La volta che la CIA perse un generatore nucleare sull’Himalaya

Sessant'anni fa Stati Uniti e India pensarono che fosse una buona idea spiare la Cina con un ricevitore radio a quasi 8mila metri: non finì bene

Nanda Devi (AP Photo/Manish Swarup)
Nanda Devi (AP Photo/Manish Swarup)

L’idea di installare una stazione di spionaggio statunitense sul Nanda Devi, una delle vette più impervie dell’Himalaya, per spiare il programma nucleare cinese venne durante un cocktail party a Washington, DC, circa sessant’anni fa. Erano gli anni della Guerra fredda, c’erano costanti preoccupazioni sulla diffusione delle armi atomiche che talvolta si trasformavano in paranoie, rendendo plausibili idee che oggi appaiono ardite se non proprio azzardate. La missione sul Nanda Devi organizzata nel 1965 fu un fallimento e non solo perché la stazione non fu mai costruita: nel tentativo di farlo, la spedizione perse un generatore al plutonio, che ancora oggi suscita inquietudini sulla preservazione degli ambienti himalayani.

Si racconta che durante quel party del 1964 il generale Curtis LeMay, all’epoca capo dell’aeronautica degli Stati Uniti (tra i sostenitori della linea più dura nel gestire la Guerra fredda), avesse incontrato Barry Bishop, un fotografo della rivista National Geographic famoso per le sue imprese alpinistiche. Bishop aveva raccontato a LeMay che dalle cime più alte dell’Himalaya nelle giornate serene si poteva osservare un’ampia porzione del territorio cinese, rimanendo comunque entro il confine indiano. LeMay pensò che la grande catena montuosa potesse allora diventare un punto ideale per spiare la Cina, in un’epoca in cui non c’erano ancora grandi possibilità di farlo con i satelliti. Ottenne la collaborazione di Bishop, che fu incaricato di organizzare una prima spedizione con il coinvolgimento della CIA e dell’India, sfruttando la propria copertura da fotografo.

A metà ottobre del 1964 la Cina aveva condotto il suo primo test nucleare nella regione nord-occidentale dello Xinjiang. Gli Stati Uniti non erano riusciti a ottenere molte informazioni sul test, ma era evidente che il governo cinese stesse facendo rapidamente progressi. La preoccupazione del governo statunitense era che i piani nucleari della Cina, per quanto oscuri, potessero portare a un’ulteriore proliferazione di armi atomiche che avrebbe aggravato la Guerra fredda e rotto alcuni degli equilibri della deterrenza tra Stati Uniti e Unione Sovietica.

Anche l’India osservava con preoccupazione i progressi cinesi. Nel 1962 il suo esercito aveva perso la guerra sino-indiana per il controllo della parte nord-occidentale del Kashmir e di alcuni altri territori di confine reclamati da entrambi i paesi. Il governo indiano aveva necessità di ottenere più informazioni sui piani cinesi e collaborò quindi all’idea statunitense di installare stazioni di spionaggio sull’Himalaya.

Inizialmente i responsabili della CIA avevano proposto di collocare un sistema per intercettare le comunicazioni radio cinesi sul Kanchenjunga, la terza montagna più alta del mondo (8.586 metri), ma la proposta fu scartata perché scalarne la vetta sarebbe stato troppo difficile soprattutto con le ingombranti strumentazioni da trasportare. Fu quindi scelto il Nanda Devi (7.817 metri) sia perché relativamente più accessibile sia per la sua posizione strategica all’interno del territorio indiano, con la possibilità di avere un’ampia vista lungo il confine cinese.

Oltre a Bishop, tra i componenti della missione c’erano l’indiano Manmohan Singh Kohli, il primo ad avere guidato una spedizione dell’India sull’Everest, e lo statunitense Jim McCarthy, che in quegli anni stava innovando le tecniche di arrampicata su ghiaccio. La squadra seguì un addestramento di quattro mesi sul Denali (6.190 metri), la montagna più alta del Nordamerica in Alaska, soprattutto per prendere dimestichezza con l’attrezzatura per la costruzione della stazione di spionaggio ad alta quota.

Il sistema era una specie di stazione radio, progettata per captare i segnali radio cinesi e trasmetterli in India, dove sarebbero stati poi decodificati dai tecnici della CIA. L’antenna alta circa tre metri non avrebbe dovuto rilevare comunicazioni verbali, ma i segnali radio dei missili sperimentali usati dalla Cina, che comunicavano i propri dati ai centri di controllo in territorio cinese. La spedizione avrebbe quindi dovuto portare a quasi 8mila metri l’antenna, due ricetrasmettitori e soprattutto un generatore termoelettrico a radioisotopi (RTG) per alimentare il sistema. Questo dispositivo, sviluppato in più versioni anche per le esplorazioni spaziali, utilizzava il calore rilasciato dal decadimento del Plutonio-238 (contenuto in sette capsule) per generare elettricità che avrebbe mantenuto in funzione la strumentazione per spiare la Cina per lungo tempo, anche nelle condizioni ambientali estreme del Nanda Devi. Il generatore da solo, una volta assemblato, pesava intorno ai 20 chilogrammi.

Alla fine di ottobre del 1965, la spedizione raggiunse il Campo IV a circa 300 metri dalla vetta e dal punto dove avrebbe dovuto installare la stazione (nelle ascese di più giorni, si stabiliscono campi via via più piccoli lungo le tappe per raggiungere la cima). Una violenta bufera di neve rese però impossibile proseguire e c’era un forte rischio che Bishop e compagni restassero bloccati, rischiando l’assideramento. Dal campo base, Kohli ordinò alla squadra di lasciare l’attrezzatura in un posto sicuro e di tornare indietro il più velocemente possibile, confrontandosi con la contrarietà di McCarthy che voleva fosse portato indietro almeno il generatore. Il peso e l’ingombro avrebbero però ostacolato una rapida discesa, e prevalse la scelta di lasciarlo lassù col resto dell’attrezzatura.

Il Nanda Devi visto dal campo base (AP Photo/Satish Sharma)

Prima di lasciare il Campo IV, la squadra assicurò la strumentazione in un crepaccio, al riparo in una fenditura tra alcune rocce, utilizzando corde e piccozze. Poi iniziarono la discesa, abbandonando in gran segreto diversi chilogrammi di plutonio su una delle montagne più alte del mondo. Un tentativo di recuperare il materiale in una seconda missione organizzata nel maggio del 1966 non portò a nessun risultato. Una grande valanga aveva travolto la sporgenza di roccia e ghiaccio cui era stato fissato il dispositivo, che a quel punto era diventato introvabile. Nei due anni seguenti furono organizzate altre spedizioni, sempre infruttuose.

Nonostante l’insuccesso e la perdita di materiale radioattivo, la CIA non abbandonò completamente l’idea dello spionaggio dalle vette dell’Himalaya. Nel 1967 una nuova spedizione riuscì a installare una stazione radio sul Nanda Kot (6.861 metri) che funzionò per alcuni mesi, fornendo dati importanti per avere la conferma che la Cina non aveva ancora sviluppato missili a lungo raggio. A differenza del dispositivo sul Nanda Devi, questo secondo fu recuperato con una nuova spedizione nel 1968. Un terzo dispositivo simile fu usato nel 1973, ma ebbe vita breve perché intanto la tecnologia satellitare si era evoluta e aveva reso obsolete le stazioni di spionaggio montane.

Per molti anni la missione sul Nanda Devi e il suo esito disastroso rimasero segreti, fino a quando nel 1978 la rivista Outside pubblicò un articolo che raccontava l’intera storia, con diversi dettagli ottenuti da fonti interne al governo statunitense. L’articolo fu ripreso da molti giornali e alcuni membri del Congresso chiesero all’allora presidente Jimmy Carter che venisse svolta un’indagine, ma non ci furono molte conseguenze. Il governo statunitense mantenne la posizione di sempre in questi casi: non commentare le accuse relative alle attività di intelligence. Anni dopo sarebbe emerso che Carter si era messo in contatto con il primo ministro indiano di allora, Morarji Desai, per ridurre al minimo la circolazione delle informazioni.

L’articolo pubblicato dalla rivista Outside nel 1978 sulla storia del Nanda Devi (Jason Andrew/The New York Times)

La notizia in India fu comunque molto ripresa e portò a grandi polemiche politiche, spingendo Desai a riconoscere formalmente l’operazione e a istituire un comitato scientifico di esperti, con il compito di studiare il problema della perdita del generatore. La preoccupazione principale era che fossero avvenute contaminazioni di alcuni dei principali corsi d’acqua che originano in quell’area dell’Himalaya, compreso il Gange, il fiume più importante dell’India. Le misurazioni non portarono a rilevare livelli anomali di radiazioni e fu considerato improbabile che le capsule contenenti il Plutonio-238 si fossero aperte. Il comitato raccomandò di fare controlli ambientali periodici e di valutare in futuro l’impiego di nuove tecnologie per localizzare il dispositivo.

A distanza di sessant’anni il generatore non è mai riemerso, ma sono riemerse periodicamente polemiche intorno alla storia del Nanda Devi, talvolta usate strumentalmente soprattutto da esponenti politici dell’India. Le loro dichiarazioni hanno in alcuni casi rinfocolato le preoccupazioni per eventuali contaminazioni dovute al materiale radioattivo o per i suoi effetti sui ghiacci. A inizio febbraio del 2021 un’alluvione che causò più di 80 morti e oltre 120 dispersi fu ricondotta da alcuni al calore generato dalle capsule, anche se la causa accertata era la rottura di un ghiacciaio: era impossibile che il calore fosse sufficiente per destabilizzare ampie porzioni di ghiaccio.

Le stesse preoccupazioni su possibili contaminazioni ambientali sono state ridimensionate nel tempo. Il Plutonio-238 emette radiazioni alfa che non sono in grado di attraversare la pelle e sono fermate da pochi centimetri d’aria. Possono essere pericolose solo se il materiale entra nel corpo per ingestione o inalazione, di conseguenza anche se le capsule si fossero rotte non avrebbero portato a contaminazioni significative. Se mai dovesse succedere, il materiale verrebbe diluito e disperso in enormi quantità d’acqua rendendolo difficilmente pericoloso per milioni di persone.

Il Plutonio-238 non è inoltre un buon candidato per produrre una cosiddetta “bomba sporca”, cioè un ordigno convenzionale usato per disperdere materiale radioattivo. La maggior parte del materiale non porterebbe a dosi significative di radiazioni, anche perché il plutonio non resta sospeso in aria a lungo, e ricadrebbe in un’area limitata.

Mentre negli Stati Uniti la spedizione sul Nanda Devi è vista ancora oggi come una questione di sicurezza nazionale, che comportava di assumersi qualche rischio, in India per molti la percezione è diversa, come ha raccontato Kohli, che fu responsabile della missione da parte indiana: «Non avrei fatto la missione in quel modo. La CIA ci lasciò all’oscuro di tutto. Il loro piano era folle, le loro azioni furono folli e chiunque li consigliò era un folle. E noi ci finimmo in mezzo».