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  • Martedì 23 dicembre 2025

Christiania è un posto sempre meno speciale

Il vecchio e famoso quartiere hippie di Copenhagen è ormai integrato alla città e sta cambiando faccia, ma forse è l'unico modo che ha per sopravvivere

di Viola Stefanello

(Viola Stefanello/il Post)
(Viola Stefanello/il Post)

Da decenni una delle zone più famose di Copenhagen, la capitale della Danimarca, è il quartiere di Christiania, descritto come una specie di «città libera» di 340mila metri quadrati, vicinissima al centro della città. Negli anni è stata raccontata come un esperimento sociale unico nel suo genere, nato negli anni Settanta dall’occupazione di un’ex base militare, e che ancora oggi vive di regole proprie e diverse dal resto del paese. Altri ne lodano le eccentricità: i tanti graffiti che riprendono l’estetica e gli slogan della controcultura hippie, le abitazioni stravaganti costruite dagli occupanti nel secolo scorso e il fatto che la vendita della cannabis sia stata a lungo tollerata.

Quest’ultima cosa è cambiata negli ultimi due anni con la chiusura di Pusher Street, la nota strada in cui si concentrava lo spaccio. Già da oltre un decennio, però, a Christiania è in corso un processo inesorabile di normalizzazione e, al contempo, di turistificazione che sta cambiando faccia al quartiere.

Una via di Christiania (Viola Stefanello/il Post)

L’esperienza di Christiania nacque nel 1971 dall’occupazione di un’ex caserma militare abbandonata. A occuparla fu un gruppo eterogeneo di persone: anarchici, hippy, attivisti per il diritto alla casa, persone di attitudini libertarie che non gradivano la presenza ingombrante dello stato sociale danese nella vita dei cittadini. L’intenzione, espressa all’epoca in un manifesto, era quella di creare «una società autonoma in cui ciascun individuo potesse svilupparsi liberamente pur mantenendo delle responsabilità nei confronti del resto della comunità». Un posto, insomma, dove non esistevano le leggi e ogni individuo era libero di fare sostanzialmente ciò che voleva, purché rispettasse gli altri e le decisioni collettive prese dalla comunità.

La polizia avrebbe potuto sgomberarla subito, ma non lo fece. Dal punto di vista pratico rimuovere con la forza centinaia di persone da un’area così estesa avrebbe richiesto un grande dispiego di risorse. Gran parte dell’opinione pubblica danese, poi, guardava a Christiania con curiosità e interesse, anche perché erano anni in cui il centrosinistra dominava la politica danese. Non c’era nessuno a premere perché il suolo fosse utilizzato in altro modo, dato che si trattava di un’ex area militare in rovina, di proprietà dello stato. Nel 1972 il governo decise di riconoscere formalmente l’occupazione dichiarandola un «esperimento sociale», sottolineando però che non sarebbe dovuta durare per sempre.

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Oggi di questo esperimento sono rimasti soltanto alcuni aspetti. Il più visibile è l’estetica del quartiere, tuttora molto distinta dal resto di Copenhagen. Già nei primi anni di occupazione alcune strutture militari furono demolite, altre furono rese abitabili, e negli spazi circostanti vennero costruite decine di abitazioni in base al gusto e alla creatività di ciascuno, senza permessi edilizi o particolari criteri: è per questo che gran parte delle case a Christiania è unica, bizzarra e colorata. Molte, all’inizio, non avevano nemmeno l’elettricità, l’acqua o un allacciamento alla rete fognaria.

Residenti di Christiania durante i lavori per la chiusura di Pusher Street, 6 aprile 2024 (EPA/IDA MARIE ODGAARD/ansa)

Storicamente nessuna di queste abitazioni è mai stata proprietà di chi ci vive, sia perché la terra era di proprietà dello stato sia perché l’ideologia di Christiania rifiutava l’idea della proprietà privata. Tutti gli spazi erano considerati comuni, gestiti collettivamente dalla comunità attraverso assemblee continue. Nella pratica, chi costruiva o occupava una casa aveva il “diritto d’uso” riconosciuto dalla comunità, ma non poteva venderla. Ancora oggi quando una casa a Christiania si libera viene pubblicato un annuncio sul giornale ufficiale del quartiere e una commissione valuta le candidature. Al contempo, i residenti non pagavano le tasse comunali e contribuivano alle spese comuni del quartiere di Christiania con una cifra fissa e quasi simbolica, la cui riscossione non era forzata.

Nel 1989 il parlamento danese approvò la “legge Christiania”, che conferiva ai residenti il diritto giuridico di vivere nelle proprietà in cui stavano ma riconosceva anche il diritto del ministero della Difesa di sgomberare la zona in qualsiasi momento, nel caso fosse stato necessario. La piena legalizzazione è avvenuta nel 2011, quando la comunità ha accettato un accordo negoziato a lungo col governo. Lo stato concesse agli abitanti la possibilità di acquistare il 40 per cento della terra attraverso una fondazione creata ad hoc, e di affittare per circa un milione di euro all’anno lo spazio restante. L’accordo prevedeva anche che tutte le costruzioni della zona rispettassero le normative di sicurezza e urbanistiche danesi, e che le case non conformi fossero ristrutturate o demolite.

«Fino al 2011 tutti pagavano gli stessi soldi per vivere a Christiania, a prescindere da quanto fosse grande la loro casa», racconta Ole Lykke, che gestisce l’archivio ufficiale del quartiere. «Io sono arrivato nel 1978, e all’epoca ognuno doveva pagare 200 corone [circa 100 euro odierni, ndr] all’anno per essere un christianita. Servivano a pagare l’elettricità e l’acqua dallo stato. Poi abbiamo avviato un fondo comune per comprare attrezzature per costruire il sistema fognario, e così via».

Dopo l’accordo con lo stato, ogni christianita sopra i 18 anni si ritrovò a pagare circa duemila corone all’anno per viverci: 1.500 corone l’anno per i progetti comuni e, al contempo, 35 corone per ogni metro quadro della casa in cui vive. In totale, considerando un’abitazione di 60 metri quadri, il costo sarebbe di circa 280 euro al mese, più 200 euro circa all’anno per i progetti comuni. «Pochissimo rispetto al prezzo medio degli affitti in centro, ma comunque di più rispetto a quanto non fossimo abituati», dice Lykke.

L’accordo del 2011 ha avuto anche un altro significato concreto: da quindici anni Christiania non è più una zona autonoma e occupata, ma è stata pienamente integrata nel quadro legislativo danese.

Una pista da pattinaggio a Christiania, nel dicembre del 2025 (Viola Stefanello/il Post)

Oggi Christiania «rimane uno spazio di alterità rispetto al resto di Copenhagen», sottolinea Alberto Vanolo, professore associato di Geografia urbana all’università di Torino, che si è lungamente interessato al quartiere. «Ma oggi chi ci va si accorgerà che lì è tutto molto più normale di quel che ci si immagina. Se sei stato a Christiania anni fa e ci torni oggi, per esempio, ti colpirà il fatto che si vedano circolare dei poliziotti. Prima questa cosa semplicemente non esisteva. Oggi invece girano a due passi dai classici graffiti contro le forze dell’ordine».

Nonostante questa normalizzazione, per anni Christiania ha continuato a vivere una condizione ibrida: anche perché per anni è stato l’unico posto in città dove comprare la cannabis era facile e tendenzialmente tollerato.

«Per molto tempo ci sono stati due tipi di negozi», racconta l’architetto danese Mikkel Moller Roesdahl, che collabora regolarmente con la fondazione di Christiania. «C’erano i classici negozi di quartiere – fabbri, falegnami, negozi di biciclette, fruttivendoli – che si troverebbero anche in altre parti della città, e che servivano sia i residenti di Christiania sia chiunque provenisse dal resto di Copenhagen. E poi c’era un flusso costante di persone che entravano e uscivano da Christiania, spesso per acquistare cannabis».

Un negozio di souvenir e opere d’arte a Christiania (Viola Stefanello/il Post)

Attorno a questo flusso di visitatori esterni in cerca di cannabis erano sorti negozi di artigianato, bancarelle di street food, caffè e spazi culturali che organizzavano mostre, concerti e altri eventi: anche così, Christiania era diventato uno dei centri più rinomati della controcultura del paese.

La vendita di droghe come la cannabis, illegale nel resto del paese, era tendenzialmente tollerata dalla polizia perché intervenire per bloccarla avrebbe significato aprire un conflitto con una comunità consolidata e sostenuta da buona parte dell’opinione pubblica, che considerava Christiania una iniziativa da proteggere. La concentrazione del commercio di cannabis in una sola zona, quella di Pusher Street, era poi preferita a una diffusione capillare dello spaccio in tutta Copenhagen, più difficile da sorvegliare. I residenti del quartiere, comunque, non ammettevano la vendita di droghe pesanti.

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«Questa dinamica ha funzionato per molti anni, dalle origini di Christiania fino ai primi anni Dieci del Duemila», dice Roesdahl. A quel punto la grandissima parte del commercio di cannabis nel quartiere non era più gestita da residenti, ma da membri di gang spesso in conflitto tra loro. «Sebbene i caffè, i ristoranti e i luoghi di cultura siano inizialmente sopravvissuti, anche loro poi sono stati colpiti dalla crescente percezione che Christiania non fosse più un ambiente urbano sicuro e accogliente».

«A me la cultura della cannabis locale piaceva molto, ma il mercato della droga e tutti i soldi che ci giravano attorno hanno cominciato ad attirare le gang, e con loro la polizia», conferma Lykke, l’archivista. «Dopo aver assistito a varie sparatorie e omicidi nell’arco di pochi anni, noi stessi abbiamo deciso che Pusher Street andava chiusa».

Dopo questa decisione la sicurezza del quartiere è migliorata. Al contempo, moltissime persone che prima venivano a Christiania per fumare, passandoci tendenzialmente qualche ora, non ci vengono più così spesso. Ad aumentare sono invece i turisti di passaggio, che hanno sentito parlare del quartiere perché è in tutte le guide turistiche e la visitano rapidamente, magari mentre si trovano in città per qualche ora durante una crociera.

Oggi a Christiania «il turismo sostiene la maggior parte dei negozi e delle attività commerciali locali», dice Roesdahl: pur con tutte le storture, senza visitatori il quartiere «probabilmente non esisterebbe». Anche per questo, dice, i christianiti stanno riflettendo su quali tipi di attività commerciali dovrebbero emergere in futuro in modo da attirare di nuovo i residenti di Copenhagen, dopo la fine del commercio di cannabis.

Lykke, l’archivista che vive nel quartiere dal 1978, continua a credere nella necessità che un luogo come Christiania continui a esistere. «Un posto alternativo, lontano dalla società, dove chiunque potrebbe rifugiarsi se volesse», spiega. «So che non siamo più una città-libera, ma il mito di Christiania rimane molto importante per tante persone».

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