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  • Martedì 3 giugno 2014

Joss Whedon is my Master now – II

Buffy

[Vorresti leggere e rileggere la prima parte dell’articolo, sapendo che non potrai dormire la notte senza averla recuperata? Solo per te, eccola qui.]

Di cosa parliamo quando parliamo di roba
Ci eravamo lasciati indagando la componente mitologica nella produzione di Whedon. Ma il mythos è da sempre intrecciato al logos, ed è così che ci addentriamo nel territorio del linguaggio.
I termini che un personaggio sceglie, il modo più o meno forbito in cui si esprime, i riferimenti culturali e il ritmo con cui parla sono tutti indizi necessari alla sua caratterizzazione. Un po’ come l’aspetto esteriore, il linguaggio è un biglietto da visita con cui il personaggio si consegna allo spettatore.
Prendiamo in esame uno degli esempi più celebri: C. C. Baxter, il protagonista di L’appartamento di Billy Wilder, è un assicuratore ambizioso, ma incapace di farsi prendere sul serio. Un ragazzotto di provincia insicuro e pieno di buonsenso materno. Si esprime spesso utilizzando delle parole composte con –wise, suffisso che comprende il concetto di buonsenso – wise significa appunto saggio – ma che, allo stesso tempo, è utilizzato nel senso di precauzione. Una delle frasi più celebri della commedia è That’s the way it crumbles, cookiewise, l’elaborazione personale di Baxter del detto pieno di saggezza spiccia That’s the way the cookie crumbles – letteralmente È così che il biscotto si sbriciola, cioè È così che doveva andare. Billy Wilder aveva creato il tic linguistico perfetto per il suo personaggio; ciò che non poteva immaginare era che il detto così popolare in quegli anni sarebbe diventato sempre più raro. Si tratta un processo di decadimento nell’uso di parole e frasi che si verifica frequentemente, in particolare quando il gergo in questione è quello adolescenziale, più soggetto a mode e riferimenti culturali del momento. Ecco perché quando guardiamo una puntata di Happy Days siamo investiti da un senso di straniamento. Il processo di identificazione può lasciarci sorvolare sui vestiti fuori moda se una storia parla di sentimenti comuni all’adolescenza – ciò che raccontiamo in questi casi è sempre simile: scoperta di sé, scoperta dell’amore, ricerca di un senso – ma l’orecchio non si lascia ingannare. Sentendo parole come ganzo, il nostro cervello passa velocemente dall’idea di adolescenza a quella di vecchiaia.
Per questo motivo, quando Whedon ha creato il linguaggio dei personaggi adolescenti di Buffy e Angel, ha cercato di evitare di ricorrere all’uso del gergo giovanile, che sarebbe stata la scelta più semplice e di più ovvia ironia, considerando il contrasto con il linguaggio forbito degli adulti. Ma l’utilizzo di termini così contingenti avrebbe compromesso la resa dei dialoghi in soli due anni. Al contrario Whedon cerca di imprimere nei suoi dialoghi il ritmo della realtà, qualcosa che difficilmente cambia. Il linguaggio è caratterizzato dalla velocità e dall’incompiutezza. Come se qualcuno avesse dimenticato le parole ed esse emergessero nella sua coscienza a poco a poco, mentre la persona parla. Per questo le frasi sono ricche di things – cose – stuff – roba – e neologismi creati con l’aggiunta di -y aggettivante a un nome che non lo richiede – per esempio thing-y, ovvero cosante. L’unione della creatività linguistica con un fitto reticolo di citazioni e riferimenti alla pop culture dona quindi l’impressione di una persona giovane e sagace, che parla molto velocemente, ma ha imparato a esprimersi in un contesto pubblico relativamente da poco e non riesce ancora a dire in maniera lineare tutto ciò che ha in testa.
Purtroppo proprio le caratteristiche che donano originalità e freschezza ai dialoghi, hanno reso Buffy una delle serie peggio tradotte in Italia. Un destino che condivide con altri show dell’epoca che si sono distinti per un uso dei dialoghi e della lingua fuori dal comune: West Wing e Una mamma per amica. Non è un caso se negli Stati Uniti si parla ancora oggi di Buffy language, Sorkinism e Gilmorism, accomunando le tre serie in campo linguistico.

Perché lo stai ancora chiedendo
Joss Whedon ha da sempre difeso le minoranze. Celebre il discorso per “On the road to equality” in cui afferma che deve a sua madre la scelta di creare delle eroine indipendenti. In quell’occasione Whedon finge un’intervista con un reporter che chiede insistentemente «Perché parli di donne forti?». La risposta finale di Whedon è «Perché stai ancora facendo questa domanda».
Se da una parte la forza di Buffy ha rappresentato un cambiamento radicale nell’horror anni ’90, dall’altra alcune femministe hanno attaccato Whedon per la violenza di Dollhouse. Durante le due stagioni della serie Eliza Dushku veste i panni di Echo, una bambola umana senza memoria della sua vita precedente. Echo si trova in una “Casa di bambola” di ibseniana ispirazione, un’azienda che fornisce ai clienti l’uomo o la donna dei loro sogni, caricando sulle doll delle personalità posticce. Un’agenzia di escort futuristica, certo, ma anche un luogo in cui si può ottenere un servizio profondamente diverso. Così Echo è una mediatrice, una seduttrice, una ladra, chiunque il cliente desideri. La misoginia della situazione in cui si trova la protagonista è sottolineata dalla violenza fisica: la Dushku viene picchiata quasi in ogni puntata e non ha i super poteri della “sorellastra” Buffy per difendersi.
Forse alle femministe di The Mary Sue è sfuggito un particolare: lo stesso identico trattamento è riservato alle doll-uomo. E Echo è l’unico personaggio a riacquisire spontaneamente la propria umanità. Chi lo sa. Ultimamente alle femministe sul web capita di impegnarsi in battaglie pretestuose.
Forse in risposta alle accuse di misoginia, mentre The Avengers è in post-produzione, Whedon gira Much ado about nothing, la commedia shakespeariana con il personaggio femminile più anticonformista e indipendente, Beatrice, interpretato dalla quasi onnipresente Amy Acker. Una protagonista impertinente, che si aggira nella villa ubriacandosi e parlando come un uomo – «Oh se fossi un uomo! Mi mangerei il suo cuore in piazza» – senza per questo rinunciare alla propria femminilità.
Ma Whedon non ha solo appoggiato l’idea di una donna forte, ha difeso anche i diritti degli omosessuali e in particolare la normalità del loro amore nel 1995, quando nell’episodio The Body di Buffy mette in scena il primo vero bacio tra due donne in una serie televisiva. Una scena nota soprattutto perché per la prima volta sullo schermo l’omosessualità femminile non solo non è condannata o sessualizzata a beneficio dello spettatore maschio, ma si mostra semplicemente come espressione d’amore.

A man’s gotta do what a man’s gotta do
Joss è il paladino delle minoranze. Soprattutto quelle che alimentano il bacino dei suoi fan e a cui egli stesso dichiara di appartenere: emarginati e underdogs. Per questo motivo dedica un intero episodio al goffo amico della protagonista, crea uno dei più belli archi narrativi mai scritti per un personaggio che parte incapace, celebra in musical la reincarnazione fumettistica di Willy il Coyote. E che dire di quando gli Avengers citano Buffy? Un momento d’estasi per i fan, che a maggior ragione possono affermare che Whedon ha cambiato loro la vita.
Ma non basta. Oltre all’horror e agli eroi Marvel, nel 2002 il regista si è dedicato al genere prediletto dai nerd, la fantascienza. Mescolando personaggi e situazioni tipiche dei western all’ambientazione futuristica, nasce Firefly. Lo show è stato cancellato dopo soli 11 episodi, ma i Browncoat – fan con tanto di uniforme ispirata alla serie – hanno fatto di tutto per salvarlo, dal raccogliere firme e fondi alla creazione di manifesti utilizzati come guerrilla marketing. Firefly era però destinato a finire, dopo altre tre puntate e Serenity, un film prodotto da Universal Studios.
Ancora oggi molti non si sono rassegnati alla fine della serie. Basti pensare a uno dei dialoghi tra Sheldon e Leonard in The Big Bang Theory:
– Chi è il più grande traditore, Darth Vader, Rupert Murdoch o Leonard Hofstadter?
– Rupert Murdoch?
– Esatto, è proprietario di Fox e loro hanno cancellato Firefly.

– Chiara Marletta –

Host

Nata nel 1994 a Torino la Scuola Holden è una scuola di Scrittura e Storytelling dove si insegna a produrre oggetti di narrazione per il cinema, il teatro, il fumetto, il web e tutti i campi in cui si può sviluppare la narrazione. Tra i fondatori della scuola Alessandro Baricco, attuale preside.