci e Puppato.
Nichi ha ragione quando dice di essere finito schiacciato in una competizione che è stata raccontata e vissuta come “del Pd”. Questa però non è una distorsione mediatica, è un dato della realtà col quale fare i conti. Il tema di una progressiva assimilazione fra la sua sinistra (radicale nei contenuti, disposta alla mediazione e determinata a governare) e il Pd è posto. È qualcosa di più di un problema di alleanze: nell’idea originaria di Romano Prodi (e di altri, da Veltroni a Goffredo Bettini), un grande Pd ricomprende e si fa cambiare da queste culture.

7. L’orientamento dei voti di Vendola al ballottaggio sarà importante. Lui dovrebbe fin da oggi, intanto, spendersi per convincere i propri sostenitori a tornare domenica prossima ai seggi: sarebbe coerente col suo discorso sulle primarie come ricostruzione di un “rapporto sentimentale” tra sinistra e popolo.
Una gran parte di chi tornerà a votare lo farà, a istinto, per Bersani. Ma il duello è anche sull’asse nuovo/vecchio e allora Renzi troverà le parole giuste per appellarsi a loro.

8. Ci si deve impegnare per allargare ulteriormente la base elettorale. Le iscrizioni saranno giustamente riaperte (quanto tempo e quante energie spese inutilmente per elaborare complicate regole restrittive poi tutte travolte dal buon senso e dall’entusiasmo degli elettori). Questo aggiunge un pizzico di incertezza in più sul risultato ma ne vale la pena: l’interesse generale (Bersani l’ha detto e imposto) è tanta tanta gente ai seggi.

9. Ci sarà un confronto televisivo in prima serata mercoledì, stavolta sulla prima rete generalista. Potrebbe anche essere decisivo. Bersani in realtà non deve temerlo perché il suo tono comunicativo è efficace, e perché il risultato di ieri suggerisce che non è vero che Renzi sia così tanto avvantaggiato dalla partecipazione di elettori “non tradizionali”. Comunque sia, ogni tendenza qui descritta sarà amplificata a dismisura da questo evento.

10. In un passaggio nel quale ci sono tanti vincitori, è un grossolano errore quello di chi si iscrive spontaneamente alla schiera degli sconfitti. Questo purtroppo è l’atteggiamento di alcuni importanti dirigenti del Pd in queste ore. Incomprensibile, inutile, autolesionista. Sembrano voler a tutti i costi dar ragione a chi li descrive come asserragliati alla difesa dei propri ruoli. Si capisce meglio in queste ore quanto ci avessimo “preso”, quando abbiamo intuito la volontà innanzi tutto di Bersani di rovesciare i tavoli interni alla propria stessa maggioranza.
È chiaro che il 35 per cento (attuale, destinato a crescere) di Renzi cambia gli equilibri interni. Peserà sul rinnovo dei gruppi parlamentari, perché è anche nell’interesse e nella volontà di Bersani. E peserà nel congresso, dove sarà in ogni area protagonista un’altra leva di dirigenti cresciuta in questo scontro delle primarie e poi nella campagna elettorale nazionale.

11. Nel quadro generalmente molto positivo rimane una pecca che non è organizzativa bensì politica: il ritardo e la confusione nell’affluenza dei dati dalle regioni del Sud (oltre a qualche bizzarro risultato riportato dalla stampa e da verificare) conferma che c’è una parte del territorio dove rimane molto da lavorare quanto a trasparenza e qualità dei gruppi dirigenti locali.

12. Su ciò che rimane fuori da queste pimarie c’è poco da dire che già non sia stato detto. Il centrodestra avviluppato nelle contorsioni mentali del suo fondatore non è e non sarà competitivo. Il centro variamente dislocato fra Casini e Montezemolo non è ancora nato ed è già superato in quinta quanto a innovazione politica e capacità di rapporto coi cittadini. Che fuori dal centrosinistra sia impensabile un evento come quello di ieri chiarisce senza equivoci dove si collochi in questo momento il baricentro politico del paese. E nel Pdl il tempo della scissione è alle porte, questione di giorni se non di ore.

13. L’unico vero antagonista elettorale del Pd e del centrosinistra sarà il M5S di Grillo. Ma Renzi e Bersani sono ormai alla controffensiva sul suo stesso terreno, come conferma la reazione acida e stizzita del comico: per chi vuole rovesciare la cattiva politica c’è un’opzione in più.
Se andiamo indietro col pensiero all’ultimo tormantato anno, occorrerà dire che la capacità di reazione di almeno un settore del mondo politico alla crisi di rapporto con la società è stata più che discreta. Vedremo quali risultati avrà.

14. Infine, Monti. Fino all’altroieri, quando sia Bersani che Renzi rivendicavano il diritto proprio, del Pd e dei partiti in generale a chiudere la stagione tecnica e a tornare al centro della scena, evocavano un principio giusto ma suonavano velleitari.
I numeri delle elezioni politiche potrebbero anche deluderli, nel senso di costringerli a trattative sul nuovo governo che potrebbero anche “ricadere” di nuovo sul nome di Monti.
Oggi però la prospettiva del famoso Monti-bis (che il premier, come s’è visto, non esclude affatto) appare un po’ più remota. Non per le manovre di partito bensì per l’impatto della partecipazione e della pronunzia popolare. Il Pd si riconquista sul campo, e non con le chiacchiere nei convegni, la legittimazione a guidare la nuova stagione del paese da protagonista. Per fare che cosa, naturalmente, è tutto da scoprire.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.