Il Brasile non ha ceduto alle pressioni di Trump, ed è andata bene
Il presidente statunitense aveva imposto dazi e sanzioni per aiutare il suo alleato Bolsonaro, poi ha fatto marcia indietro

C’è un paese che più di altri è un buon esempio di due approcci ricorrenti del presidente degli Stati Uniti Donald Trump: il modo con cui usa misure come i dazi o le sanzioni per provare a influenzare le decisioni politiche o giuridiche di altri paesi, o ottenere concessioni; e la facilità con cui cambia opinioni e alleanze quando si rende conto di non riuscirci. Questo paese è il Brasile.
Negli ultimi mesi Trump ha provato in vari modi a sollecitare le istituzioni brasiliane a ritirare le accuse contro Jair Bolsonaro, l’ex presidente brasiliano di estrema destra che lo scorso settembre è stato condannato a 27 anni di carcere per per aver partecipato all’organizzazione di un colpo di stato (mai messo in atto) per rimanere al potere nonostante la sconfitta alle elezioni presidenziali del 2022. Bolsonaro è sempre stato un alleato di Trump, tanto che vari media internazionali lo hanno soprannominato «il Trump dei Tropici».
Prima ha provato con i dazi. Il 9 luglio Trump aveva inviato all’attuale presidente del Brasile, Luiz Inácio Lula da Silva (noto come Lula, di centrosinistra) una lettera dai toni molto aggressivi, in cui minacciava di imporre dazi del 50 per cento su tutte le importazioni brasiliane se il paese non avesse interrotto «IMMEDIATAMENTE» il processo contro Bolsonaro, che Trump ha definito «una caccia alle streghe» e «una vergogna internazionale». Era quindi un chiaro tentativo da parte di Trump di interferire con la magistratura di un altro paese, ma non aveva funzionato: il processo contro Bolsonaro era andato avanti, e i dazi erano entrati in vigore poco dopo.
– Leggi anche: Trump vuole usare i dazi al Brasile per aiutare Jair Bolsonaro

Bolsonaro durante gli arresti domiciliari nella sua casa di Brasilia, 2 settembre 2025 (AP Photo/Luis Nova)
Poi ha provato con le inchieste. Il 15 luglio l’amministrazione statunitense ha aperto un’indagine per verificare se il Brasile abbia adottato pratiche commerciali scorrette nei confronti di aziende statunitensi. Trump ha sostenuto in più occasioni che sia successo, ma i due paesi sono storicamente buoni alleati commerciali e anzi: gli Stati Uniti hanno un surplus commerciale con il Brasile di diversi miliardi di dollari (significa che esportano più beni di quanti ne importino). L’indagine è ancora in corso.
Un altro tentativo di interferire nel processo a Bolsonaro sono state le sanzioni. A luglio l’amministrazione Trump ha fatto ricorso al Global Magnitsky Act, una legge che di solito viene usata per colpire dittatori e persone accusate di gravi violazioni dei diritti umani, per sanzionare il giudice Alexandre de Moraes, che tra le altre cose ha guidato il processo contro Bolsonaro e ha imposto restrizioni alle piattaforme social statunitensi per limitare la disinformazione sul caso. Le sanzioni individuali congelano i beni detenuti negli Stati Uniti e impediscono ad aziende, enti e persone statunitensi di fare affari con i sanzionati, tra le altre cose.
– Leggi anche: Il giudice brasiliano che guida tutti i casi che contano
Di tutti questi tentativi nessuno ha funzionato: il processo a Bolsonaro è andato avanti fino ad arrivare alla condanna (che ora il parlamento sta provando a ridurre), e anzi alcune mosse di Trump gli si sono ritorte contro. Per esempio i dazi altissimi hanno fatto aumentare il prezzo di alcuni prodotti brasiliani molto diffusi negli Stati Uniti, in particolare del caffè (più di un terzo del caffè consumato dagli statunitensi arriva dal Brasile) e della carne.

Cartelloni durante una protesta a Rio de Janeiro contro la proposta dei sostenitori di Jair Bolsonaro di approvare l’amnistia per l’ex presidente, in cui Bolsonaro (a sinistra) è ritratto con la divisa da detenuto accanto a Donald Trump, 21 settembre 2025 (AP Photo/Silvia Izquierdo)
Al contrario, la fermezza di Lula di fronte alle minacce statunitensi ha pagato, e di fatto Trump ha ottenuto di rafforzare un suo rivale. Il presidente brasiliano è sempre rimasto inamovibile, ha ribadito in più occasioni l’indipendenza delle istituzioni brasiliane, ha difeso la magistratura e in particolare la Corte Suprema, dicendosi «fiero» dell’indagine che ha permesso di svelare il tentato colpo di stato. In una lettera aperta indirizzata a Trump e pubblicata sul New York Times aveva scritto: «Rimaniamo aperti a ogni negoziazione che possa portare a benefici reciproci, ma la democrazia e la sovranità del Brasile non sono in discussione».
La Corte Suprema ha anche aperto un’indagine separata contro Eduardo Bolsonaro, il terzo figlio dell’ex presidente. Eduardo è deputato in Brasile, ma vive negli Stati Uniti. Si era intestato il merito di aver convinto l’amministrazione statunitense ad alzare i dazi al Brasile per ripercussione al processo contro suo padre, e ora è accusato di aver danneggiato gli interessi del suo paese per tutelare quelli della sua famiglia.

Luiz Inácio Lula da Silva, 3 aprile 2025 (AP Photo/Eraldo Peres)
Non avendo ottenuto i risultati sperati, nelle ultime settimane Trump è tornato indietro su molte delle sue decisioni: ha revocato le sanzioni al giudice Moraes e gran parte dei dazi, e quando i giornalisti gli hanno comunicato dell’arresto di Bolsonaro, lo scorso 22 novembre, non ha mostrato particolare interesse, limitandosi a un tiepido «è un peccato».
A fine ottobre Trump e Lula si sono incontrati in Malaysia al summit dell’ASEAN (l’Associazione delle nazioni del sudest asiatico), ed entrambi i leader hanno descritto lo scambio molto positivamente. Dopo l’incontro Trump ha detto di essere «molto colpito» da Lula, e lo ha definito «a very vigorous guy», una persona molto forte. Poco dopo Jamieson Greer, il rappresentante per il commercio degli Stati Uniti, ha parlato del Brasile come di un partner «disponibile», e ha detto che i due paesi potrebbero presto raggiungere accordi commerciali favorevoli a entrambi, se saranno disposti a fare concessioni reciproche.
A inizio dicembre funzionari statunitensi e brasiliani si sono incontrati a Washington per parlare di terre rare, un gruppo di metalli molto difficili da estrarre ma molto richiesti dall’industria tecnologica. Il Brasile è tra i paesi che ne ha di più, ma non ha i mezzi per estrarli e raffinarli; gli Stati Uniti invece hanno le tecnologie ma non le risorse, che importano principalmente dalla Cina, da cui vorrebbero affrancarsi considerata la rivalità tra i due paesi.
Negli ultimi mesi, davanti a varie minacce o decisioni ostili di Trump, anche la Cina ha seguito un approccio simile a quello del Brasile (ossia non piegarsi alle sue richieste), e anche in quel caso ha funzionato. È successo per esempio con i dazi: inizialmente la Cina è stato il paese di gran lunga più colpito, perché Trump voleva convincere il presidente Xi Jinping a negoziare e cedere alle sue richieste. Non ce l’ha fatta, e ha ritrattato varie volte.
– Leggi anche: La Cina ha scoperto il bluff di Trump



