Fu vera NBA?
Cinque anni fa il campionato finì in una “bolla”: per qualcuno fu una stagione minore, per LeBron James fu basket nella sua «forma più pura»

La stagione 2019/2020 di NBA, il campionato nordamericano e il più importante al mondo, fu diversa dalle altre. Per molti appassionati e addetti ai lavori quella stagione, terminata cinque anni fa, fu diversa in negativo: nel senso che viene trattata come una stagione anomala, che vale meno. Di recente un ex dirigente degli Houston Rockets ha detto che tutte le persone con cui ne ha parlato dentro la lega «concordano sul fatto che [quella stagione] non si possa davvero considerare un campionato autentico».
Quella stagione era stata sospesa nel marzo del 2020 a causa della pandemia da coronavirus e quando riprese, più di quattro mesi dopo, lo fece in modo molto inusuale. Insieme a una ventina di giornalisti, le 22 squadre su 30 che potevano ancora giocarsi il campionato furono isolate nella “bolla” del Disney Resort di Orlando, in Florida.
Nella bolla – come fu chiamato da subito quel luogo attrezzato di palazzetti, palestre, hotel e ristoranti – si disputarono le ultime 88 partite di regular season (la prima parte di campionato) e tutti i playoff (le fasi finali). Si giocò dall’8 agosto all’11 ottobre e alla fine, un po’ a sorpresa, vinsero i Los Angeles Lakers e LeBron James, uno dei più forti cestisti di sempre, ottenne il suo quarto e finora ultimo anello (il premio che riceve ogni giocatore della squadra vincente). Ma dato che fu vinto in una NBA completamente diversa dal solito, questo titolo è stato più volte definito un «Mickey Mouse ring», cioè un anello di poco valore (Mickey Mouse è anche il nome originale di Topolino).
Il “Mickey Mouse ring” dei Los Angeles Lakers
È indubbio che le circostanze hanno un effetto sui risultati sportivi, e di certo le circostanze imposte dalla pandemia furono quanto mai straordinarie e peculiari. E senz’altro, limitatamente all’NBA, le circostanze di quella stagione ebbero un grande impatto sulle squadre impegnate e sui giocatori che ne facevano parte.
Nella NBA della bolla non bisognava fare lunghe trasferte in aereo, i giocatori vivevano insieme e non c’erano tifosi: al loro posto c’erano degli enormi schermi su cui si vedevano gli spettatori mentre guardavano la partita da casa.
Se da un lato l’assenza di pubblico dal vivo rendeva straniante l’esperienza degli spettatori da casa, dall’altro lato c’è anche chi sostiene che le peculiarità della bolla aiutarono i giocatori. Senza il rumore dei tifosi i giocatori potevano comunicare meglio in campo, e l’assenza di lunghi viaggi in aereo evitava la stanchezza dovuta alle tante trasferte in pochi giorni. Per Joe Vardon, giornalista del New York Times, questa cosa aiutò soprattutto i giocatori più vecchi, come lo stesso James, che aveva già quasi 36 anni e quell’anno vinse anche il premio di MVP (miglior giocatore) delle finali.
Sembrava fosse anche più facile fare canestro. Devin Booker, dei Phoenix Suns, definì la bolla un luogo ideale per i cestisti: durante la partita c’erano pochissime distrazioni e il fatto che dietro il tabellone, che è trasparente, fosse quasi tutto nero (di solito ci sono tifosi e giornalisti) permetteva di avere una migliore percezione della profondità, e quindi prendere meglio la mira e fare tiri più precisi.
Fin dall’inizio ci furono delle prestazioni eccezionali e inaspettate. Nella sua prima partita nella bolla T.J. Warren degli Indiana Pacers – uno che in media faceva meno di 20 punti a partita – ne fece 53 in una sola volta; e tenendo conto anche delle nove partite successive giocate a Orlando totalizzò una media di 26,6 punti.
Nella bolla i giocatori si allenavano e giocavano sempre negli stessi campi, e alla fine ci presero (letteralmente) la mano, tant’è che nei playoff – dove spesso è più difficile segnare, perché il livello è più alto e la tensione è maggiore – le statistiche di tiro non peggiorarono come nelle altre stagioni.
Per molti, quindi, quella non fu un “vera” stagione di NBA: non solo perché la regular season era stata ridotta di alcune partite (cosa che accadde anche l’anno successivo), ma anche perché i giocatori si trovarono in un contesto apparentemente agevole, privo di certe pressioni – da parte dei tifosi o dei giornalisti, per esempio – e delle fatiche tipiche di una stagione normale.
Ma queste circostanze non avvantaggiarono una squadra più di un’altra: erano tutte nelle stesse condizioni. Anzi, secondo LeBron James nella bolla il basket raggiunse la sua «forma più pura».
In effetti il livello di gioco fu alto – difficile dire se quanto, un po’ meno o un po’ più rispetto alle altre stagioni – e i playoff furono intensi e spettacolari. In quelle partite i migliori giocatori NBA degli ultimi anni (come Damian Lillard, Luka Doncic, James Harden o lo stesso Booker) fecero delle prestazioni memorabili.
Per fare un esempio, nella gara 4 degli ottavi di finale lo sloveno Luka Doncic – che giocava ancora nei Dallas Mavericks e aveva solo 21 anni – fece 43 punti, 17 rimbalzi e 13 assist contro i Los Angeles Clippers, una delle squadre più forti dell’anno, e segnò il canestro della vittoria all’ultimo secondo dei tempi supplementari.
I migliori momenti della “bolla” (a un minuto esatto c’è quel canestro decisivo di Doncic)
Insomma, la stagione della “bolla” di Orlando fu competitiva allo stesso modo delle altre. Per alcuni giornalisti e giocatori fu anzi più difficile del normale: stare nella bolla voleva dire restare isolati, spesso lontani dalla famiglia; e dal punto di vista sportivo riprendere a giocare ad alti livelli dopo quattro mesi di stop fu complicato.



