A Gela il petrolio ha creato più danni che sviluppo
Sessant'anni fa Eni promise che avrebbe portato benessere e progresso, oggi la città è povera e gravemente inquinata
di Simone Fant

Nel 1957 Enrico Mattei, che era presidente di Eni (Ente Nazionale Idrocarburi, la grande azienda petrolifera all’epoca interamente di proprietà statale), decise di costruire a Gela uno dei più grandi stabilimenti petrolchimici d’Europa. Il progetto avrebbe avuto un impatto enorme sul territorio: Gela, che si trova sul mare nel sud-est della Sicilia, era una città povera e con un’economia prevalentemente agricola e contadina. Mattei promise alla popolazione che il petrolio avrebbe portato sviluppo e benessere, rendendo la città un ricco polo industriale che avrebbe contribuito a colmare il divario economico tra il Sud e il Nord. Sessant’anni dopo si può dire che le cose sono andate molto diversamente.
Oggi Gela è una città economicamente depressa e con scarse opportunità lavorative, con molti problemi causati o aggravati proprio da quel petrolio su cui si basavano le promesse di Mattei. Il centro storico, segnato da decenni di abusivismo edilizio, si è progressivamente spopolato, mentre l’ingombrante sito petrolchimico che incombe a poche centinaia di metri dalla spiaggia ostacola lo sviluppo del turismo, che pure avrebbe grandi potenzialità in quella zona.

Il sito petrolchimico in fase di dismissione a poche centinaia di metri dalla principale spiaggia della città (Simone Fant/il Post)
È anche una città molto inquinata a causa dell’attività industriale, e in cui numerose analisi epidemiologiche hanno registrato un aumento di malattie e casi di malformazioni congenite di vario genere. Non si può dire con certezza che le due cose siano legate, e anzi i processi non lo hanno mai riconosciuto, ma è un’ipotesi che alcuni studi scientifici hanno ritenuto credibile.
C’è in ogni caso una forte urgenza di risanamento ambientale, riconosciuta anche a livello istituzionale, ma si attende da 27 anni il completamento della bonifica del suolo e delle falde sotto il polo petrolchimico, che dal 2014 è ridotto alla sola bioraffineria, un impianto che produce carburanti a partire da scarti di origine animale e vegetale. Gela è bloccata tra la pesante eredità industriale legata al petrolio e la ricerca di un nuovo modello di sviluppo che possa risollevarla.
Quando negli anni Cinquanta iniziarono le ricerche sul petrolio, a Gela fu trovato un tipo di greggio piuttosto scadente perché denso, bituminoso e ricco di zolfo. La cosa non scoraggiò Mattei, che vide comunque l’opportunità di trasformarlo in una serie di prodotti petroliferi, tra cui materie plastiche e acido solforico, elemento fondamentale per la produzione di fertilizzante. Il tentativo di valorizzare le risorse italiane era coerente con la politica energetica italiana di quegli anni, guidata dallo stesso Mattei, che però cominciò davvero a fare grandi affari per il paese soprattutto quando concentrò gli investimenti e la ricerca del petrolio all’estero (sempre a partire dagli anni Cinquanta).
A Gela l’idea di Mattei (che morì nel 1962 in un incidente aereo, riconosciuto come attentato solo molti anni dopo) era che l’industria di Stato non avrebbe soltanto creato occupazione e incrementato il reddito dei residenti, ma ne avrebbe trasformato anche la mentalità e le abitudini: un approccio che negli anni successivi venne duramente contestato, per esempio dai sociologi Eyvind Hytten e Marco Marchioni nel saggio Industrializzazione senza sviluppo. Il libro già nel 1970 criticava la visione miracolistica promossa da Eni per cui sarebbe stato sufficiente creare migliaia di posti di lavoro per sradicare miseria e arretratezza, senza considerare gli aspetti sociali e culturali del territorio. In effetti quel piano non riuscì.
Per molti anni il simbolo della disgregazione tra il tessuto sociale cittadino e l’azienda fu il villaggio Macchitella, un quartiere costruito esclusivamente per i dipendenti di Eni e le loro famiglie. Fu realizzato secondo criteri urbanistici tipicamente nordici e in una posizione tale da evitare che gli abitanti respirassero i fumi provenienti dalle ciminiere della raffineria.

L’estrazione di petrolio nella piana di Gela (Simone Fant/il Post)
A Macchitella l’acqua potabile non mancava mai, c’erano cinema, negozi e campi sportivi. Il quartiere fu progettato in modo che il dipendente potesse vivere senza entrare in contatto con la città, che all’epoca aveva problemi igienici e alle reti idriche. «A Gela non si viveva bene e non c’era motivo di andarci. Un collega di Macchitella mi disse che in 30 anni non aveva mai fatto una passeggiata in centro», dice un ex dipendente.
Passeggiando per le strade del centro storico si vedono le numerose case abusive costruite tra gli anni Sessanta e Ottanta, quando i residenti di Gela passarono da 40mila a 74mila abitanti: un aumento rapidissimo dovuto al polo petrolchimico, che oltre ad attirare nuove persone garantì stipendi per metter su famiglia, ponendo le basi per la necessità di abitazioni più grandi. In quegli anni il comune non aveva un piano regolatore, e l’assenza di regole urbanistiche spinse molti cittadini ad ampliare le proprie case senza autorizzazioni. Oggi molti edifici sono fatiscenti o abbandonati, altri sono in vendita ma non ci sono acquirenti.

Appartamenti in vendita nel centro storico di Gela (Simone Fant/il Post)
Prima della chiusura del sito petrolchimico nel 2009 e della raffineria nel 2014, Eni e le imprese dell’indotto impiegavano oltre 12mila persone: oggi la bioraffineria ha solo mille dipendenti. Non esistono dati aggiornati sulla situazione economica della città, ma secondo uno studio della Fondazione IFEL, che assiste i comuni in materia di finanza ed economia locale, nel 2021 solo il 42 per cento dei residenti di Gela aveva un lavoro: un tasso di occupazione molto inferiore alla media nazionale, che oggi è pari al 62,5 per cento.
Il sindaco Giuseppe Terenziano Di Stefano dice che è vero che non c’è più l’economia di 15 anni fa e che molti lavoratori sono stati ricollocati nelle raffinerie del nord, ma l’agricoltura è rimasta un settore solido. Dice anche che l’obiettivo è ripartire dal turismo e dalle attività culturali. Parlando con le persone del posto però emerge soprattutto una grossa sfiducia sulle possibilità per i giovani in città.
Dal 2002 un’area di oltre 53 chilometri quadrati, che comprende una riserva naturale, lo stabilimento industriale e una grossa parte di mare, è indicata come sito di interesse nazionale (SIN), da bonificare urgentemente perché presenta un pericolo per la salute umana. Nel suolo e nelle falde acquifere sono state trovate numerose sostanze inquinanti riconducibili alle attività della raffineria e del sito petrolchimico, tra cui idrocarburi, metalli pesanti e composti inorganici. Questa graduale contaminazione, iniziata quando ancora non esistevano le leggi ambientali e proseguita fino a una decina di anni fa, ha esposto la popolazione al rischio di diverse malattie, in particolare chi lavorava nel sito industriale.

Parte del materiale raccolto da Emanuele Amato, presidente dell’associazione ambientalista Amici della Terra, che a partire dal 1994, anno in cui sua sorella morì a 33 anni a causa di un tumore, ha documentato decenni di inquinamento ambientale causato dall’impianto petrolchimico dell’Eni (Simone Fant/il Post)
Gli studi di Sentieri, il programma nazionale di sorveglianza epidemiologica che dal 2006 monitora e divulga lo stato di salute delle persone che vivono in aree SIN, hanno sempre registrato a Gela dati sopra la media: sia di morte e ricoveri per tutti i tumori maligni, sia di alcuni tipi di malformazioni congenite, soprattutto del sistema urinario.
«Non abbiamo l’assoluta certezza che esista un nesso causale tra la presenza di contaminanti di origine industriale e l’eccesso delle patologie, ma rimane un’ipotesi rilevante che andrebbe ulteriormente sorvegliata e indagata», spiega Amerigo Zona, ricercatore dell’Istituto Superiore di Sanità e responsabile scientifico del programma, che ancora non ha ricevuto finanziamenti dal ministero della Salute per redigere un nuovo rapporto (l’ultimo è del 2023).
In epidemiologia come in tribunale, dimostrare il legame tra una malattia e l’inquinamento è molto complesso perché esistono un sacco di fattori che possono in misura diversa contribuire allo sviluppo di una patologia: nel caso dei tumori polmonari possono influire il consumo di alcol e di sigarette, la predisposizione familiare, l’esposizione ad alcuni metalli pesanti o la qualità dell’aria, che nel caso di Gela è sempre stata poco sorvegliata.
Per provare con assoluta certezza il rapporto di causalità spesso non sono sufficienti neanche gli studi più specifici e statisticamente rilevanti. A Gela per esempio, tra il 1991 e il 2010, i casi di bambini nati con ipospadia, un tipo di malformazione del pene in cui l’apertura dell’uretra si trova in una posizione anomala, erano all’incirca il doppio rispetto alle medie regionali e nazionali. Secondo Fabrizio Bianchi, epidemiologo ambientale del Consiglio Nazionale delle Ricerche e autore di diverse ricerche a Gela, la causa principale sarebbe l’inquinamento del polo industriale: «Non è stato dimostrato che sia l’unica, certo, ma chi critica le nostre conclusioni non ha prove che siano stati altri fattori a causare le ipospadie», dice.
Lo scorso maggio la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso presentato da un uomo nato con una malformazione congenita: chiedeva un risarcimento a Eni sostenendo che la sua patologia fosse provocata dall’inquinamento prodotto dalla raffineria. La Corte ha deciso così perché ritiene non sia stato dimostrato il nesso di causalità.
Dalla chiusura della raffineria nel 2014 i casi di ipospadia sono leggermente diminuiti, ma secondo Bianchi il rischio rimane ancora alto, perché l’area non è stata del tutto bonificata. Nonostante le raccomandazioni degli epidemiologi, l’osservatorio epidemiologico regionale, che gestisce il registro regionale delle malformazione congenite, non pubblica aggiornamenti da 5 anni per mancanza di personale.
Dal più recente resoconto sullo stato di avanzamento dei procedimenti di bonifica consultabile sul sito del ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica risulta che ancora nessuna delle aree (suolo e falde acquifere) dell’ex impianto petrolchimico è stata bonificata. Il ministero classifica le aree su base catastale e certifica l’avvenuta bonifica solo se l’intera porzione di suolo è stata effettivamente risanata: quindi è possibile che la bonifica sia ancora in corso.

Lo stabilimento petrolchimico dell’ENI, ora in parte dismesso (Simone Fant/il Post)
Secondo Eni Rewind, società di Eni che si occupa della bonifica del sito, «alcune aree sono state già bonificate o messe in sicurezza permanente, e i livelli di rischio sanitario sono inferiori a quelli stabiliti sia a tutela degli operatori che lavorano nel sito che della popolazione limitrofa», come scrive un portavoce via mail.
Dal 1999 Eni ha speso circa 500 milioni di euro per il risanamento del sito industriale. È una cifra alta ma con un impatto relativo, se distribuita su 27 anni e in relazione al bilancio di una multinazionale che negli ultimi due anni ha fatturato oltre 182 miliardi di euro, risultando prima tra le imprese italiane.
Nel corso degli anni la procura di Gela ha avviato diverse indagini, contestando a dirigenti e operatori di Eni ipotesi di reato ambientale tra cui dispersione di reflui industriali, stoccaggio illecito di sostanze tossiche e rifiuti pericolosi, omessa bonifica delle falde acquifere e disastro ambientale, l’inchiesta più grossa. Le persone imputate sono sempre state assolte.



