Aiutare una foresta a spostarsi

Ci stanno provando sull'altopiano di Asiago dopo la devastazione della tempesta Vaia, con un esperimento che coinvolge seimila alberi

di Isaia Invernizzi

In primo piano il monte Mosciagh, sull'altopiano di Asiago, dove è in corso il progetto di riforestazione chiamato Asiago oltre Vaia (Isaia Invernizzi/il Post)
In primo piano il monte Mosciagh, sull'altopiano di Asiago, dove è in corso il progetto di riforestazione chiamato Asiago oltre Vaia (Isaia Invernizzi/il Post)
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La foresta piantata quattro anni fa sull’altopiano di Asiago è stata pensata in modo molto diverso rispetto al passato. Prima della tempesta Vaia, sul monte Mosciagh c’erano migliaia di abeti rossi tutti uguali, ordinati a formare un paesaggio da cartolina, ora invece sta crescendo qualcosa di nuovo. Sono seimila alberi di specie che negli ultimi cento anni qui non si erano quasi mai viste, piantati secondo criteri studiati per renderli più resistenti agli eventi meteorologici estremi, come le tempeste di vento. È un esperimento di riforestazione inedito e ambizioso, tenuto d’occhio anche nel resto delle Alpi: servirà molta pazienza per capire se funzionerà.

Asiago non è un posto qualunque dove piantare una nuova foresta. Il paesaggio dell’altopiano, i suoi boschi e le sue colline, sembrano il risultato di un processo naturale durato secoli, in realtà la natura c’entra poco. Qui più che in altri posti gli avvenimenti storici hanno avuto un impatto notevole sull’ecosistema.

Abeti rossi sani e alcuni distrutti dal coleottero bostrico (Isaia Invernizzi/il Post)

Nella notte del 24 maggio 1915 – all’inizio della prima guerra mondiale – l’esercito italiano sparò il primo colpo di cannone da un forte chiamato Verena verso la piana di Vezzena, dove erano appostati i soldati austriaci. I due eserciti si fronteggiarono sull’altopiano per 41 mesi, dal primo all’ultimo giorno della guerra.

Controllare Asiago voleva dire avere accesso alla Valsugana e alla Val d’Astico, due canali diretti verso la pianura veneta. Durante gli anni della guerra il fronte si spostò diverse volte. La trincea della prima linea austro-ungarica passava proprio sul monte Mosciagh: appare all’improvviso camminando tra l’erba alta, ancora molto riconoscibile nonostante siano passati oltre cent’anni da quando fu scavata.

Il panorama dell’altopiano di Asiago dal monte Mosciagh (Isaia Invernizzi/il Post)

Ai soldati serviva legname in abbondanza: d’estate per costruire baracche, d’inverno soprattutto per scaldarsi. Circa il 70 per cento dei boschi di Asiago fu abbattuto dai due eserciti, un’altra parte fu danneggiata dai bombardamenti. Erano boschi formati da varietà diverse, in prevalenza abete rosso, faggio e abete bianco. Alla fine della guerra il paesaggio era completamente cambiato.

Tra gli anni Venti e Trenta iniziò una vasta campagna di rimboschimento iniziata subito dopo la guerra e portata avanti poi dal regime fascista. Fu scelta una sola varietà, l’abete rosso, la specie per eccellenza più adatta alla produzione di legname, ma allo stesso tempo molto fragile se esposta alla forza del vento. Furono piantati alberi un po’ ovunque, anche sulle colline dove prima della guerra c’erano solo pascoli. Quella foresta molto fitta è cresciuta lentamente per oltre cent’anni, prima di cadere in una sola notte.

Tra il 29 e il 30 ottobre del 2018 violente raffiche di vento hanno distrutto 420 chilometri quadrati di foreste delle Alpi tra il Veneto, il Trentino Alto Adige, il Friuli e la Lombardia. È stato il peggior disastro forestale nella storia recente italiana. La tempesta Vaia fece tornare il monte Mosciagh indietro di cento anni, al tempo della guerra. Non è un caso che il progetto di riforestazione sia stato chiamato “Asiago oltre Vaia”.

Nessun dottore forestale o agronomo si era mai trovato a creare una nuova foresta in condizioni così particolari, dopo una guerra, un rimboschimento imprudente e una tempesta di vento di una violenza eccezionale a cui è seguita una grave epidemia di bostrico tipografo.

Le gallerie scavate dal bostrico tipografo in un tronco (Isaia Invernizzi/il Post)

– Leggi anche: L’epidemia che ha devastato i boschi del Nord Italia fa meno paura

Marco Pellegrini e i ricercatori del dipartimento Territorio e Sistemi agro-forestali dell’università di Padova hanno capito subito che la prima cosa da fare era trascurare il passato e pensare al futuro. Pellegrini è un cosiddetto dottore forestale, cioè è laureato in scienze forestali e si occupa di pianificare le foreste. Conosce ogni metro di questi boschi perché il comune di Asiago gli ha affidato il piano di indirizzo forestale: significa che lui insieme a comune e regione decide quali parti di bosco dovranno crescere liberamente, quali e quanti alberi potranno essere tagliati, quali le zone dove dovranno esserne piantati.

«Servirebbero decine di anni per rimboschire quest’area in modo naturale, aspettando che la foresta avanzi da sola, seme dopo seme», dice. Non c’è così tanto tempo. Il clima sta cambiando in fretta e bisogna iniziare a preparare i boschi di Asiago a quello che succederà, anzi a quello che sta già succedendo, come dimostra la tempesta Vaia. I cambiamenti climatici e il riscaldamento globale causati dalle attività umane sono più veloci della natura. «Cerchiamo di guidare la foresta verso forme più resistenti, integrando lo sviluppo naturale per affrontare meglio eventi climatici estremi come Vaia, che sicuramente torneranno».

(Isaia Invernizzi/il Post)

Più in concreto, è stato studiato un rimboschimento di circa 3 ettari (30mila metri quadrati) organizzato per cluster, cioè a gruppi di alberi della stessa specie uno accanto all’altro a formare una sorta di grande isola. Questa organizzazione permette di replicare lo sviluppo naturale della foresta, perché il gruppo aiuta una specie a sopravvivere anche in caso di morte di un singolo albero.

La distribuzione dei gruppi sul monte Mosciagh è stata pensata con cura, studiando la pendenza del terreno e la presenza di ceppaie o vecchi tronchi utili a proteggere le piantine. Grazie a questi accorgimenti non c’è bisogno di fare manutenzione: la foresta cresce lentamente, ma da sola.

Anche le specie sono state scelte con attenzione. L’abete rosso (Picea abies) non è stato escluso perché il problema non era l’abete rosso in sé, ma la mancanza di biodiversità causata dalla monocultura. Ora gli sono state affiancate molte altre varietà come l’acero montano (Acer pseudoplatanus), la betulla (Betula pendula), il faggio europeo (Fagus sylvatica), il larice (Larix decidua), l’abete bianco (Abies alba), il pioppo (Populus tremula), il salicone (Salix caprea), il sorbo degli uccellatori (Sorbus aucuparia), il sorbo montano (Sorbus aria). Nessuna sarebbe arrivata sul Mosciagh lasciando fare alla natura.

Lo schema dei gruppi di varietà usato per Asiago oltre Vaia

Da lontano, da qualsiasi punto dell’altopiano lo si osservi, il Mosciagh sembra lo stesso di otto anni fa, quando Vaia lo spogliò abbattendo migliaia di abeti. Soltanto da vicino, anzi da molto vicino, si riescono a scorgere i nuovi alberi tra l’erba alta e gli arbusti. Bisogna fare attenzione a non calpestarli perché sono più alberelli che alberi, alti ancora pochi centimetri, riconoscibili con un po’ di spirito di osservazione.

Una delle aree dove sono stati piantati i nuovi alberi (Isaia Invernizzi/il Post)

Ognuna delle nuove specie è stata introdotta per motivi precisi. Alcune come la betulla e il larice vengono definite specie pioniere, che si adattano facilmente senza esigenze particolari. Altre varietà farebbero più fatica a 1.550 metri di altezza, ma insieme alle altre sopravviveranno senza problemi anche perché fa più caldo rispetto al passato. Pellegrini e i ricercatori dell’università di Padova hanno lavorato a lungo anche per definire i criteri con cui piantarle. La betulla non va all’ombra, i gruppi di aceri è meglio metterli accanto al faggio e all’abete bianco, il sorbo montano va vicino al larice. Sembra un puzzle: ogni albero ha un suo posto preciso e nulla è lasciato al caso.

“Asiago oltre Vaia” si può definire una sorta di esperimento di migrazione assistita della foresta. La pura conservazione prevederebbe di piantare di nuovo abeti rossi oppure addirittura di non fare nulla, mentre questo metodo consente di intervenire piantando varietà presenti solo in minima parte nel territorio, magari ad altitudini più basse, trasferendole e facendole adattare per preparare la foresta a sopravvivere alle condizioni che troverà in futuro. A differenza della convenzionale migrazione assistita, qui sono state comunque scelte varietà ecologicamente coerenti con il territorio.

Uno degli alberi piantati nel 2021 (Isaia Invernizzi/il Post)

È un modo diverso di rapportarsi alla natura, un approccio non invasivo né tanto meno indifferente ai cambiamenti climatici. In un certo senso è come se si stia aiutando la foresta a spostarsi.

Cercare di dare alla foresta un futuro non è importante solo per l’ecosistema o per il paesaggio. Sull’altopiano gli alberi danno lavoro, sostentamento economico, protezione dai pericoli naturali. «Il bosco ha un valore economico e sociale: spesso lo dimentichiamo», dice Christian Rebeschini, l’unica guardia forestale del comune di Asiago. «La legna è un combustibile con un impatto ambientale decisamente più basso rispetto ad altre fonti, a costo quasi nullo per gli abitanti. Non da ultimo, i boschi contribuiscono anche al turismo. Garantiscono benessere, in tutti i sensi».

Christian Rebeschini e Marco Pellegrini durante un sopralluogo (Isaia Invernizzi/il Post)

A differenza di molti altri progetti di riforestazione fatti negli ultimi anni in Italia, ad Asiago la popolazione è stata coinvolta attraverso incontri promossi da Forest Stewardship Council (FSC), un’organizzazione internazionale che tramite enti di certificazione indipendenti garantisce la sostenibilità di attività e prodotti forestali come legno e carta. FSC traccia e monitora la filiera del legno e qui si è occupata della promozione di “Asiago oltre Vaia”.

Gli incontri sono stati essenziali per far conoscere cosa è stato fatto e perché. Sono stati anche un modo per rinforzare la relazione tra la comunità e la foresta, oggi più precaria rispetto ad anni fa. Alberto Pauletto, responsabile della comunicazione di FSC, dice che i boschi sono un bene dato spesso per scontato: «Progetti come questo hanno un valore ambientale, sociale, educativo. Hanno a che fare con la percezione spesso stereotipata della natura. Se vogliamo continuare a contare sui boschi non possiamo lasciare che si gestiscano da soli».