Cinque cose sul delirio di questi giorni

Approfittiamo di queste poche ore di tregua nel delirio di retroscenismo e politica di questi giorni, per fare un po’ di ragionamenti laterali ma importanti (e lunghi, vi avviso). Laterali, nel senso che stiamo alla larga dalla questione se l’ipotesi di Renzi a Palazzo Chigi senza elezioni sia sensata o no, che ne abbiamo già parlato abbastanza, e i pareri sono piuttosto unanimi.

Prima cosa. L’ipotesi di una caduta del governo Letta provocata dal PD o da Renzi non era all’ordine del giorno fino a una settimana fa: certo, se ne parlava, se ne parla da mesi ogni giorno invano, ma stando alla politica vera e alle dichiarazioni pubbliche, non aveva ragioni imminenti. Renzi avanzava le sue diffidenze e le sue richieste, manegava che ci fossero intenzioni di rimpiazzo e non poneva scadenze ravvicinate o ultimatum, anzi negando che Letta avesse da preoccuparsi nell’immediato.
La pretesa di far cadere il governo, ora, non ha quindi nessuna motivazione cogente: chiunque la avanzi tra i renziani dovrebbe spiegare cosa sia successo nell’ultima settimana che abbia capovolto le necessità, per non lasciare il sospetto di essere stati travolti da una forzatura congiunta da parte di alcuni giornali e alcuni politici interessati (sulla quale poi torno), o di essere stati tentati da ambizioni che con il governo Letta non c’entrano niente, intravedendo il colpaccio.
Per come la vediamo da fuori, e per come la vede il mondo, non esiste oggi il caso perché un partito chieda la crisi di un proprio governo contro il volere del Presidente del Consiglio e del governo stesso, senza una ragione puntuale. È una cosa contraddittoria, completamente priva di senso e presentabilità.

 

Seconda cosa. Il comportamento di Letta in questi tre giorni di delirio è stato serio, ineccepibile e dignitoso. Ripeto una cosa per eccesso di prudenza nel tacitare i capricciosi: io penso che il governo Letta sia del tutto inadeguato ai disastri in cui sta l’Italia, in parte per ragioni legate al suo essere un governo zoppo, nato com’è nato e sostenuto da una maggioranza incapace di trovare sintesi operative necessarie, in parte per inadeguatezza di alcuni suoi ministri, in parte per incapacità dello stesso Letta di fare seguire alle sue ottime parole dei fatti convincenti. Letta è democristiano dentro, attributo che ha del buono, ma in questi contesti è una zavorra: non è capace di percepire le necessità di motivazione, comunicazione, cambiamento che hanno gli italiani oggi, né quelle di scelte e sovversioni rapide e forti che ha l’Italia. Fa un onesto lavoro da funzionario governativo in tempi ordinari e ha sottovalutato e sottovaluta le richieste straordinarie che l’Italia gli fa: le conseguenze sono che anche le cose che il governo fa – alcune le fa – sono invisibili e non riconosciute, e questa è responsabilità del governo stesso.
Ma questo valeva un mese fa come vale oggi, e non si può chiedere a Letta di dimettersi perché non si condivide quello in cui lui invece crede e che rivendica: dal suo punto di vista, non si può dichiarare fallito un governo che in dieci mesi ha fatto alcune cose e altre no. Se Napolitano oggi incentivasse la sfiducia di questo governo, dovrebbe dimettersi lui stesso per contraddizione con se stesso, perché questo governo è l’esatta espressione del suo progetto e l’esatto risultato della sua scelta di dieci mesi fa, ora come allora.
A un ridicolo progetto di destituzione del governo che non aveva ritenuto di interpellare il governo, Letta è stato quindi l’unico che ha risposto con esemplare sobrietà “ma di cosa state parlando?”.

Terza cosa. Non oso nemmeno pensare a un PD che giovedì vada a sfiduciare il proprio governo con la forza di un voto contrario in direzione nazionale. Ci dovrebbe essere un limite al ridicolo e all’inadeguato: e quel limite sta nel fatto che un partito non può diventare opposizione di se stesso, meno che mai in un momento in cui le opposizioni vere sono debolissime e inoffensive rispetto all’azione del governo. Altro che Tafazzi. Per non dire della mancanza di rispetto e riconoscenza nei confronti di Enrico Letta, che di questo partito è stato sempre disciplinato e serio dirigente. Come vediamo tutti, dal confronto tra Renzi e Letta non è uscita l’impressione di un Letta impazzito da legare e destituire con la camicia di forza di fronte alla saggia e lungimirante misura di Renzi, costretta a scelte estreme: è uscita l’impressione di una sventatezza sfuggita di mano che aveva fatto i conti senza l’oste e ha consegnato agli italiani l’idea di un PD inetto e confuso e di un possibile leader incapace di governare un guaio evitabile, mentre il PresdelCons lo guardava stupito e seccato. I danni di tutto questo sono già in parte irrecuperabili, auguriamoci che non siano moltiplicati domani e che la lezione di mercoledì sia stata sufficiente perché Renzi recuperi giovedì la sua capacità di convincere e sparigliare.

Quarta cosa. Io credo che Matteo Renzi – che ovviamente non è stupido, né è mosso da sete di potere: altrimenti starebbe facendo la cosa più cretina – rischi di fare una scelta sbagliata non per follia o perché noi qua fuori la sappiamo più lunga (che anzi è ovviamente il contrario): ma sostanzialmente per due fattori opinabili ma non completamente assurdi. Uno è la sua convinzione della propria capacità di governare le cose e farle a modo suo: convinzione non così campata in aria, che gli deriva da un’evidente serie di successi che lo hanno viziato (ma non deve dimenticarsi di aver perso le primarie, poco più di un anno fa) e gli fa includere anche questa spericolata ipotesi in questo novero (secondo me, invece, si sopravvaluta e questa sta oltre i suoi limiti e lo perderà). L’altro fattore – altrettanto non trascurabile – sono le estese pressioni che riceve da persone e istituzioni di grande rilievo e serietà, e che nessuno potrebbe ignorare: in parte pressioni da istituzioni supreme e ruoli economici che lo allarmano sulle necessità di un governo più incisivo e senza le discontinuità e i rischi di una campagna elettorale (che, gli ricordano, potrebbe anche perdere) insistendo sul famoso ma reale “baratro” che attende l’economia italiana da un momento all’altro. L’Italia non può rischiare di andare avanti così, gli dicono di certo ruoli influenti e competenti, e meno che mai di finire in mani e guai peggiori.
Un’altra parte sono pressioni che più convintamente temono – confortate da sondaggi e analisi – che le elezioni possano essere vinte dal M5S, con le catastrofiche conseguenze economiche e politiche che ne deriverebbero, o semplicemente con gli interessi del PD e il futuro dello stesso Renzi spappolati.
Ripeto, sono anche questi argomenti non folli: ma a me sembrano insufficienti e inammissibili per sostenere la scelta di un governo Renzi con tutto quel che implica di catastrofico e di cui già abbiamo parlato. La definizione “manovra di palazzo” non è dispregiativa e polemica: è linguisticamente esatta.

Quinta cosa. Ho discusso animatamente negli ultimi giorni sulla genesi di questo progetto Renzi e sul ruolo dei mezzi di informazione, soprattutto con alcuni amici e colleghi che lavorano nei giornali tradizionali e raccontano la politica nei modi tradizionali dell’informazione italiana. Io non credo che nessuna analisi delle dinamiche della politica e dell’informazione possa essere semplificata e sbrigativa e trovare rapporti esatti di causa ed effetto: mille variabili, manine, eterogenesi dei fini, accidenti, e piccoli e grandi interessi, si ammucchiano e aggrovigliano per generare un risultato finale che è la somma di tutti queste cose. Giuseppe Smorto ha cercato di confutare le mie impressioni sul ruolo di alcuni media attribuendomi l’idea che i giornali “costruiscono a tavolino” l’ipotesi Renzi a Palazzo Chigi: ovviamente non è così, è uno straw man argument, un argomento falso creato per essere ridicolizzato con facilità. Altri ieri si sono scatenati nel rinfacciarmi la mia tesi dei giorni scorsi che questa ipotesi Renzi fosse implausibile (l’avevamo sostenuto io e Scalfari, altri stavano più cauti): mentre oggi li ho sentiti meno, comprensibilmente.
Provo quindi a spiegare ora, in un momento in cui nessuno può dire “avevo ragione”, che è sempre l’istinto prevalente e quello che più impedisce una comprensione obiettiva delle cose. Io credo e vedo che ogni giorno le pagine di politica dei giornali raccolgono ed esaltano ogni voce e ogni ipotesi che soltanto sfiora una testa qualsiasi: notizie che hanno una concretezza – in una scala da zero a dieci – variabile tra lo zero e il tre, vengono date ai lettori come se fosse sempre tra nove e dieci. Ogni giorno, ogni più piccola cosa: poi il giorno dopo sparisce e nessuno ne rende conto, e nessuno si prende la responsabilità di indicare ai lettori la differenza tra una cosa certa, una probabile, una possibile, una improbabile, una esclusa e una del tutto falsa. Il retroscenismo politico mette tutto sullo stesso piano, in un calderone che filtrato al setaccio della verità tratterrebbe sì e no un quinto delle cose dette, date per certe o ipotizzate. Ma tanto quel setaccio non esiste, noi lettori siamo anestetizzati e abituati e anzivogliamo il totoministri a caso, persino in assenza di governo, perché ci diverte e ne parliamo, e li critichiamo o approviamo: e se un giornale non ha il totoministri a caso pensiamo che non sia informato abbastanza. Il giornalismo scadente italiano ha allevato un lettorato di bassissime pretese.

Ma vengo al caso particolare. Io non lo so com’è andata: come dicevo, troppe variabili in ballo, va’ a sapere. Ma la mia impressione resta quella di una settimana fa: che nel giro di giostra delle boutade giornalistiche (rimpasto! crisi di governo! elezioni! Berlusconi candidato in Europa! dimissioni del ministro Kyenge! rimpasto! totoministri da rimpastare! Obama e Beyoncé!) sia venuto alcuni giorni fa il turno di questa ipotesi, nata da chissà quale chiacchiera passeggera o confidenza di tizio e caio, le solite cose che ribollono stabilmente. Era successo già un anno fa, stessa ipotesi “Renzi pronto a”, per esempio (poco prima c’era stato il totoministri di Bersani, per fare un altro esempio; e prima ancora Baricco e Farinetti candidati col PD, per tornare al giro di oggi). E che l’enfasi strillata – la solita enfasi strillata di tutti i giorni – associata a questa fragile ipotesi sia diventata a sua volta un fattore del suo rafforzamento. È infatti indiscutibile che i giornali – benché letti poco tra i sessanta milioni di italiani – sono tenuti ancora in grande attenzione e considerazione dentro la bolla informazione-politica: non dico che “dettino la linea” (a volte sì), ma di certo giocano la partita. Con interessi loro, di solito più commerciali e di potere che di posizione politica, ma anche col semplice muoversi in campo e dinamiche confuse che generano risultati imprevisti.

Quello che penso, insomma, non è ovviamente che i giornali “costruiscano” quello che succede alla politica, almeno non in questo dettaglio: ma che se ne freghino di spiegare la realtà, muovendosi invece per logiche e criteri di sensazionalismo e zizzania che tengano sempre tutto sopra le righe in modo da catturare l’attenzione di noi lettori alienati. E che – poiché i giornali sono comunque tra i fattori che orientano la realtà – questa distorsione porti a orientamenti conseguenti: zizzanie, casini, allarmi, mistificazioni, crisi, emergenze, al posto di cittadini e  lettori informati e interessati, che sono quelli che fanno funzionare bene le democrazie.
E che quindi un fragile progetto privo di senso, disprezzabile, e pericoloso per tutti sia stato dato per normale, concreto e già pronto, contribuendo così – assieme ad altre complicità – a renderlo normale, concreto e già pronto. Non si spiegherebbe altrimenti l’adesione esplicita con inversione di marcia a questo progetto di alcuni renziani solo dopo che il progetto era ben montato sui giornali, nelle ultime 48 ore. Le cose dovrebbero andare in senso opposto, nei rapporti di causa ed effetto.

Certo, questo dimostrerebbe – se avessi ragione – non solo una deprecabile attitudine dell’informazione politica italiana, ma anche una sua sopravvivente grande forza: alla fine, sparane una oggi, sparane un’altra domani, qualcuna diventa vera anche se non lo era. Di questo do atto, con malcelato rammarico.

Luca Sofri

Giornalista e direttore del Post. Ha scritto per Vanity Fair, Wired, La Gazzetta dello Sport, Internazionale. Ha condotto Otto e mezzo su La7 e Condor su Radio Due. Per Rizzoli ha pubblicato Playlist (2008), Un grande paese (2011) e Notizie che non lo erano (2016).