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  • Martedì 28 ottobre 2025

I Mondiali che cambiarono la pallavolo italiana

Quelli del 1990, vinti da una "generazione di fenomeni" che ancora però non si chiamava così

La squadra, con Julio Velasco, durante la premiazione (Federvolley)
La squadra, con Julio Velasco, durante la premiazione (Federvolley)
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«Lucchetta… Paolo… Bernardi… Bernardiii! Campioni del mondo! Sul tetto del mondooo!». Gli appassionati di pallavolo, soprattutto quelli meno giovani, ricorderanno le parole con cui il 28 ottobre del 1990, trentacinque anni fa, il telecronista della Rai Iacopo Volpi commentò l’ultimo scambio della finale dei Mondiali maschili, vinta dall’Italia per 3 set a 1 contro Cuba. Fu il primo titolo mondiale vinto da una Nazionale italiana di pallavolo e il più significativo, perché contribuì all’affermazione di questo sport in Italia, con conseguenze che si vedono ancora oggi.

Quella Nazionale, facendo negli anni alcuni cambiamenti, avrebbe vinto altri due Mondiali consecutivi (nel 1994 e nel 1998), sarebbe stata ribattezzata “generazione di fenomeni” (da una canzone degli Stadio citata sempre da Volpi dopo la vittoria del 1994) e sarebbe stata premiata come “squadra del secolo” dalla federazione internazionale di pallavolo.

Andrea Lucchetta era il capitano, Paolo Tofoli l’alzatore, Lorenzo Bernardi uno dei due schiacciatori, eletto assieme allo statunitense Karch Kiraly “miglior giocatore di pallavolo del ventesimo secolo”. Gli altri tre titolari erano Andrea Gardini, Luca Cantagalli e Andrea Zorzi, e con loro c’erano pure Marco Martinelli, Ferdinando De Giorgi, Roberto Masciarelli, Andrea Anastasi, Marco Bracci e Andrea Giani. L’allenatore era un argentino di 38 anni che qualche anno più tardi sarebbe stato considerato un “guru”, del volley e non solo, e avrebbe contribuito parecchio al successo della pallavolo italiana: Julio Velasco.

Andrea Lucchetta dopo la finale Italia-Cuba (Federvolley)

Velasco iniziò ad allenare l’Italia nel 1989, dopo aver vinto quattro Scudetti consecutivi come allenatore della Panini Modena, la miglior squadra di un movimento, quello italiano, che stava già cominciando a crescere. Trovò una Nazionale con ottimi giocatori, non abituati però a vincere con l’Italia, semplicemente perché prima del suo arrivo l’Italia non aveva mai vinto niente di importante. I risultati migliori, all’epoca considerati storici, erano stati la medaglia d’argento ai Mondiali in Italia del 1978 e quella di bronzo alle Olimpiadi di Los Angeles del 1984, rispettivamente con Carmelo Pittera e Silvano Prandi come allenatori. Alle Olimpiadi di Seul del 1988 l’Italia era stata eliminata ai gironi.

Velasco portò innanzitutto una mentalità vincente, eliminando quella che lui stesso chiamava “cultura degli alibi”, la pratica cioè di trovare sempre una scusa quando le cose non vanno bene. È un concetto di cui Velasco ha parlato per anni, con discorsi divenuti celebri ed emblematici del suo modo di intendere lo sport: il più famoso di tutti è quello sugli schiacciatori che si lamentano delle alzate. Giuseppe Pastore, autore del libro La squadra che sogna. Storia dell’Italia di Julio Velasco uscito per 66thand2nd, in un articolo su Ultimo Uomo descriveva così l’avvento di Velasco.

La pallavolo italiana è malata di pessimismo cronico e all’inizio scrolla le spalle anche davanti all’elettroshock filosofico e metodologico di Velasco che ama il dibattito, il conflitto, la lite se vogliamo, lava i panni sporchi in pubblico, obbliga i suoi ragazzi a uno stress emotivo che per forza, prima o poi, li farà crescere. Come si traduce questa filosofia in schemi, muri, schiacciate, punti, vittorie? Con una rivoluzione sacchiana esaltata dalla tecnologia, una novità assoluta nello sport italiano dell’epoca. Introduce lunghe sessioni al videoregistratore dove mostra allo sfinimento difetti e movimenti sbagliati, pretende schede e resoconti su ogni suo giocatore, si affida al computer anche durante la partita per decidere cambi e rotazioni. «Basta con le squadre che si allenano con l’idea di lenti e progressivi miglioramenti: noi giochiamo per vincere».

L’Italia di Velasco vinse subito: agli Europei del 1989 batté la temibile Bulgaria all’esordio, i Paesi Bassi in semifinale e la Svezia (paese ospitante) in finale. Nel 1990 si portò a casa anche la World League e i Goodwill Games, due tornei per Nazionali giocati in preparazione ai Mondiali di ottobre. Ai Mondiali, organizzati in Brasile, si presentò quindi come una delle grandi favorite: una cosa che sarebbe stato molto difficile ipotizzare anche solo due anni prima.

La finale degli Europei del 1989 tra Italia e Svezia

I Mondiali cominciarono il 18 ottobre 1990. L’Italia vinse le prime due partite del girone contro Camerun e Bulgaria, ma nell’ultima (quando era comunque già qualificata) perse 3-0 contro Cuba, una squadra formidabile nella quale spiccava soprattutto il fenomenale Joël Despaigne, soprannominato el Diablo, il Diavolo. Si dice che all’indomani di quella sconfitta Velasco abbia preso da parte Iacopo Volpi e gli abbia detto: «Ieri ci hanno massacrato, ma hanno dato il massimo. Non vinceranno più».

Da quel momento per l’Italia fu un crescendo: vinse agli ottavi di finale contro la Cecoslovacchia per 3 set a 0, poi batté l’Argentina ai quarti con lo stesso punteggio. Per raggiungere la finale, la Nazionale era attesa però da una prova molto più complicata: affrontare il Brasile a casa sua.

Il 27 ottobre 1990 al Maracanãzinho, il palazzetto di Rio de Janeiro situato a poca distanza dal leggendario stadio Maracanã, c’era un gran caldo e 25mila brasiliani scaldavano ancora di più l’atmosfera con un tifo assordante. L’Italia all’inizio ne risentì: il Brasile vinse 15-6 un primo set in cui era stato in vantaggio anche per 8-0 (all’epoca c’era la regola del cambio palla, cioè si otteneva un punto solo quando si vinceva lo scambio sul proprio servizio, e i set finivano tutti a 15). Poi la Nazionale di Velasco cominciò a giocare alla grande, vincendo 15-9 e 15-8 il secondo e il terzo set. Il quarto lo vinse il Brasile e si arrivò così all’epilogo del quinto e decisivo set, nel quale già allora il sistema di punteggio era quello attuale: il cosiddetto rally point system, senza cambio palla.

L’Italia vinse il tie-break 15-13, con l’ultimo punto messo a segno da Lucchetta con una “veloce” alzata a sorpresa da Tofoli (il quale poco prima disse che avrebbe palleggiato per Cantagalli).

In finale ad attendere l’Italia c’era chiaramente Cuba, che in semifinale aveva battuto 3-1 l’Unione Sovietica. Si giocò il 28 ottobre 1990, sempre al Maracanãzinho, sempre con la maggior parte dei tifosi contro l’Italia. Il primo set lo vinse Cuba 15-12, poi come contro il Brasile la Nazionale di Velasco prese in mano la partita, vincendo 15-11 il secondo e addirittura 15-6 il terzo. Nel quarto pure partì bene e andò sul 10-5, poi subentrò quella che viene chiamata “paura di vincere” e fu rimontata; il set si trasformò in una lunga serie di cambi palla. L’Italia ottenne il 14-14 con un muro di Cantagalli su Despaigne, quindi Lucchetta prima fece il punto del 15-14, e poi difese con un gran tuffo un attacco di Despaigne, consentendo a Tofoli di alzare a Bernardi la palla del decisivo 16-14 e a Volpi di urlare che l’Italia, per la prima volta, era «sul tetto del mondo».

Il racconto di semifinale e finale da parte di alcuni dei protagonisti

Da quel momento Velasco e i giocatori dell’Italia divennero volti noti e la pallavolo diventò uno sport sempre più seguito e praticato, anche grazie alle successive vittorie di quella Nazionale, che ispirarono più di una generazione. Dopo quei Mondiali, l’Italia vinse come detto i Mondiali nel 1994 e nel 1998; e gli Europei nel 1993, nel 1995 e nel 1999 (quando Velasco se n’era già andato da qualche anno) e altre sei World League (un torneo annuale tra le migliori nazionali al mondo, che oggi si chiama Nations League) in nove anni tra il 1991 e il 1999.

L’unica cosa che non riuscì a vincere, e che tutt’oggi rimane un tabù per la Nazionale maschile (ma non per Velasco, che lo ha vinto nel 2024 a Parigi con quella femminile), fu l’oro olimpico. A Barcellona nel 1992 ci fu la dolorosa eliminazione ai quarti di finale contro i Paesi Bassi, che vinsero 3-2 e 17-16 al tie-break (per una regola assurda, poi abolita, che prevedeva di giocare il match point sul 16-16). Ad Atlanta nel 1996 furono di nuovo i Paesi Bassi, questa volta in finale, a battere l’Italia, sempre 3-2, dopo che nel frattempo avevano perso varie volte lo scontro diretto tra Europei e Mondiali.

Le sconfitte alle Olimpiadi non cambiano comunque il fatto che quella Nazionale fu una delle migliori di sempre. Del resto, come disse proprio Velasco prima delle Olimpiadi del 1996, alle quali l’Italia arrivò come chiara favorita, «da noi in Argentina c’è un detto: nessuno ci toglierà i balli che abbiamo ballato. E anche se ad Atlanta perdessimo tutti i set 15-0 non cambierebbe un’oncia della stima che ho per questi ragazzi. Nessuno ci leverà quello che abbiamo vinto. Nessuno ci leverà quello che abbiamo ballato».