Come correva Emil Zatopek
Male, «come tutti noi», ma con risultati che nessun altro ha mai raggiunto
di Gabriele Gargantini

Il 22 novembre del 2000 morì Emil Zatopek, mezzofondista e maratoneta. Nel dare la notizia il New York Times scrisse che era stato «forse il miglior corridore da lunghe distanze di sempre, di sicuro il più sgraziato». Zatopek vinse quattro ori olimpici e tra il 1946 e il 1957 fece 18 record mondiali. Ancora oggi è l’unico ad aver vinto in una sola Olimpiade i 5mila metri, i 10mila metri e la maratona, e ancora oggi, 25 anni dopo la sua morte, resta uno dei più grandi corridori di sempre.
Zatopek vinse grazie ad anni di allenamenti estenuanti, correndo peraltro in modo parecchio scomposto: le gambe erano agili ed eleganti, ma dalla vita in su era scomposto, disarticolato in troppi movimenti inutilmente dispendiosi. Le braccia andavano da tutte le parti, la testa ciondolava, l’espressione era agonizzante. «Non avevo abbastanza talento per correre e sorridere allo stesso tempo», disse una volta.
Settimo di otto fratelli, Emil Zatopek era nato a Koprivnice, nella regione cecoslovacca della Moravia, il 19 settembre del 1922. A 14 anni andò a lavorare in una fabbrica di scarpe ed è lì che quando ne aveva 16 lo fecero partecipare a una gara di corsa organizzata dalla fabbrica. Scoprì che era bravo, e soprattutto che gli piaceva.
Nel 1948 partecipò alle Olimpiadi di Londra, le prime dopo la guerra. Vinse l’argento nei 5mila metri e l’oro nei 10mila davanti al francese Alain Mimoun, che sarebbe diventato il suo grande rivale. Nei 10mila Zatopek doppiò molti avversari, arrivando con quasi un minuto di vantaggio sul secondo. Ai 5mila, corsi due giorni dopo, arrivò stanco: partì piano e non riuscì a recuperare nel finale.
Le Olimpiadi per cui è ricordato sono però soprattutto le successive, nel 1952 a Helsinki, in Finlandia. Nei 10mila partì subito in testa e vinse facendo il nuovo record olimpico, mentre il secondo – ancora Mimoun – era 100 metri più indietro.
Due giorni dopo vinse anche la finale dei 5mila metri: in rimonta, con un secondo di vantaggio sul secondo, che era sempre Mimoun. Vista la fatica estrema di quell’ultimo giro, il finale di quei 5mila è perfetto per vedere quanto male – eppure con quanta efficacia – correva Zatopek.
Pochi minuti dopo, la finale olimpica del giavellotto femminile fu vinta dalla cecoslovacca Dana Zatopkova con un lancio oltre i 50 metri. Come si intuisce dal cognome, Dana ed Emil erano moglie e marito, e quella resta ancora oggi l’unica occasione in cui due coniugi vinsero l’oro olimpico nello stesso giorno. Dana ed Emil erano peraltro nati nello stesso giorno, il 19 settembre del 1922. Diverse cronache raccontano che quando lui la conobbe, e scoprì la coincidenza relativa al loro giorno di nascita le disse: «Siamo nati nello stesso giorno, che ne diresti di sposarci nello stesso giorno?».
Si racconta anche che dopo l’oro di entrambi Emil disse scherzando di essere stato “d’ispirazione” per la vittoria di Dana, la quale rispose qualcosa come: «Davvero? Prova a ispirare qualche altra ragazza e guarda un po’ se riesce a tirare un giavellotto a cinquanta metri».

Dana ed Emil nel 1954 (Hulton-Deutsch Collection/CORBIS/Corbis via Getty Images)
Le Olimpiadi di Zatopek sarebbero dovute finire lì, ma si fece convincere a correre anche la maratona, una gara che non aveva mai corso prima. Il britannico Jim Peters ha raccontato che verso metà gara Zatopek lo affiancò e gli chiese: «Jim, questo ritmo è troppo veloce?». Lui rispose, scherzando: «No, non abbastanza». Pare che Zatopek lo prese sulla parola, aumentò il passo e – visto peraltro che parlava diverse lingue – trascorse parte degli ultimi chilometri conversando con i fotografi che, da dentro un’auto, gli erano vicini per documentare la gara.
Zatopek arrivò primo all’arrivo, questa volta dando l’impressione di essere molto meno stanco che sulle distanze del mezzofondo: il Guardian scrisse che sembrava uno che arrivava da una «vivace passeggiata in campagna». Vinse in 2 ore e 23 minuti, con due minuti di vantaggio sul secondo. I velocisti giamaicani, che avevano appena vinto la staffetta 4×400 con un nuovo record del mondo, lo presero in spalla e gli fecero fare un giro d’onore mentre il pubblico ripeteva urlando “ZA-TO-PEK”. Peters nel frattempo si era ritirato. Più tardi Zatopek disse che la maratona era «una gara molto noiosa».
In otto giorni, correndo qualifiche e finali, aveva vinto tre ori olimpici: nei 5mila, nei 10mila e nella maratona. Alle successive Olimpiadi, nel 1956 a Melbourne, alcuni giorni dopo un’operazione per un’ernia, corse di nuovo la maratona e arrivò sesto. Il vincitore, per la prima volta, fu Mimoun.
Di lui lo scrittore francese Pierre Magnan scrisse che era «l’uomo che correva come tutti noi». Per altri – in termini estetici e di stile – correva pure peggio di molti di noi. Come uno «che è stato appena accoltellato», come uno «che sta lottando contro un polpo su un nastro trasportatore», come uno con «un cappio attorno al collo», che si dimena per liberarsene. Come «un pugile che combatte contro la sua ombra».
Lui si limitò a ricordare che «l’atletica non è il pattinaggio sul ghiaccio: non serve sorridere e fare delle belle facce per i giudici».

Zatopek durante una corsa campestre (Universal/Corbis/VCG via Getty Images)
Oltre al ciondolare della testa, Zatopek faceva molte smorfie, sbuffava e ansimava. Secondo Gianni Brera «le smorfie più angosciose e rattristanti» fatte da uno che «pare vecchio slombato e pronto a crepare sul margine del prato come un ronzino esausto». Il soprannome di Zatopek era “la locomotiva umana”: un po’ per il suo ritmo di corsa, un po’ per come sbuffava.
In Correre, libro a lui dedicato, Jean Echenoz ha scritto:
«Ignaro di canoni accademici e di ogni assillo di eleganza, Emil procede in maniera pesante, scomposta, sofferta, a scatti. Non nasconde la violenza di uno sforzo che gli si legge sul viso contratto, irrigidito, stravolto, continuamente distorto da un rictus penoso a vedersi. I lineamenti sono alterati, come dilaniati da una spaventosa sofferenza, a tratti ha la lingua fuori, come avesse uno scorpione in ogni scarpa».
Un altro libro a lui dedicato, Emil Zatopek, scritto da Rick Broadbent, racconta anche come Zdeněk Hornof, medico dell’università di Praga, lo «rivoltò come un guanto» per capire cosa avesse di speciale: «Mi fece vedere la sua cartella degli esami, i risultati dei vari test a cui si era sottoposto, addirittura le lastre del cuore e dei polmoni». Eppure disse «che il suo cuore non era più grande né più forte di quello di qualunque atleta di primo livello, che i suoi polmoni non erano più grossi e che le sue funzioni vitali non erano più sviluppate di quelle di molti altri formidabili mezzofondisti».

Zatopek durante una gara su pista (Universal/Corbis/VCG via Getty Images)
Di speciale, Zatopek, aveva come si allenava. Praticamente da solo, e solo partendo da qualche conversazione con i fortissimi finlandesi contro cui aveva gareggiato negli anni Quaranta, sviluppò quello che oggi si chiama interval training, un allenamento basato sulla ripetizione di sforzi intensi alternati ad altri a bassa intensità. Nel suo caso, per esempio, decine e decine di giri da 400 metri, corsi però a ritmo molto intenso. «Perché dovrei allenarmi correndo piano», diceva: «so già correre piano, voglio imparare a correre più veloce».
Broadbent racconta come Zatopek si interessò anche di metabolismo e fisiologia e che «era ben più del corridore istintivo che si limita ad allenarsi più duramente di tutti gli altri».
Negli anni da atleta e nei primi anni dopo il ritiro Zatopek fu vicino al partito comunista cecoslovacco, e fu celebrato come un eroe nazionale. A fine anni Sessanta si avvicinò però al “socialismo dal volto umano” di Alexander Dubcek, e dopo la Primavera di Praga e il successivo intervento sovietico fu punito e passò anni lavorando lontano da casa e facendo lavori umili. Nell’articolo dopo la sua morte il New York Times raccontò che quando lo vedevano intento a raccogliere la spazzatura o a pulire le strade di Praga, le persone si mettevano ad aiutarlo. In seguito fu in parte riabilitato, trovando un lavoro al ministero dello Sport e avendo modo di viaggiare e venire celebrato per le sue vittorie. Tra le altre cose anche da una pubblicità di Adidas.
Emil Zatopek morì nel 2000, Dana Zatopkova nel 2020. Tra le tante cose che ricordano Zatopek c’è la più nota corsa di mezzofondo d’Australia che ancora oggi, e da più di mezzo secolo, si chiama come lui.
A proposito di Australia, nel 1968 l’australiano Ron Clarke – mezzofondista come lui, che ne migliorò i record del mondo ma che non vinse mai ori olimpici – andò a trovare Zatopek a Praga, dove si trovava per una gara. Zatopek gli lasciò un pacchetto, che Clark non aprì subito pensando potesse essere qualche messaggio che il suo idolo e amico voleva far uscire dal paese. Lo aprì in aereo e vide che era una delle medaglie olimpiche vinte da Zatopek a Helsinki.

Dana ed Emil Zatopek nel 1989 (Miroslav Zajc/CORBIS/Corbis via Getty Images)



