Storie di progresso poco conosciute: la malaria

Fate voi, la Bella Addormentata o Cenerentola: che poi era l’Italia. Almeno a considerare la carta geografica della malaria, quella delineata nel 1882 dal senatore Carlo Torelli: delle 69 province della penisola solo Imperia (allora si chiamava Porto Maurizio) e Macerata non erano colpite.
malaria Degli allora 25 milioni di abitanti, 11 erano costantemente a rischio, di questi ultimi, 2 milioni ogni anno contraevano il morbo e 15 mila morivano (anche se Giovanni Battista Grassi ritoccò questo dato in eccesso, 100 mila vittime). Un disastro. Le aree colorate indicavano 3300 aree malariche: dalla valle del Po alla costa adriatica, poi l’Abruzzo fino alla Puglia, lungo tutta la costa tirrenica da Livorno alla Campania (con esclusione del golfo di Napoli), la Calabria e l’intera Sardegna, un terzo della superficie continentale. I costi erano altissimi, tanto che lo stesso senatore Torelli parafrasò la fiaba della Bella Addormentata: quella era l’Italia e bisognava risvegliarla. Altri medici però la paragonarono a Cenerentola, costretta a una miserevole esistenza da una matrigna cattiva.

Comunque sia, le cronache dei viaggiatori raccontavano davvero di un paese addormentato, persone afflitte dal morbo, sdraiate ai bordi delle strade, incapaci di alzarsi, e poi alta mortalità infantile e bassa aspettativa di vita: ma questo riguardava i più poveri (anche se il conte Cavour morì di malaria, e i salassi che gli praticarono in piena febbre peggiorarono le cose). Dopo un periodo di latenza (7-10 giorni dall’esposizione) ecco arrivare le febbri malariche con i famosi e tristi picchi, brividi, sudorazioni, cefalea, vomito, diarrea, delirio. Nel casi maligni morte per coma, stress respiratori o anemia profonda. Nei casi benigni, il morbo causava menomazioni croniche, splenomegalia (doloroso ingrossamento dell’addome), deperimento, anemia e rischio di degenerazioni in cachessia.

Che vuoi lavorare: “La malaria è la chiave di tutti i problemi economici del meridione e delle difficoltà croniche del settore agricolo italiano”, così disse l’allora ministro dell’Agricoltura, Giovanni Battista Miliani, nel 1918. Secondo i dati di Eugenio di Mattei, alla vigilia della Grande Guerra l’aspettativa di vita media dei braccianti agricoli nelle regioni italiane non colpite dalla malaria si aggirava intorno ai 35,7 anni, nelle aree malariche scendeva a 22,5 anni (interessantissimi e molto commoventi i suoi scritti, tra cui I lavoratori della terra e L’igiene sociale, utile lettura per tutti quelli che apprezzano il pane e i contadini di ieri ma solo perché mangiano comodamente il pane degli agricoltori di oggi).

Eppure, la zanzara se ne stava buona buona. In quel tempo, parlo del decennio del 1870, andava di moda la teoria miasmatica: insomma, avvelenamento dell’aria. Cosa l’avvelenava? Le ipotesi non concordavano: una sostanza chimica prodotta da materiale organico in decomposizione nelle acque paludose? Oppure microscopici organismi trasportati dal vento e dunque capaci di arrivare molto lontano (cosa che spiegava l’enorme diffusione della malaria)?
Fu un medico francese, Alphonse Laveran, che osservando al microscopio il sangue delle persone infette – in Algeria nel 1878 – notò la presenza degli strani corpi pigmentati.
Due anni dopo, nel novembre del 1880, sempre Laveran scoprì un parassita a cui diede il nome di Haemamoeba malaria, l’agente della malaria. Poi due medici italiani, Ettore Marchiafava e Angelo Celli, guardarono con più attenzione (cioè con microscopi più potenti) e il parassita di Laveran fu meglio identificato: erano dei plasmodi, e furono universalmente accettati come agenti della malattia. Per inciso, l’esperimento che portarono a termine non seguiva nessun protocollo etico, molto semplicemente e brutalmente: il sangue infetto (con plasmodi) venne iniettato in pazienti sani: si ammalarono, dunque i plasmodi c’entravano.

Poi arrivò Camillo Golgi, che studiando il ciclo del parassita notò la corrispondenza tra febbri terzane e la moltiplicazione dei parassiti (si annidavano nei globuli rossi e si moltiplicavano per scissione). E tuttavia – anche se la teoria miasmatica perdeva terreno – la zanzara non ancora era protagonista. Finché Giovanni Grassi tirò in ballo le zanzare anofele (nel 1876 Patrick Manson capì che le zanzare sono veicoli di trasmissione dell’elefantiasi). Anche Grassi fece un paio di esperimenti non proprio a norma: i suoi collaboratori catturano un po’ di esemplari di zanzare anofele presso il delta del Tevere, lasciarono che si nutrissero del plasmodio e poi liberarono gli insetti in una stanza chiusa dove c’era un volontario sano: che si infettò. Più chiaro di così.
A quel punto bisognava dimostrare che le zanzare erano le uniche responsabili e che non c’erano altri mezzi di trasporto, come i vapori miasmatici. Allora fecero un altro test, questa volta nella piana del Sele, a Capaccio, una delle più famigerate zone malariche del continente. Prevedeva tra gli altri 112 volontari sani, scelti tra addetti alla ferrovia e loro familiari, che potevano muoversi liberamente durante le ore del giorno, ma durante il tramonto erano costretti a rimanere nelle abitazioni, protette da reti anzi-zanzare. Quindi i (fantomatici) vapori miasmatici potevano entrare, le zanzare no. Risultato? Di quelli protetti se ne ammalarono solo cinque, ma in forma lieve (avevano infranto il regolamento ed erano usciti dopo il tramonto) mentre del gruppo di controllo, i 415 contadini e braccianti non protetti, ecco, quelli si ammalarono tutti.

La zanzara era tra noi e cominciava a dare molto fastidio. Da allora l’Italia si mobilitò contro la zanzara. Che detto così sembra poca cosa. In realtà una parte della nazione prese a cuore la questione povertà, l’ignoranza, le brutte abitazioni e le paludi. Vennero fondate le stazioni sanitarie rurali, proprio nelle zone calde; le prime cinque furono aperte a Roma nel 1874, poi diventarono sette nel 1876, 19 nel 1884, 25 nel 1912. Bisognava inoltre superare le difficoltà che affliggevano il servizio sanitario locale: le principali sedi erano in città o nei grandi villaggi e una consistente parte della popolazione che viveva in campagna non vi aveva accesso, anzi nemmeno sapeva a cosa era dovuta la malaria. E poi c’erano da raccogliere statistiche sul campo, non era più il tempo di report fondati su impressioni personali ma di informazioni e misure: bisognava analizzare i campioni di sangue, misurare l’ingrossamento della milza, e calcolare il numero di persone da sottoporre a cura.

Nelle stazioni rurali del nord (Verona fu in prima fila e quella stazione diventò il modello per le altre) i medici cominciarono a cercare gli ammalati casa per casa, annotarono ogni dato utile, compilarono accuratissimi registri, identificarono le zone più povere, i tragitti che in genere i braccianti seguivano per recarsi al lavoro, visitarono gli alloggi dei braccianti al servizio dei (inamovibili) latifondisti, e insomma siccome i poveri non andavano in clinica, le cliniche andarono dai poveri e le stazioni divennero così dei veri e propri ambulatori mobili, dislocati in loco, all’aperto (nei grandi latifondi) o nelle sagrestie delle chiese (dopo la messa domenicale), nei mercati, nelle feste rionali e nelle sagre popolari. Alla fine la nazione si mobilitò, soprattutto la classe medica che fece di tutto per raggiungere quella parte della popolazione povera e dunque più esposta al plasmodio, tanto che il quotidiano socialista Avanti! descrisse il fenomeno come il più grande movimento della storia della professione medica: un immenso e altruistico programma mirato alla ricerca del contatto con la gente.

E l’avvento del chinino di Stato probabilmente pose le basi di una medicina preventiva e sociale, una disciplina che voleva garantire assistenza e cura alla società nel suo complesso, non solo con l’uso di strumenti medici ma soprattutto con riforme economiche per migliorare la sanità pubblica. Si trattò di una crociata contro la malaria: i medici usarono molte immagini cristiane e si descrivevano come apostoli, francescani, pellegrini, incaricati di diffondere il Vangelo. Tuttavia, nonostante l’uso di simboli cristiani l’orientamento politico dominante era di origine anticlericale, socialista e rivoluzionario: Angelo Celli, Tullio Rossi Doria, Pietro Castellino, Giuseppe Tropeano – tanto per citare alcuni leader – si rifacevano a Marx e Engels, e sostenevano che per sconfiggere la malaria era necessario garantire ai lavoratori un’adeguata istruzione, sufficiente nutrimento, condizioni igieniche idonee, giornate lavorative di otto ore e la possibilità di organizzarsi per poter difendere i propri diritti.

Centinaia di volontari e soprattutto donne (maestre che lasciarono le città per le campagne) affiancarono i medici e cercarono di convincere i contadini con grandi difficoltà a prendere le amare e costose pasticche di chinino, prodotte a Torino (prima della campagna anti malarica il chinino veniva venduto a un prezzo fino a dieci volte superiore al costo di produzione, poi dopo una serie di leggi speciali al sostegno delle regioni arretrate – Basilicata, Calabria, Sardegna – lo Stato si impegnò ad alleggerire il carico di spesa che gravava sulle regioni assorbendo gran parte dei costi per l’acquisto).

Non sempre ci riuscirono, con il chinino. I contadini credevano fosse in atto un complotto ai loro danni (quando mai lo Stato ci ha aiutato?), altri erano fatalisti: in fondo siamo solo contadini poveri (e braccianti e minatori e mondine) non abbiamo altra scelta che accettare la malattia, come accettiamo da millenni la fame e la sporcizia. Del resto cosa hanno insegnato in fondo in fondo i grandi profeti, con le loro sagge parole? Accettate questa vita con rassegnazione: arriverà poi la ricompensa. Avrebbero potuto fornirci una soluzione ai problemi agronomici, un suggerimento su un antibiotico, invece niente, anche loro erano figli della povertà e della rassegnazione, e alla fine i pani e i pesci li hanno moltiplicati per davvero gli agronomi e i chimici, mentre i potenziali morti li hanno resuscitati i medici.

Poi iniziarono i contrasti tra farmacisti e medici: alla fine l’uso del chinino preventivo venne abbandonato e si cominciò a parlare di profilassi meccanica. Si capì infatti che il chinino era più efficace in alcuni stadi del ciclo vitale del plasmodio. Inoltre alcune persone non lo tolleravano, per non parlare delle controindicazioni, come dolori ed effetti collaterali che portavano molti ad abbandonare l’assunzione preventiva. Oltre al chinino reagì aprendo scuole rurali vicino alle stazioni rurali. L’istruzione prima di tutto, diceva Ernesto Cacace, il pioniere della scuole rurali contadine in Campania. L’istruzione era “il più potente fattore del gran moto e l’arma più sicura di trionfo” della campagna antimalarica in Italia.

Le scoperte della scuola di malariologia dovevano confluire in un programma scolastico. Non bisognava solo insegnare alla popolazione a leggere e scrivere ma anche istruirla in materie come l’educazione morale e civile, la lingua italiana, i calcoli e l’aritmetica, l’agronomia pratica e geografica. Gli insegnanti seguivano i braccianti nelle loro migrazioni quotidiane e prestavano servizio nei pochi momenti in cui gli studenti erano disponibili, ossia la sera, la domenica e nei giorni di festa.

Durante le lezioni di geografia per esempio: quale occasione migliore per spiegare quali fossero le zone malariche in Italia, raccontare i meccanismi di trasmissione e i metodi di profilassi? Secondo Cacace, per i contadini studiare la malaria era molto più utile che conoscere i sistemi di irrigazione e di avvicendamento delle colture, e nel 1913 i maestri della città curarono oltre 2500 alunni della scuola elementare. Il Corriere delle Maestre tra le linee guide alla lotta alla malaria consigliava di affrontare i seguenti temi: la cura della peronospera, la gestione delle acque, la Costituzione, le elezioni, le faide, il concetto di perdono, le funzioni dell’organismo umano, il rispetto reciproco, l’igiene, la geografia, i raccolti, i pericoli derivanti dall’avidità e della tendenza allo sperpero, la cooperazione e le sue applicazioni, i doveri del sindaco e del comune, l’aritmetica e gli effetti del clima sulle piante.

La lotta alla malaria si rivelò meno rapida del previsto e, anche se il numero di morti cominciò a scendere già dopo l’inizio della campagna antimalarica, la battaglia fu dura anche perché si sottovalutarono due fattori: l’impatto sociale dell’infermità dovuta alla malaria e il nesso di casualità tra povertà ed estensione della malattia. Durante la Prima guerra mondiale il chinino divenne irreperibile e lo stesso accadde durante la Seconda guerra mondiale. In più la chiamata alle armi diretta soprattutto alla popolazione rurale tolse manodopera alle campagne e lasciò i canali di bonifica nell’incuria più totale, con donne, anziani e bambini indeboliti e privi delle difese immunitari, e quindi più esposti al contagio. I tedeschi in ritirata fecero il resto: sferrarono un orribile (e documentato) attacco biologico su larga scala a Pontina, distrussero tutte le infrastrutture idrauliche e allagarono il comprensorio, apparentemente per fermare l’avanzata degli alleati. In realtà sapevano – gli scienziati tedeschi Erich Martini ed Ernst Rodenwaldt, consulenti dell’esercito tedesco, erano tra i massimi luminari di malariologia) – che l’anopheles labranchiae presente in Italia meridionale era l’unica specie che poteva proliferare negli acquitrini sia dolci che salmastri, e sapevano quindi che allagando l’agro Pontino avrebbero infettato la popolazione.

Solo nel Dopoguerra si è riusciti nell’impresa di sradicare la malaria grazie un approccio multiplo: DDT (piani quinquennali di irrorazione del DDT) e soprattutto il miglioramento della condizioni ambientali, la fine del latifondismo, l’introduzione di colture intensive delle aree più soggette alla malattie, buona alimentazione, abitazioni migliori e, in breve, la classica e mai paga lotta alla povertà.

Sia come sia, un’altra cosa è certa: si potrebbe tracciare un linea che unisce il chinino ai diritti delle donne. Solo qualche anno più tardi toccò alle mondine combattere la guerra contro le zanzare (i termini risaia e malaria sono quasi sinonimi) e soprattutto l’indifferenza dei padroni verso le loro condizioni. I padroni di certo non pensavamo a migliorare la qualità degli alloggi (tutte a dormire ammassate negli stanzoni, una vera pacchia per le zanzare attratte dai corpi e dall’alta concertazione di anidride carbonica) né a garantire condizioni lavorative meno pesanti (se otto ore vi sembrano poche provate voi a lavorar e sentirete la differenza tra lavorare e comandare). Le mondine ricevevano mezzo chilo di pane e due razioni di polenta; metti la mancanza di acqua potabile, le paghe irrisorie, l’assenza di strutture per l’assistenza medica e dei normali impianti igienici, aggiungi che la maggior parte delle mondine proveniva dagli Appennini ed era dunque priva di qualsiasi immunità dalla malaria. Le mondine erano giovani donne, in età fertile, si ammalavano e trasferivano il morbo ai loro figli (un numero impressionante di aborti e malformazioni, neonati sottopose con bassa aspettativa di vita).

Giovanna Marini, Bella ciao

Per raggiungere i braccianti e le mondine ed aiutarli, i volontari (medici, sindacalisti, socialisti) si servirono ancora una volta delle scuole rurali. Si può dire che parte del movimento femminista e sindacale (e anche la musica folk italiana) sia nato per combattere simbolicamente la zanzara e tutti i danni che causava.
Del resto nell’area settentrionale delle risaie, la questione sociale, cioè il problema della condizione delle donne, e la lotta alla malaria confluirono in un unico movimento. Anna Kuliscioff, Angelica Balabanov, Maria Cabrini e Argentina Altobelli tennero una lunga serie di comizi pubblici, e per la prima volta ottennero l’attenzione della masse.

Sebben che noi siam donne paura non abbiamo: per amor dei nostri figli, per amor dei nostri figli. In lega ci mettiamo. E noialtri socialisti, e noialtri socialisti E noialtri socialisti vogliamo la libertà. E la libertà non vien perchè non c’è l’unione: Crumiri col padrone. Son tutti da ammazzar. A oilì oilì oilà … Appunto.

Ps. Se oggi vi dovessero chiedere, qual è l’animale che ammazza più persone? non fate come me, trattenete le prime risposte: lo squalo, i serpenti, i leoni ecc, No. Nelle prime posizioni ci sono ancora le zanzare, la malaria è ancora causa di morte nei paesi poveri: 500 milioni di persone all’anno contraggono la malaria e mezzo milione di persone soccombe all’infezione. Assieme alla tubercolosi e all’AIDS, la malaria è tra le malattie infettive più pericolose. Ci sono ancora Belle Addormentate che hanno bisogno d’aiuto di tutti per essere risvegliate dalle punture delle zanzare. Dovrebbe essere, se non sbaglio, una battaglia progressista.

Frank M. Snowden, La conquista della malaria, una modernizzazione italiana, 1900-1962 (Einaudi): la maggior parte delle informazione in questo post sono tratte da questo bel libro,
Per la nascita delle scuole rurali:
– Marcuzzi, La scuola di Giovanni Cena. Passerini, le scuole rurali di Roma e il bonificamento dell’agro romano.
– Cacace, L’insegnamento antimalarico

Teho Teardo & Blixa Bargeld – A Quiet Life

Antonio Pascale

Antonio Pascale fa il giornalista e lo scrittore, vive a Roma. Scrive per il teatro e la radio. Collabora con il Mattino, lo Straniero e Limes. I suoi libri su IBS.