Italo Calvino dedicò più tempo ai libri degli altri che ai suoi
Studiato e ammirato per le cose che scrisse, fu influente e “impegnato” anche per ciò che lesse, valutò e contribuì a far pubblicare

Il più importante premio letterario italiano dedicato a opere prime inedite di narrativa porta il nome di Italo Calvino. Lo istituirono alcuni dei suoi amici e più stretti collaboratori poco dopo la sua morte, avvenuta il 19 settembre 1985, quarant’anni fa. E ha senso che sia rivolto ad aspiranti scrittori e scrittrici, perché è un tributo a un’attività di Calvino di solito meno celebrata rispetto alla sua più nota di scrittore: quella da redattore, curatore, dirigente, traduttore e consulente per Einaudi.
È per questa sua attività parallela che definire Calvino uno degli autori italiani più influenti di sempre ha un senso particolare e diverso rispetto ad altri scrittori famosi. Lo fu non soltanto per l’impatto enorme che ebbero nella cultura italiana i suoi libri e i suoi saggi, da Se una notte d’inverno un viaggiatore alle Lezioni americane, letti da generazioni, studiati nelle scuole, tradotti in decine di lingue e citati innumerevoli volte. Fu influente anche per quanto e come lavorò ai libri non suoi, da pubblicare. Perché contribuì in un’impresa collettiva a definire e orientare la produzione culturale nella più importante casa editrice italiana del Novecento, a contatto con decine di redattori e con altri intellettuali e letterati come lui, tra cui Elio Vittorini, Cesare Pavese e Natalia Ginzburg, poi diventati suoi amici.
«Lavorando in una casa editrice, ho dedicato più tempo ai libri degli altri che ai miei. Non lo rimpiango: tutto ciò che serve all’insieme d’una convivenza civile è energia ben spesa», scrisse Calvino nel 1980, in un breve testo autobiografico.
A Torino aveva cominciato a lavorare per Einaudi subito dopo la Seconda guerra mondiale e l’esperienza tra i partigiani liguri: prima vendendo libri a rate e poi come redattore e responsabile dell’ufficio stampa, dal 1950 in poi, dopo aver curato per due anni la pagina culturale dell’Unità. Nel frattempo aveva già pubblicato il suo primo romanzo, Il sentiero dei nidi di ragno, direttamente ispirato da quella sua esperienza partigiana.
– Leggi anche: Come sono stati ridisegnati i libri di Italo Calvino
A parte la lettura e la valutazione dei manoscritti e dei libri inediti, una delle più citate e durature mansioni di Calvino in Einaudi fu la cura delle relazioni con autori e traduttori. Le difficoltà, le necessità e i dubbi con cui si misurò in questa sua attività sono noti in dettaglio dalle migliaia di lettere che inviò e a cui rispose, conservate nell’archivio Einaudi e in parte pubblicate in diverse raccolte a partire dai primi anni Novanta.
La maggior parte delle lettere descrive attività di routine tipiche del lavoro editoriale: suggerimenti agli autori, risposte a recensori e critici letterari, indicazioni ai traduttori, avvisi ad amici e colleghi. Dal dialogo con ciascuno di questi corrispondenti emergeva spesso un’idea molto chiara, seppure variabile nel tempo, di cosa la letteratura dovesse essere.

Calvino di fronte alla scrittrice Natalia Ginzburg e allo scrittore e curatore editoriale Giorgio Manganelli, il 21 aprile 1975 (Romano Gentile/A3/contrasto)
In una lettera del 1957 allo scrittore siciliano Leonardo Sciascia, da lui già notato qualche anno prima, Calvino condivise il suo giudizio di un racconto che Sciascia aveva inviato a Einaudi. Scrisse di apprezzarne la chiarezza, ma che mancava qualcosa «di nuovo, di vero, di sofferto, di faticoso, di non-del-tutto-chiaro-nemmeno-a-te-stesso», che invece era presente nel saggio precedente e per cui Sciascia si era fatto notare (Cronache scolastiche, basato sulla sua esperienza da maestro di provincia in Sicilia). E spiegò la ragione del suo apprezzamento:
«È una cosa che esce dalla letteratura «documentaria» di questi anni, perché non c’è solo il documentario, ma ci sei tu dentro che guardi. Sono convinto che se tu continui a guardare intorno a te e dentro di te con altrettanto coraggio puoi darci altre cose di quella forza. Ma non «pezzi di costume». Chi se ne frega del costume? Lascia che se ne occupino quelli che fanno le colonnine sul «Mondo» [un settimanale di politica]. Oggi la letteratura dev’essere terribile».
Sciascia pubblicò poi per Einaudi una raccolta di racconti – nella collana “I gettoni”, curata da Calvino e Vittorini – e alcuni dei suoi libri più famosi, tra cui Il giorno della civetta, ispirato all’omicidio del sindacalista comunista Accursio Miraglia da parte di Cosa Nostra nel 1947.
Calvino discuteva anche con critici e collaboratori di altri editori, condividendo con loro giudizi sugli autori e a volte contestando le loro scelte e i loro criteri di pubblicazione. In una lettera telegrafica allo scrittore Pietro Citati, consulente di Livio Garzanti, espresse grande ammirazione per Una vita violenta di Pier Paolo Pasolini, definendolo «uno dei più bei libri italiani del dopoguerra». Ma criticò Primavera di bellezza di Beppe Fenoglio perché «molto debole», e alludendo a un precedente romanzo breve che Fenoglio aveva pubblicato per Einaudi aggiunse: «ci avete portato via un autore per bruciarlo in una prova modesta, cui nel suo interesse si doveva dare meno risalto».
– Ascolta l’episodio di Amare Parole: Italo Calvino e la lingua
Calvino scrisse per Einaudi, tra le altre cose, decine di presentazioni e prefazioni anonime di nuove edizioni e traduzioni di classici della letteratura straniera. Tra questi, opere di William Shakespeare, Aleksandr Puškin, Joseph Conrad (a cui Calvino aveva peraltro dedicato la tesi di laurea), Rudyard Kipling, Charles Dickens, Émile Zola e molti altri. Il ruolo di Calvino in Einaudi fu centrale anche per la selezione di libri inediti di narrativa straniera: ne lesse una quantità enorme, scrivendo giudizi molto netti e dettagliati per ciascuno (fu un grande estimatore di Marguerite Duras e Jorge Luis Borges, tra gli altri).

Calvino con lo scrittore argentino Jorge Luis Borges all’Hotel Excelsior, a Roma, il 28 aprile 1983 (Massimo Perelli/Leonardo Cendamo/Getty Images)
Anche la sua esperienza diretta di autore tradotto in altre lingue fu preziosa per Einaudi: per la selezione attenta dei traduttori e, in generale, per la valorizzazione dell’attività del tradurre, in un’epoca in cui le riflessioni sul tema non erano molte. Ne scrisse in una lettera del 1963 al direttore della rivista letteraria Paragone, per difendere dalle obiezioni del critico Claudio Gorlier la traduzione del libro di Edward Morgan Forster Passaggio in India realizzata per Einaudi da Adriana Motti. Descrisse come doti fondamentali per un buon traduttore «comprendere le peculiarità stilistiche dell’autore da tradurre» e «saperne proporre equivalenti italiani in una prosa che si legga come fosse stata pensata e scritta direttamente in italiano».
Lo stesso Calvino tradusse per Einaudi I fiori blu di Raymond Queneau, uno dei tanti scrittori e intellettuali conosciuti e frequentati a Parigi, dove visse tra il 1967 e il 1980. In quel periodo la sua collaborazione da consulente editoriale diventò via via più saltuaria, ma non meno influente. Fu fondamentale, per esempio, per la creazione e la direzione della collana Centopagine: romanzi brevi di grandi autori di ogni epoca e cultura (perlopiù italiani, ma anche francesi, russi, inglesi e americani).
Per quella collana Calvino si occupò della selezione dei titoli e dei traduttori, dell’editing, della scrittura diretta delle introduzioni e della ricerca di altri che le scrivessero. Alcuni di loro, tra cui il filosofo Michel Foucault, erano persone che frequentava a Parigi o che comunque conosceva per averci lavorato insieme in Einaudi. Centopagine fu la sua impresa editoriale più duratura e personale, e anche l’ultima: gli ultimi due libri della collana uscirono nel 1985, l’anno della sua morte.

Italo Calvino a casa sua, a Parigi, il 5 dicembre 1974 (Sophie Bassouls/Sygma/Getty Images)
L’attività editoriale di Calvino è stata spesso interpretata come una proiezione della sua poetica e delle sue riflessioni sul ruolo della letteratura e sulla funzione della scrittura. In generale, l’immagine dell’intellettuale taciturno e più incline a occuparsi delle parole altrui che delle proprie è anche in linea con una certa reputazione di Calvino nelle relazioni con gli altri, nota da altre sue lettere e da testimonianze dirette di amici.
Allo scrittore Domenico Rea, che in una lettera gli aveva chiesto perché fosse così laconico, rispose nel 1954 che lo era soprattutto «per convincimento morale, poiché lo credo un buon metodo per comunicare e conoscere, migliore d’ogni espansione incontrollata e ingannevole».
Francesco Ciafaloni, a lungo redattore di Einaudi e suo amico, scrisse che parlare con Calvino voleva dire «proprio parlare più che ascoltare», predisporsi ad avvii difficili di conversazione («gli “heemm…” di Italo»). Se aveva qualcosa da dire preferiva scriverla, ma anche in quel caso tendeva comunque a farlo mettendoci dentro storie o metafore, senza mai presentarla come qualcosa di inedito.
Anche alcuni dei testi di Calvino più famosi e citati alludono spesso ad attività silenziose, di ricerca, selezione ed estrazione di senso, più che di produzione diretta.
Nell’ultimo paragrafo del libro Le città invisibili, forse il testo di Calvino più scorporato e citato in assoluto, il personaggio di Marco Polo definisce e rivendica un modo di sottrarsi all’«inferno dei viventi». È un’istruzione che ricorda per molti aspetti il lavoro degli editori, della critica e delle élite, e in generale di chiunque abbia per qualità o competenze ruoli di responsabilità nell’industria culturale: «cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».
Anche un altro dei più celebri personaggi letterari di Calvino – Palomar, protagonista dell’omonimo romanzo del 1983 – mostra più attenzione alle parole altrui che alle proprie, impegnato com’è a osservare e comprendere il mondo, molto più che a commentarlo.
«In un’epoca e in un paese in cui tutti si fanno in quattro per proclamare opinioni o giudizi, il signor Palomar ha preso l’abitudine di mordersi la lingua tre volte prima di fare qualsiasi affermazione. Se al terzo morso di lingua è ancora convinto della cosa che stava per dire, la dice; se no sta zitto. Di fatto, passa settimane e mesi interi in silenzio».



