Allenarsi con il caldo
Per molti è una necessità, visto dove e quando ci sono le gare più importanti, ma aiuta anche chi non dovrà poi gareggiare al caldo

Per prepararsi ai prossimi Mondiali di calcio, i calciatori della nazionale inglese si alleneranno su delle cyclette, dentro a tende calde e umide. I Mondiali, infatti, si giocheranno la prossima estate tra Messico, Canada e Stati Uniti ed è probabile che farà molto caldo. Prepararsi al caldo con altrettanto caldo (usare cioè il caldo – forzato e indotto – come elemento allenante) è una cosa comune a molti sport, soprattutto negli ultimi anni. Di recente l’heat training, l’allenamento con il caldo, è anzi diventato molto popolare, anche negli sport invernali, dove di caldo ce n’è solitamente poco.
Il caldo è generalmente svantaggioso per un atleta, perché può causare disidratazione, crampi e perfino svenimenti. È un problema perché alcuni eventi sportivi molto importanti e prestigiosi (come le Olimpiadi estive, i Mondiali di calcio e di atletica leggera o il Tour de France) si svolgono di solito nei mesi più caldi dell’anno, che a loro volta sono sempre più caldi, per colpa del riscaldamento globale. E per ragioni extrasportive spesso sono organizzati in luoghi a loro volta particolarmente caldi.
In questo senso le Olimpiadi di Tokyo del 2021 sono emblematiche: furono le più calde mai disputate, con una temperatura media di 32,2 °C e un’umidità molto alta. Per prepararsi, la nazionale belga di hockey su pista – che era tra le favorite e vinse poi l’oro – si allenò in un palazzetto molto caldo (35 °C) e con un’umidità al 70 per cento.
In anni recenti l’heat training è diventato però sempre più popolare anche a prescindere dalla preparazione specifica per un imminente evento in condizioni di caldo o umidità fuori dal comune. Lo ha fatto soprattutto negli sport di endurance e resistenza come il ciclismo, la corsa su lunghe distanze e lo sci di fondo. È stato dimostrato infatti che allenarsi in questo modo può migliorare le prestazioni in ogni contesto e clima, non solo quando fa caldo. In altre parole: allenarsi al caldo, replicando condizioni ambientali molto sfavorevoli, aiuta a essere più performanti anche al freddo.
Allenandosi al caldo, si suda moltissimo. Ma se ci si reidrata correttamente, si può stimolare il corpo a trattenere più acqua, aumentando così il volume plasmatico, cioè la quantità di liquido nel sangue. Per compensare questo aumento il corpo produce più globuli rossi. Questo è molto utile negli sport di resistenza, perché permette di soddisfare allo stesso tempo due esigenze importanti: usare il sangue per portare ossigeno e nutrienti ai muscoli impegnati nello sforzo, e farne arrivare anche altro alla pelle, con l’obiettivo di produrre sudore necessario per la termoregolazione.

Una persona molto sudata cerca di rinfrescarsi durante la maratona di New York, 28 ottobre 1984 (Walter Leporati/Getty Images)
Esistono due modi principali per fare heat training: stare dentro una stanza climatizzata (come farà l’Inghilterra) o coprirsi molto più del dovuto. A volte si usano delle tute apposite, chiamate hotsuit, che trattengono il calore e aumentano la temperatura corporea.
Jonas Forot, che si occupa di questo tipo di allenamenti nel Centro nazionale francese di sci nordico, ha spiegato all’Équipe che per ottenere degli effetti significativi l’atleta deve raggiungere una temperatura corporea tra i 38 e i 39,5° C. Sono valori estremi, da febbre alta, e quindi molto rischiosi e tollerabili solo da professionisti con un fisico ben allenato, assistiti e monitorati da specialisti qualificati e dotati delle tecnologie necessarie. Superati i 39,5° C, infatti, anche loro rischiano l’ipertermia, cioè un colpo di calore. Sono allenamenti molto provanti, anche dal punto di vista psicologico.
Per monitorare in modo preciso e costante la propria temperatura durante una sessione, gli atleti usano sensori esterni, capsule apposite ingoiate prima di allenarsi o termometri rettali. Insomma: strumenti per misurare la temperatura interna.
Il mezzofondista francese Jimmy Gressier, che lo scorso settembre ha vinto la gara dei 10mila metri ai Mondiali di atletica leggera, si allena in questo modo dal 2021. Corre in una stanza acclimatata a 30° C con l’80 per cento di umidità, su un tapis roulant impostato a 12 chilometri orari. Sembra poco per uno che fa i 10mila metri correndo a più di 20 chilometri orari; eppure è un allenamento intensissimo, alla fine del quale – ha raccontato – pesa circa due chili in meno, per via di tutto il sudore.
Per gli atleti professionisti, però, non basta sottoporre e abituare il corpo al caldo estremo: è importante anche saperlo gestire in gara. Non vuol dire solo bere molto e versarsi un po’ d’acqua addosso, ma anche sapere cosa bere e quando è il momento giusto di fare uno sforzo o, al contrario, di lasciar perdere.
Per esempio, nel luglio del 2023 il ciclista sloveno Tadej Pogacar (si legge “Pogaciar”) vinse il Tour de France dopo aver vinto il Giro d’Italia, una cosa che sembrava quasi impossibile nel ciclismo di questo secolo. Pogacar ce la fece anche grazie a un piccolo sensore che misurava in tempo reale la sua temperatura. Per un atleta che nei suoi primi anni aveva avuto problemi in condizioni di caldo estremo, fu uno strumento molto utile per gestire meglio le energie durante la gara, per imparare a conoscersi.
In generale, poi, l’attenzione verso gli atleti oggi è molto alta: è possibile monitorare i loro livelli di idratazione, misurare il ritmo con cui sudano ed elaborare piani specifici per ciascuno di loro. Nella Major League, il campionato nordamericano di baseball, che si gioca anche d’estate, esistono persino bevande specializzate per ogni giocatore.



