Chi elegge il presidente, e chi lo teme

Pd, Pdl e Scelta civica oggi votano Franco Marini per eleggerlo presidente della repubblica fin dal primo turno.

Tre questioni si impongono.
La prima riguarda la popolarità del capo dello stato.
Fin dal pomeriggio, da quando Europa – il giornale che dirigo – per prima ha annunciato che la rosa democratica si restringeva a un solo nome, la rete è impazzita di rabbia: in maggioranza avrebbero preferito candidati più popolari, da Bonino a Rodotà.

Io non so quanto il web sia rappresentativo di un’effettiva opinione pubblica, però ha un’enorme influenza sull’umore collettivo. Ebbene, a costo di andare contro vento occorre ricordare che la Costituzione, non prevedendo l’elezione diretta del capo dello stato, ha escluso che la simpatia popolare dovesse essere un fattore decisivo per la selezione del rappresentante dell’unità nazionale.
Si può cambiare la forma di Stato, ma fin qui è il parlamento, con le sue logiche e le sue maggioranze, a eleggere il presidente. Può sbagliare. Ma può anche accadere l’opposto: accordi tra i partiti consegnarono all’Italia uomini come Ciampi e Napolitano, che non avrebbero vinto un talent-show con giuria popolare.

Ci sono poi le questioni politiche.
Al centrosinistra (che potrebbe volendo eleggersi il presidente da solo) Berlusconi (che non
può fare la stessa cosa) ha chiesto dei nomi. Nomi democratici. Non Previti o Dell’Utri, neanche Gianni Letta. Grillo (che ha gli stessi numeri parlamentari di Berlusconi) ha invece intimato di votare il candidato uscito dalle sue primarie. Una personalità di livello, Rodotà. Che però si è prestata a un’operazione di deliberata spaccatura del centrosinistra. Non è stato un gesto amichevole, all’opposto. Può stupire che Bersani l’abbia respinto?

Nel cercare di portare Marini al Quirinale d’intesa con Berlusconi e Monti, il Pd si sta dividendo malamente. Già è saltato l’accordo di coalizione con Vendola, che era il punto di forza di Bersani fin dal ballottaggio alle primarie. Matteo Renzi ha voluto entrare con fracasso in questa partita: ora è alla sua prima vera grande prova.
Più che scegliere di non votare Marini, come ha fatto, più che accarezzare la tentazione di cavalcare lo scontento, deve valutare come garantirsi rispetto al pericolo che teme di più: che una soluzione Marini (nel caso che passasse) possa diventare la formula per allontanare le elezioni e, nel tempo, farlo fuori dalla competizione per la leadership.

Sarebbe ingiusto scaricare questo sospetto sull’ex presidente del senato, nonostante le ruggini fra i due: chi sale al Quirinale in ogni caso si trasforma, certo non può fare scelte partigiane in favore di chi lo ha eletto. Non credo proprio che, diventasse Marini il capo delo stato, questo sarebbe il viatico al “governo degli sconfitti” Pdl-Pd, e neanche credo a un governo Bersani. Il che significa che in ogni caso Matteo Renzi ha tutto lo spazio, il tempo e la forza per far valere il diritto a giocarsi la prossima partita contro Berlusconi.
Soprattutto considerando che il suo rivale delle primarie, il segretario del partito, senza essersi mai pienamente ripreso dalla sconfitta del 24 febbraio è andato incontro ieri sera a un drammatico e ampio dissenso, trasversale a tutte le aree del Pd, che ne mina forse irrimediabilmente la leadership già gravemente indebolita nelle ultime settimane.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.