La Champions Cup di rugby conta sempre meno
Il principale torneo europeo per club non ha più il fascino di un tempo, lo vincono quasi sempre i francesi e ci giocano squadre sudafricane

A maggio, dopo che il Bordeaux aveva vinto la Champions Cup, il principale torneo europeo per squadre di rugby, e quando ancora era in corsa per il campionato francese, il suo presidente Laurent Marti disse che tra le due cose preferiva la possibilità di «essere campione di Francia». Lo scorso weekend il Bordeaux – che alla fine non vinse il campionato francese ma si è qualificato anche a questa edizione della Champions Cup – ha giocato la sua prima partita nel torneo 2025-2026 contro i Bulls di Pretoria, in Sudafrica.
La scarsa considerazione di Marti per la competizione e il fatto che una competizione europea abbia squadre sudafricane sono due dei principali argomenti per spiegare come mai la Champions Cup di rugby piaccia sempre meno. A questi due temi si aggiungono le critiche al fatto che vi partecipano troppe squadre e che il formato, più volte cambiato negli ultimi anni, non è granché avvincente. Ci sono spesso partite sbilenche e sbilanciate, con squadre troppo più forti di altre (e alcune talvolta relativamente disinteressate a vincere) e condizioni meteorologiche particolari (in Sudafrica è primavera-quasi estate ora).
Seppur con nomi diversi, la Champions Cup esiste da trent’anni e le critiche nei suoi confronti sono piuttosto diffuse e tra loro coerenti in un generale sentimento di nostalgia per il passato del torneo. L’Équipe ha scritto che «non somiglia più a quello che fu nei suoi primi vent’anni», il Guardian ha parlato di un torneo che «nei suoi anni migliori aveva tutto» ma «il cui fascino sta rischiando di entrare in una fase di declino», il Times ha scritto che la Champions Cup non ha più «lo splendore dei primi anni».
La prima edizione di Champions Cup iniziò nel 1995, un anno da prima-e-dopo per il rugby, che trent’anni fa si aprì al professionismo cambiando di conseguenza molte cose nella sua struttura e nel suo funzionamento. C’erano 12 squadre di sei paesi, comprese due italiane (Benetton Treviso e Amatori Rugby Milano), mancavano le squadre inglesi e scozzesi (sempre piuttosto restie ai cambiamenti, specie in uno sport come il rugby) e la prima partita fu vinta dal Tolosa, una delle più forti squadre nella storia del rugby, in trasferta contro il Farul Constanta, una squadra rumena di cui non si sapeva granché.
Per buona parte dei suoi anni migliori il torneo è stato noto come Heineken Cup, tranne in Francia, dove i profondi legami tra rugby e birra niente poterono contro la legge Évin, che dal 1991 limita fortemente la pubblicità di bevande alcoliche. Ora è ufficialmente noto come Investec Champions Cup, dove il posto da name sponsor della nota birra olandese è stato preso da un un grande gruppo bancario anglo-sudafricano (pure il nuovo nome è meno attraente del precedente).

Una touche nel 1996, durante una partita di Heineken Cup tra Cardiff e Tolosa (Dave Rogers/ALLSPORT)
Alla Champions Cup di quest’anno partecipano 24 squadre, che come nella Champions League del calcio ci si qualificano grazie ai risultati nei rispettivi campionati: 8 arrivano dal campionato francese, 8 da quello inglese e 8 dallo United Rugby Championship.
Ed è qui che le cose si complicano: mentre il campionato francese e quello inglese sono in effetti due campionati nazionali (peraltro di altissimo livello), lo United Rugby Championship è già di suo un campionato sovranazionale, principalmente europeo ma pure un po’ sudafricano. Ci giocano infatti squadre gallesi, irlandesi, scozzesi, italiane e, dal 2017, sudafricane.
Il motivo è che il Sudafrica ha una grande tradizione rugbistica, e però è lontano da entrambi i principali centri mondiali del rugby: l’Oceania e l’Europa. Per questioni economiche e di fuso (che tra Sudafrica ed Europa è praticamente assente) le sue squadre sono finite a giocare in United Rugby Championship e le migliori tra loro – cioè quelle che arrivano nelle prime otto posizioni di quel torneo – anche in Champions Cup.
L’aggiunta delle squadre sudafricane fu fatta anche per dare varietà e imprevedibilità alle partite. Ma ha portato comprensibili ostacoli logistici e sportivi, perché bisogna fare lunghe trasferte verso un emisfero in cui il clima è parecchio diverso rispetto a quello di partenza. Partire dall’inverno scozzese e trovarsi a giocare nei 30 °C dell’estate sudafricana non è semplice, e non lo è nemmeno il contrario. Un po’ per questo e un po’ perché le squadre tendono a volte a preservare i giocatori più forti per altri tornei, succede quasi sempre che tra sudafricane ed europee in Champions Cup vinca chi gioca in casa: le sudafricane in Sudafrica e le europee in Europa.

Ange Capuozzo il 7 dicembre a Tolosa, Francia (Lionel Hahn/Getty Images)
Le squadre possono permettersi di preservare i giocatori anche per via del formato della Champions Cup. Le 24 squadre sono infatti divise in 4 gruppi da 6 squadre ciascuno, e alla fase successiva si qualificano quattro squadre per ogni girone (e le quinte classificate finiscono in una competizione europea di ancora minore importanza). Ci si può insomma permettere di prendere un po’ sottogamba una partita dopo ore di volo.
Oltre a non essere granché selettivo (dopo i gironi si qualificano alla fase successiva 16 squadre su 24) il formato attuale è anche piuttosto astruso, perché sebbene i gruppi siano da 6 squadre, ogni squadra gioca contro 4 altre squadre anziché 5. «La cosa peggiore» ha scritto l’Équipe, «è che ci sono squadre che partecipano controvoglia e si ritrovano alle fasi finali quasi contro la loro volontà». Thomas Ramos, rugbista francese del Tolosa, è stato ancora più specifico, e drastico: «Ci sono 24 squadre ma se provi a contare quelle che giocano davvero ti bastano le dita di due mani».
Il prestigio del torneo non è aiutato né dal recente passato né dal futuro che pare attenderlo. Le ultime cinque edizioni sono state vinte sempre da squadre francesi (alcune delle quali, come abbiamo visto, lo ritengono comunque secondario rispetto al campionato nazionale) e nella storia del torneo le vincitrici sono arrivate solo da Francia, Inghilterra e Irlanda.
Guardando invece al futuro, dal 2028 – anno in cui potrebbe infine partire R360, un nuovo grande torneo internazionale tra squadre di club – la Champions Cup sarà ulteriormente snaturata. Alla fase a gironi seguirà infatti una fase finale in cui le migliori squadre europee (e sudafricane) incontreranno squadre oceanine e giapponesi. Per un anno – e da lì in avanti una volta ogni quattro anni – la Champions Cup diventerà infatti una sorta di base per il Mondiale per club di rugby.
È come se nel calcio, finita la prima fase della Champions League, una volta ogni quattro anni le squadre qualificate dovessero giocare contro squadre sudamericane, africane o asiatiche. Senza che quell’anno venisse assegnata la Champions League, ma – appunto, il Mondiale per club. In questo modo si evita di aggiungere un torneo, ma nel tentativo di crearne uno nuovo si rischia di ridurre l’importanza di quello che già c’è.
Come mostrano le prospettive per il 2028, i problemi della Champions Cup sono comunque parte di una ancor più ampia questione che riguarda tutti i tornei internazionali di rugby. In breve, visti i grandi divari tra squadre più forti e più deboli, sia a livello di nazionali che a livello di club, il rugby – soprattutto quello per club – fatica a trovare calendari e forme adeguate, capaci di imporsi e resistere nel tempo.
E comunque, nel frattempo, c’è ancora chi – seppur tra tante critiche – continua a ritenere la Champions Cup «spettacolare» e a parlarne come di un torneo che, quando è al suo meglio, non ha nulla da invidiare ai migliori momenti del rugby giocato dalle migliori nazionali al mondo. Per l’edizione di quest’anno le squadre considerate favorite sono il Bordeaux campione in carica e il Tolosa, squadra del fortissimo mediano di mischia Antoine Dupont e dell’italiano Ange Capuozzo, in gran forma nelle ultime partite.



