Memorie di Bologna, amnesie su Tian’anmen
«Nel 1989 studiavo all’Università Normale di Pechino e fui testimone dell’ingresso dei carri armati e della loro brutalità. Oggi in Cina chi non può dimenticare, come i familiari delle vittime, vive nell’isolamento. Non esiste come a Bologna una lapide con una lista dei nomi delle vittime. Con il processo a Chow Hang-tung, la memoria devastante di quei giorni non può più essere pubblica neppure a Hong Kong»

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Il 3 novembre a Hong Kong, la città dove abito da tanti anni, sarà processata l’avvocata Chow Hang-tung, accusata di intenti sovversivi per aver «sfruttato una data ‘sensibile’ tramite dei post online». Chow Hang-tung ha quarant’anni ed era la presidente dell’Alleanza di Hong Kong, il gruppo che, ogni 4 giugno al Parco di Victoria, organizzava la veglia a lume di candela in memoria della repressione sanguinosa delle proteste di Tian’anmen del 1989. Il gruppo, che fin dall’inizio sosteneva i movimenti patriottici e democratici in Cina, si è dovuto sciogliere dopo che nel 2020 Pechino ha imposto la legge sulla sicurezza nazionale per mettere fine alle manifestazioni pro-democrazia che avevano scosso Hong Kong l’anno precedente.
Per quanto rimangano differenze significative, oggi dal punto di vista delle libertà politiche Hong Kong è molto più simile al resto della Cina e chi, come Chow, si impegnava per il pluralismo politico e le verità storiche si trova a fare i conti con una giustizia che descrive le critiche al governo come tradimento e sovversione. La memoria devastante di Tian’anmen, di cui Hong Kong si era fatta carico, non può più essere pubblica. Erano veglie importanti per la città, che con quell’appuntamento annuale affermava di essere ancora libera, ma anche per me, perché nel 1989 studiavo all’Università Normale di Pechino e fui testimone dell’ingresso dell’esercito e dei carri armati nella capitale cinese, e della loro brutalità.
Il processo a Chow Hang-tung per impedire anche a Hong Kong la memoria di Tian’anmen, e per provare a cancellare in qualche misura anche la mia personale, mi fa pensare a come sono andate le cose in Italia con la memoria della strage di Bologna del 2 agosto 1980, un evento parallelo, lontano solo all’apparenza, che dopo quarantacinque anni dalla strage non è più uno dei “misteri d’Italia”, soprattutto grazie alla determinazione dell’Associazione tra i familiari delle vittime della strage di Bologna creata l’1 giugno del 1981 per «ottenere con tutte le iniziative possibili la giustizia dovuta», come dice lo statuto. Malgrado gli insabbiamenti e i depistaggi, oggi sappiamo chi è stato, abbiamo condanne definitive in Cassazione e possiamo ricordare i colpevoli e le vittime. L’ultima commemorazione si è svolta con questa certezza proprio nella settimana in cui è stato annunciato il processo a Chow.
Quel giorno, il 2 agosto 1980, ero in vacanza in Calabria, in campeggio al mare, con mio padre: nel ricordo confondo quei giorni con altre vacanze da bambina, solo di quel 2 agosto rivedo con nitidezza il bar-ristorante con il televisore affisso in alto, verso l’angolo di destra, e le persone che si avvicinavano accorgendosi del silenzio terribile della sala, e volgevano lo sguardo alla televisione, cercando di dare un senso alle immagini. Nel modo strano in cui si ricordano dettagli insignificanti per decenni, vedo ancora con precisione la figura di un uomo coi capelli bianchi che quasi cadde nell’afferrare lo schienale di una sedia su cui voleva sedersi: gli occhi allo schermo, la bocca aperta in un’espressione di dolore, inconsapevole dei movimenti del corpo. Senza motivo, quell’uomo è inciso per sempre nella mia memoria. Indossava pantaloncini chiari e aveva le gambe un po’ scottate dal sole.
Nel mio ricordo io ero immobile. Forse incredula? Senz’altro incerta su come quelle immagini dovessero essere messe in relazione alla realtà della mia stazione, la stazione di Bologna, la mia città, quella da cui si partiva per gite in famiglia e a cui si aspettava che arrivasse la nonna. Il tetto della parte a sinistra crollato, le assi esposte, l’orologio a cui mancava parte del quadrante, fermo alle 10:25, il caos e l’impossibilità di concepire un luogo familiare tramutato nell’orrore, macerie e persone coperte di sangue, polvere, calcinacci. E un dolore brutale che attraversava lo schermo arrivando fino a noi che guardavamo dal ristorante di un campeggio al mare.
Solo per poco si parlò dell’esplosione di una caldaia, ma la speranza di un incidente si perse, per accettare la devastante realtà che quella distruzione fosse frutto di un gesto umano: ottantacinque morti, più di duecento feriti. Bologna, già dal 6 agosto, durante i funerali in Piazza Maggiore, mostrò che non sarebbe diventata vittima. I depistaggi, comuni a tutte le stragi italiane erano già iniziati, come si era visto con l’Italicus nel 1974 e con i suoi dodici morti, i cui funerali si erano tenuti in San Petronio, dove si tenevano di nuovo nel 1980, con i cadaveri provocati da una bomba fascista allineati nella basilica. Ma la risposta cittadina fu: no. No ai depistaggi. No ai misteri d’Italia.

Il lavoro dei soccorritori. Bologna, 2 agosto 1980 (Ansa)
Nove anni dopo, nel 1989, vivevo dunque nel campus della Normale di Pechino, dove studiavo cinese mandarino. Il 15 aprile ero nel dormitorio dell’università, che dava sulla via Xin Jie Kou. Verso le dieci di sera sentii dei rumori inusuali venire dalla strada (in quegli anni, dopo le nove di sera le strade delle città cinesi erano quasi deserte) e, insieme ad altri compagni di corso, decisi di scendere in strada per capire cosa stesse succedendo. Vidi centinaia di studenti che marciavano in memoria dell’ex segretario del Partito Comunista, Hu Yaobang, morto d’infarto proprio quel giorno. Era caduto in disgrazia due anni prima per aver difeso le proteste studentesche contro la corruzione e per la democrazia, e gli studenti di Pechino volevano onorare chi aveva pagato per essersi schierato con loro.
Fu l’inizio delle proteste che chiamiamo “di Tian’anmen”, per quanto siano avvenute in tutta la capitale e in molte altre città cinesi, proteste che terminarono nel sangue dopo che l’esercito aprì il fuoco la notte fra il 3 e il 4 giugno. Ma i soldati erano a Pechino già da settimane, almeno dal 15 maggio, in camionette militari parcheggiate nei punti nevralgici della città. I pechinesi andavano a parlare con loro, portando cibo e notizie non filtrate dai loro superiori, affinché non attaccassero “i nostri studenti”. Per compiere il massacro, infatti, furono inviati altri soldati freschi di caserma che erano stati tenuti lontani dalla popolazione e a cui venne detto di mettere fine a una sommossa controrivoluzionaria. Per giorni la città fu messa a ferro e fuoco, dai soldati e dai pechinesi inferociti. Poi la presenza militare e gli arresti costrinsero tutti a ingoiare la rabbia. L’obbligo di dimenticare si fece così forte che oggi molti non sanno, ma anche fra quelli che sanno c’è chi pensa che non sia giusto tirare fuori quella storia, come se ricordarla fosse un tentativo di ostacolare una Cina in ascesa politica ed economica.
Non metto insieme questi due gravissimi episodi storici solo perché accomunati dal mio sguardo. L’amnesia sa essere così convincente che oggi molti sostengono che “ai cinesi non importa quello che è successo a Tian’anmen”. È come se lo sapessero ma avessero deciso di non crucciarsene. Invece, non conosciamo nemmeno il numero esatto delle vittime: in Cina la stampa non parla di quei fatti, e la formula utilizzata dalla stampa internazionale è «centinaia, forse migliaia di morti».
Per questo, prima della legge sulla sicurezza nazionale, Hong Kong fungeva da drive esterno della Cina, era come la memoria esterna, l’unico luogo al mondo che combatteva l’amnesia e la relativizzazione su quelli che sono nebulosamente passati alla storia come «i fatti di Tian’anmen» – e questo malgrado giugno sia già stagione monsonica e alcune veglie si siano tenute sotto un tifone che infradiciava tutti i presenti. Fino al 2020 capitava di vedere arrivare a Hong Kong dalla Cina continentale persone che magari avevano partecipato agli eventi del 1989, o ne avevano sentito parlare. Gli organizzatori, una volta resisi conto di questo, tenevano parte della cerimonia in lingua mandarina, la lingua franca della Cina, e non solo nel cantonese locale. Per qualche giorno questi «turisti della democrazia», come venivano chiamati con un senso dell’umorismo e un ottimismo che oggi sembrano impossibili, guardavano la maggiore libertà di Hong Kong, potevano comprare libri e giornali non censurati per conoscere gli eventi politici cinesi da divorare in albergo, buttandoli via prima di tornare in Cina.
Nel 1989, come tutti gli altri studenti stranieri, fui evacuata dal corpo diplomatico. Nei giorni prima della partenza, camminando per una Pechino divelta e ferita e dove si continuava a sparare, incontravo persone sconvolte che mi mettevano in mano pallottole spente, abiti insanguinati, messaggi, dicendomi di andare via da quella città pericolosa ma di portare con me le loro testimonianze perché il mondo vedesse e capisse quello che «l’esercito del popolo aveva fatto al popolo». C’era ancora l’illusione che il mondo non sarebbe rimasto inerme davanti a tanta ingiustizia, mentre i pechinesi – anzi, i laobaixing, l’espressione con cui vengono indicate le persone comuni e che letteralmente significa «quelli dai cento cognomi» – non avevano modo di fare niente. «Women laobaixing mei you banfa»: mi ripetevano, e cioè, «noi cittadini non abbiamo modo».
Le manifestazioni delle settimane precedenti, che avevano visto fino a un milione di persone scendere in strada, erano state una prova enorme della volontà di provare a cambiare il proprio destino sia dei laobaixing che degli studenti (serve ricordare che in Cina, oggi come allora, l’istruzione è vista con enorme rispetto), ma davanti ai carri armati non c’era ricorso. Tornai dunque a Bologna, raccontando quello che avevo visto a chi voleva ascoltare (a lungo non ebbi la forza di mostrare le foto scattate a Pechino, ne ho pubblicate su HFP, Hong Kong Free Press, un giornale indipendente di Hong Kong, sono riuscita a tirarle fuori solo nel 2018).
Ma non ricordo dov’ero il 2 agosto 1989. So che, di solito, se sono a Bologna, vado alla manifestazione aperta dallo striscione «BOLOGNA NON DIMENTICA», che percorrendo tutta via Indipendenza raggiunge il piazzale della stazione. Ma i miei ricordi di quell’anno, fuori da Pechino, sono molto confusi.
Alla fine dell’estate, ripartii per Pechino tormentata, per cercare di capire quello che avevo visto, e ritrovare le persone per le quali ero in pensiero.
Mi ritrovai a osservare in che modo si impone un’amnesia.
Si comincia per passaggi lenti, anche dopo un massacro. Un mese dopo non si può dire alle persone ancora traumatizzate che non è andata come sanno che sia andata. Ma le informazioni cominciano a essere mescolate: il primo passo per creare un’amnesia richiede infatti di intorbidire le acque, stemperando i fatti con le invenzioni. E infatti, nel novembre del 1989, nel Museo di storia militare fu allestita una mostra sui “disordini”. Per i primi tre quarti era abbastanza affine a quello che ricordavo. C’era una fotografia di Hu Yaobang e molte altre delle manifestazioni studentesche e delle persone che parlavano con i soldati. Sotto una teca c’erano magliette con gli slogan e le firme dei compagni di protesta, striscioni e altri oggetti di quei giorni. Poi, una svolta improvvisa pervertiva la memoria, con didascalie che affermavano che i giovani studenti pieni di ideali erano stati strumentalizzati da “mani nere” con secondi fini, e che il governo era dovuto intervenire non contro gli studenti, ma contro questi sobillatori che ne approfittavano. Andai alla mostra con un amico, e ce ne stupimmo. Ci eravamo aspettati assurdità fin dall’inizio, non questo sfumare dal vero al falso. Intanto, i media attaccavano gli intellettuali arrestati per essersi uniti agli studenti, ed è sempre strano constatare quanto appiccicoso sia il fango, anche il più finto.
Nel primo anniversario della repressione di Tian’anmen le università erano pattugliate da poliziotti in borghese e i professori cercavano di dissuadere chiunque dall’uscire dai dormitori. Lo stesso, in centinaia girellavamo per il campus per vedere se qualcuno avesse l’ardire di fare qualcosa. Ricordo che sui davanzali di uno dei dormitori erano state messe in fila tante bottigliette vuote, che un po’ per volta vennero spinte giù, come casualmente: bottiglietta in cinese si dice xiaoping, omofono del nome di Deng Xiaoping, l’allora leader cinese. Poco. In codice. Ma pur sempre un segnale di memoria. In modo quasi impercettibile, col trascorrere del tempo si parlava solo di altro.
Una decina d’anni dopo era di nuovo il 4 giugno e io mi trovavo di nuovo a Pechino, a casa di un’amica inglese in un compound diplomatico dove si poteva vedere la BBC. Con noi c’era un’amica pechinese che nel 1989 abitava vicino alle strade dove erano passati i carri armati, aveva visto corpi schiacciati, soldati che impugnavano i mitra contro cittadini pacifici e proiettili che volavano fin dentro le case delle persone. Allora ne avevamo pianto insieme. Però quando la BBC trasmise il famoso filmato del ragazzo con un sacchetto in mano che si parava davanti ai carri armati, e lo schermo divenne nero, oscurato dalla censura, la nostra amica commentò:
«Certo che voi stranieri siete ossessionati con il 4 giugno».
Le chiesi come poteva pensare che il 4 giugno riguardasse “noi stranieri”, non avevamo forse pianto nelle braccia l’una dell’altra, io e lei?
Lei sbiancò. Poi, turbata, disse: «Mi è stato detto che non ho visto quello che ho visto per così tanti anni, che avevo smesso di sapere di averlo visto».
La prova più inquietante della plasticità della memoria umana.
È per questo che il compito di ricordare e di sapere se lo era assunto Hong Kong, fin quando è stato possibile. C’era uno slogan in caratteri bianchi su sfondo nero sempre appeso ai lati del palco e non cambiava mai: «NON DIMENTICARE IL 4 GIUGNO». Invece a Pechino, quando si avvicinava l’anniversario, venivano fatti allontanare i familiari delle vittime che si erano uniti in un gruppo, non riconosciuto legalmente, chiamato “Madri di Tian’anmen”, che aveva a Hong Kong una sede di sostegno. Grazie a loro, Ding Zilin, la fondatrice del gruppo e madre di Jiang Jielian, ucciso dall’esercito a diciassette anni in quella terribile notte, mandava ogni anno un messaggio registrato a chi assisteva alla veglia per ribadire l’importanza della memoria e la sua gratitudine nei confronti di Hong Kong, oltre al suo perenne dolore di madre.

Hong Kong, 4 giugno (foto di Ilaria Maria Sala)

Hong Kong, 4 giugno (foto di Ilaria Maria Sala)

Hong Kong, 4 giugno (foto di Ilaria Maria Sala)
Pensando ai paralleli fra la memoria collettiva di due stragi, quella di Bologna e quella di Pechino, ho telefonato a Paolo Bolognesi, dal 1996 all’agosto del 2025 presidente dell’Associazione tra i familiari delle vittime della strage di Bologna (se volessi telefonare a Ding Zilin, non sarebbe possibile). Mi ha detto che l’associazione è nata per esigere giustizia: «Non siamo andati a chiedere giustizia con il cappello in mano. Ci era dovuta. L’abbiamo pretesa». E questo, ha ripetuto più volte, malgrado la compromissione dello Stato italiano, i depistaggi che hanno accompagnato ogni momento delle inchieste sulle stragi che hanno insanguinato l’Italia. Mi ha anche detto: «Il nostro discorso è stato affrontato su due punti fondamentali: uno, la memoria. Ricordare quello che è successo. E, punto due, la conoscenza. Memoria e conoscenza. I due punti uniti che abbiamo sempre cercato di portare avanti. La memoria dell’evento e la conoscenza dell’evento. La conoscenza per capire perché è successo quello, cosa stava dietro a quell’evento, per quale motivo, politicamente, perché a certe cose non venivano date risposte».
Mentre mi raccontava gli incontri nelle scuole, con i gruppi di anziani, in giro per l’Italia in occasioni molto diverse, per creare un movimento di opinione che mantenesse la memoria e approfondisse la conoscenza, io pensavo a Ding Zilin – licenziata dall’Università del Popolo, dove insegnava matematica; messa agli arresti domiciliari in tante occasioni – e pensavo ai dissidenti – arrestati, redarguiti, puniti, per non aver voluto veder morire la memoria.
Oggi la memoria esterna cinese cerca di restare viva in paesi in cui c’è stata un’importante diaspora cinese e hongkonghese, ma in Cina chi non può dimenticare, come Ding Zilin e gli altri familiari delle vittime, vive nell’isolamento.
Non esiste, come nella stazione di Bologna e in piazza Maggiore, una lista dei nomi delle vittime o una lapide dove l’orrore avvenne, nessun cratere ancora visibile, nessuno squarcio coperto di vetro nel muro della sala d’aspetto di seconda classe affacciata sul binario 1, su cui si soffermano ogni giorno così tanti bolognesi e viaggiatori.
A Tian’anmen oggi ci sono parate e turisti, e soldati che controllano le borse e, a volte, i documenti di identità. L’alzabandiera marziale, solenne, volto a ispirare sentimenti patriottici, che si tiene ogni giorno davanti alla Città Proibita proprio dove sfilavano i dimostranti, è uno degli elementi dell’amnesia. C’è posto per la gloria statale e di partito, non per la memoria dei laobaixing, che di sicuro ricordano dove si trovavano e cosa provarono quel giorno, come io mi ricordo della tv in quel bar calabrese con le immagini di Bologna, ma che di sicuro si sentirebbero straniti se qualcuno gli chiedesse cosa ricordano del 4 giugno 1989, e che forse, come la mia amica, a volte hanno smesso di sapere quello che hanno visto.
A Bologna tutti conoscono il nome di Agide Melloni, conducente dell’autobus 37, che il giorno della strage andò e tornò fra la stazione e diversi ospedali, trasportando morti e feriti. Oggi quell’autobus è conservato nel capannone storico dell’azienda dei bus, in Via Bigari. Anche a Pechino, all’alba del 4 giugno, vidi un autobus che viaggiava lento e con le portiere aperte, trasportando i feriti nell’ospedale vicino all’università. Ma non so il nome del conducente. Non so nemmeno cosa gli sia successo.

(Ansa/Giorgio Benvenuti)

(foto Ilaria Maria Sala)



























