Il mercato del lavoro nel settore turistico ha un problema strutturale
Cioè gli stipendi, che sono cronicamente bassi e hanno poche prospettive di crescita: uno dei motivi principali per cui non si trovano lavoratori
Quando si parla di turismo l’assunto è quasi sempre che sia un settore prezioso a prescindere, su cui investire e puntare per lo sviluppo più ampio dell’economia italiana. In Italia il dibattito intorno al business dell’accoglienza dei visitatori è sempre legato a un dato: vale il 6 per cento del Prodotto Interno Lordo italiano, circa il 13 per cento se si considerano anche i servizi che non generano valore nel solo turismo, come la ristorazione e i trasporti. Una quota alta, che spinge spesso la politica a parlare del settore come del «traino dell’economia italiana» o il «petrolio italiano», nonostante altri settori valgano in realtà molto di più, come l’industria.
Se poi questa quota si valuta in termini qualitativi, cioè in base a quanta parte della collettività riesce davvero a beneficiare degli effetti economici del turismo (lasciando fuori quelli culturali e sociali, più difficilmente misurabili, e tutto il dibattito legato all’overtourism), diventa chiaro come il turismo non arricchisca poi molto l’economia italiana. Sicuramente non i lavoratori: gli stipendi dei dipendenti del settore turistico – dai bagnini degli stabilimenti balneari ai portieri degli alberghi, talvolta anche stagionali o precari – sono bassi e fermi da anni, nonostante le aziende dalla pandemia in poi stiano beneficiando di prezzi in forte rialzo.
Assieme alle condizioni di lavoro spesso massacranti, è la ragione principale per cui sempre meno persone sono disposte a fare questi lavori: ne ha parlato recentemente in una sua analisi l’economista Riccardo Trezzi, fondatore della società di consulenza Underlying Inflation.
Gli stipendi italiani notoriamente crescono poco, in tutti i settori. Ma quelli dei dipendenti del turismo sono cresciuti molto meno rispetto ad altri: c’entrano ragioni strutturali del settore, ma anche il fatto che gli imprenditori abbiano deciso deliberatamente di non aumentarli nonostante abbiano assai rincarato i loro servizi.
I dati ISTAT sulla retribuzione oraria dei dipendenti di alberghi e ristoranti – che possiamo interpretare come abbastanza rappresentativi del settore, e l’ISTAT non elabora un indice complessivo per l’intero turismo – mostrano che dal 2007 a oggi è aumentata in media del 25 per cento, poco meno della media dei dipendenti italiani del 28 per cento e molto meno del 45 per cento medio dei settori della manifattura. Gran parte degli aumenti delle retribuzioni nel turismo risale a prima del 2016, in occasione di passati rinnovi dei contratti, e da allora sono state sostanzialmente stabili. A luglio è stato concordato un nuovo rinnovo, che però non è così vantaggioso (ci arriviamo).
A prima vista sembrano aumenti piuttosto consistenti: ma lo sono solo in termini nominali, cioè senza tenere conto dell’inflazione, e quindi del costo della vita e delle cose che si possono fare o comprare con quei soldi. Nello stesso periodo l’inflazione cumulata è stata del 37 per cento: quindi al netto dei rincari gli stipendi di chi lavora nel settore manifatturiero sono aumentati in termini reali dell’8 per cento, mentre le retribuzioni dei dipendenti di hotel e ristoranti si sono ridotte del 10 per cento circa. Se poi si allarga l’analisi ad altri comparti del turismo, come quello balneare, dei tour operator, e via così, secondo i calcoli di Trezzi gli stipendi sono calati in termini reali di quasi il 15 per cento.
Che gli stipendi del settore turistico tendano a essere più stagnanti e bassi degli altri è cosa nota e strutturale. Già di per sé il turismo è un settore a basso valore aggiunto, cioè in grado di generare poco valore rispetto ai costi che sostiene, il che pone dei limiti strutturali ai livelli delle retribuzioni: in sostanza chi lavora in questo settore non può attendersi neanche con la carriera più promettente gli stipendi percepiti in settori più ricchi, come l’industria o i settori innovativi. In più stipendi già bassi fanno fatica a crescere perché nel turismo è difficile che aumenti la produttività, ossia la misura dell’efficienza del sistema produttivo
Facciamo un esempio molto banale e semplicistico: il ristorante A serve 100 coperti impiegando quattro camerieri, due cuochi e due forni, mentre il ristorante B ne serve 150 impiegando allo stesso modo quattro camerieri, due cuochi e due forni. È possibile che i camerieri del ristorante B siano più veloci a servire, o che i forni siano in grado di cuocere più pietanze allo stesso tempo. Il risultato è che il ristorante B è più produttivo, perché a parità di spese riesce a generare più reddito. Un’azienda più produttiva è anche un’azienda più ricca, che può aumentare gli stipendi ai propri dipendenti, reinvestire i guadagni per diventare ancora più produttiva oppure creare utili per l’imprenditore. Ma se la produttività non aumenta, non aumenteranno nemmeno gli stipendi.
Nel settore turistico l’aumento della produttività incontra evidenti limiti strutturali: alberghi e ristoranti hanno un dato numero di stanze e tavoli, gli stabilimenti balneari non possono aumentare più di tanto la densità degli ombrelloni, e così via. Questo significa che le aziende turistiche riescono ad aumentare i loro profitti solo fino a un certo punto, il che riduce lo spazio per aumentare gli stipendi.
Questo vale per molti settori a basso valore aggiunto, come l’agricoltura o l’edilizia, mentre non vale per i settori dove il ruolo della tecnologia ha grandi possibilità di aumentare la produttività, come per esempio nell’industria e nella manifattura in generale.
– Leggi anche: Perché in Italia gli stipendi sono così bassi
Tutto questo spiega il mancato aumento strutturale degli stipendi. A questo si aggiunge però la mancata volontà delle imprese di far salire le retribuzioni a fronte di un aumento generale del costo della vita, e soprattutto a fronte di grossi rincari che le aziende del turismo hanno scaricato sui clienti.
Trezzi fa l’esempio degli alberghi. Dal 2012 i prezzi dei servizi ricettivi sono aumentati di circa il 60 per cento. Gran parte di questi rincari si sono visti negli anni successivi alla pandemia: inizialmente le strutture dovevano rifarsi dei mesi di inattività e dell’aumento dei costi per adattarsi alle regole sanitarie, e dopo ci sono state l’inflazione e la crisi energetica, che hanno fatto salire il costo delle bollette e i prezzi di praticamente tutto quello che serve a un albergo per restare in funzione, dal cibo per la colazione ai detersivi per pulire le stanze. L’aumento delle loro tariffe è stato però ben più alto dell’inflazione generale, che nello stesso periodo è stata cumulativamente del 23 per cento: significa che gli alberghi hanno aumentato i loro prezzi due volte in più rispetto a quanto successo all’economia in generale, e rispetto a quanto sarebbe giustificato dall’aumento dei costi.
In sintesi, mediamente, gli operatori turistici hanno aumentato i loro profitti, tenendo però fermi gli stipendi dei dipendenti.
A luglio di quest’anno è stato firmato il rinnovo del principale contratto collettivo del settore del turismo, quello che regola i rapporti di lavoro di base tra le aziende del settore e i loro dipendenti, e che viene periodicamente negoziato tra i sindacati nazionali e le associazioni datoriali, quelle che rappresentano le aziende. Il rinnovo prevede aumenti diversi a seconda dei livelli, che saranno graduali fino al 2027. Sono aumenti tutto sommato esigui, intorno ai 200 euro lordi mensili in tre anni: un dipendente di quarto livello, come potrebbe essere un addetto alla reception, passa dal guadagnare 1.550 euro lordi al mese a 1.750 nel 2027, con un aumento del 13 per cento.
L’ultimo rinnovo c’era stato nel 2016 e gli stipendi sono stati fermi per otto anni, in cui complessivamente c’è stata un’inflazione complessiva del 20 per cento: significa che con quest’ultimo aumento i dipendenti non recuperano neanche i rincari del costo della vita.
Questi sono gli stipendi che prevede il contratto collettivo, che rappresentano solo la base di quello che un dipendente può ottenere: può cioè contrattare una retribuzione maggiore a livello singolo con l’azienda. Secondo Trezzi è però abbastanza emblematico che nelle contrattazioni nazionali il sindacato non sia neanche riuscito a ottenere l’adeguamento all’inflazione, che «è proprio il minimo di ciò che un sindacato dovrebbe ottenere».
– Leggi anche: Quanto ci ha impoverito l’inflazione?
E questo nonostante il fatto che i sindacati potrebbero avere un argomento negoziale molto valido per chiedere stipendi maggiori: il fatto che gli imprenditori del turismo lamentano ogni anno una strutturale mancanza di lavoratori per riempire sia le posizioni stagionali per potenziare l’organico in vista dell’estate sia quelle permanenti. La discussione intorno a questo tema – comunque esistente e molto serio – verte di solito su argomenti privi di fondamento fattuale, come il fatto che i giovani non abbiano più voglia di fare lavori faticosi o che preferiscano percepire i sussidi statali, come il reddito di cittadinanza che è stato lungamente evocato quando era in vigore.
Secondo la teoria economica a una carenza di persone disposte a lavorare il mercato solitamente risponde con un aumento delle retribuzioni per incentivare ad accettare l’impiego, che nel turismo prevede condizioni spesso estenuanti e che dovrebbero trovare quindi quantomeno una giusta compensazione economica. Questo secondo Trezzi non avviene per tre ragioni.
La prima è di carattere demografico: solitamente il settore turistico, proprio perché prevede stipendi solitamente inferiori alla media, impiega lavoratori giovani, che con l’invecchiamento della popolazione sono sempre di meno. La seconda è di carattere sociale, e riguarda il fatto che le aziende del turismo richiedono nella maggior parte dei casi lavoratori poco qualificati, che non hanno bisogno di un titolo di studio particolarmente alto: tra i giovani, già in diminuzione per una questione demografica, ci sono sempre meno persone poco istruite, e dunque disposte a lavorare in un settore a basso valore aggiunto e con stipendi poco attrattivi. Secondo Trezzi finora il turismo è riuscito a fare fronte comunque alle sue attività, magari sotto organico, e queste due tendenze non sono diventate ancora così forti da innescare un aumento degli stipendi.
La terza ragione riguarda la lentezza della contrattazione collettiva, cioè dei rinnovi contrattuali, comune a molte categorie. Come si è visto, dall’ultimo rinnovo del principale contratto del turismo erano passati otto anni, e per tutto questo periodo gli stipendi erano rimasti fermi. Anche qualora il settore turistico inizi a sentire davvero l’urgenza di aumentare gli stipendi per attrarre lavoratori, servirà tempo prima che le retribuzioni si adeguino.
– Leggi anche: Le persone non trovano lavoro, le aziende non trovano lavoratori