Ci sono solo due paesi europei in cui le persone sono più povere di 20 anni fa
Uno è la Grecia, l'altro provate a indovinare

Tra il 2004 e il 2024 ci sono stati solo due paesi nell’Unione Europea in cui i redditi non sono aumentati in termini reali, cioè considerando cosa davvero una persona può fare e comprare con quello che guadagna tenendo conto del costo della vita: uno è la Grecia, e l’altro è l’Italia. Secondo nuovi dati di Eurostat (l’ufficio statistico dell’Unione) nei paesi europei il reddito pro capite reale è aumentato del 22,3 per cento, mentre in Italia è diminuito del 3,9 e in Grecia del 5,1. La condizione italiana è quindi accomunata a quella di un paese, la Grecia, che ha affrontato una crisi epocale, che è quasi fallito, che è stato praticamente commissariato dalle istituzioni internazionali, e che sicuramente non è, come l’Italia, una delle economie più grandi e importanti dell’Unione Europea.
Una premessa: con reddito non si intende solo quanto si guadagna con il lavoro, come lo stipendio di un dipendente o i compensi di un lavoratore autonomo, ma anche proventi da investimenti, da case in affitto, e via così. Il reddito misura quindi su quanti soldi possono effettivamente contare le persone, ed è un indicatore del benessere economico degli individui più generale e completo del solo dato sugli stipendi. Ma è evidentemente molto legato a questi ultimi, che forse sono la variabile che più incide sulla condizione economica delle persone. Ed è per questo che un ragionamento sui redditi non può prescindere da come vanno gli stipendi.
Dal grafico si notano gli straordinari picchi positivi dei paesi dell’Est, come la Romania, dove i redditi sono aumentati del 134 per cento in vent’anni, e dei paesi baltici, come la Lettonia, i cui abitanti hanno avuto un incremento del 95 per cento dei loro redditi. È evidente che paragonarli con l’Italia sarebbe improprio: questi sono tutti paesi che partivano da condizioni più svantaggiate, e le cui economie hanno beneficiato della recente adesione all’Unione Europea e all’euro, che hanno dato una dirompente spinta alla crescita e che li hanno aiutati ad avvicinarsi al tenore di vita degli altri paesi membri.
Ma il confronto resta impietoso anche rispetto alle economie paragonabili con quella italiana per dimensione e importanza, come quella tedesca, francese e spagnola: in Germania i redditi reali sono cresciuti del 24,3 per cento, in Francia del 21,2, e in Spagna del 10,7. Nella pratica significa che i tedeschi, i francesi e gli spagnoli stanno meglio oggi rispetto a vent’anni fa. In Italia invece si sta peggio.
Le ragioni hanno sicuramente a che fare con alcune questioni internazionali e quindi condivise da tutti i paesi europei, come le tre crisi economiche che si sono susseguite (quella del 2008, quella del 2011, e la crisi dovuta alla pandemia a partire dal 2020). Ma c’entra soprattutto il recente aumento del costo della vita, che ha ridotto il potere di acquisto delle persone. Altrove però i redditi crescevano lo stesso, più che compensando le crisi e l’inflazione; in Italia invece non è successo per motivi che hanno a che vedere con questioni tutte italiane.
Il primo problema è che negli ultimi vent’anni l’economia italiana non è cresciuta, e come conseguenza non sono cresciuti neanche i redditi delle persone: oggi in Italia il PIL – il Prodotto Interno Lordo, cioè la migliore approssimazione di come va l’economia – è solo leggermente superiore agli inizi degli anni Duemila.
C’entrano le crisi economiche, sì, ma molto dipende soprattutto dalle scelte industriali del paese, che ha puntato più sui settori tradizionali (e che pagano peggio) che su quelli più innovativi e ad alta potenzialità di crescita: le cause degli stipendi cronicamente bassi sono da ricercare per esempio nella scelta di incentivare settori come il turismo o l’edilizia, con scarse prospettive di sviluppo e con stipendi molto bassi.
Sono da ricercare anche nella narrazione diffusa del cosiddetto “piccolo è bello”: la convinzione per cui le piccole e medie imprese italiane, che sono la stragrande maggioranza, avrebbero migliori prospettive e flessibilità per crescere rispetto alle grandi. La ricerca economica ha dimostrato negli anni che in realtà è più un punto di debolezza, e che i vantaggi sono sminuiti dal fatto che in queste imprese si innova poco e c’è una cultura imprenditoriale poco evoluta.
Un altro problema è che negli ultimi vent’anni non è cresciuta neanche la cosiddetta produttività del lavoro, cioè il reddito prodotto da ciascun lavoratore per l’azienda per cui lavora: dal 2004 è rimasto più o meno lo stesso, mentre è aumentato negli altri paesi. Non è una questione di pigrizia dei lavoratori italiani, ma è legata al fatto che sono meno istruiti e formati, e che spesso vengono fatti lavorare in contesti inefficienti, come aziende piccole e inadeguate alla concorrenza internazionale, lente a innovare processi e tecnologie, azzoppate da una legislazione poco chiara e da una burocrazia onerosa.
C’è poi anche una questione molto legata agli stipendi dei lavoratori dipendenti e che riguarda la cronica debolezza dei sindacati italiani, le organizzazioni che rappresentano i lavoratori, che negli ultimi vent’anni non sono stati in grado di negoziare aumenti di stipendio che migliorassero la condizione economica effettiva dei lavoratori. Lo si vede da un dato piuttosto clamoroso, visto da fuori: in Italia circa la metà dei lavoratori lavora con un contratto scaduto.
Sono i cosiddetti contratti collettivi nazionali, ce n’è uno per ogni professione e settore, e sono negoziati a livello nazionale dai sindacati e dalle associazioni datoriali (che rappresentano le aziende): stabiliscono le condizioni di base dei lavoratori dei diversi settori, come lo stipendio e l’orario, a prescindere da dove vivano e dal fatto che siano o no iscritti al sindacato. Durano per un periodo prestabilito, solitamente un triennio, dopo il quale sindacati e associazioni datoriali devono rinegoziarne le condizioni: è proprio in queste occasioni che si contrattano aumenti di stipendio che valgano per tutti i lavoratori sottoposti a questi contratti. Ma in Italia tra una rinegoziazione e un’altra passano anche diversi anni, in cui gli stipendi restano fermi: secondo l’Istat in media si aspettano due anni e mezzo da quando il contratto è scaduto.
La buona notizia è che negli ultimi anni il rinnovo dei contratti è stato più vivace, ma solo perché nel frattempo i sindacati dovevano dare risposta a un’urgenza concreta dei lavoratori che rappresentavano: quella di recuperare il grande aumento del costo della vita che c’è stato come conseguenza della pandemia e della guerra in Ucraina. Secondo i dati OCSE, comunque, l’Italia è il terzo paese europeo per dimensione del divario ancora da colmare, dopo Repubblica Ceca e Svezia.
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