È tutto bello o bellissimo

Da tempo si discute di quanto siano diventate rare le stroncature nella critica musicale, letteraria e cinematografica, almeno quelle disinteressate

Adesivi che citano i giudizi contenuti nelle recensioni del festival sui giornali, espressi con quattro o cinque stelle su cinque
Adesivi che citano le recensioni del Fringe Festival sui poster del festival, a Edimburgo, Scozia, il 24 agosto 2023 (Ken Jack/Getty)
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«Ne ferisce più la penna che la spada» è un detto con origini antiche e versioni equivalenti in quasi tutte le lingue del mondo. Si adatta a molti contesti, ma se riferito all’arguzia e alla vivacità della critica verso i prodotti culturali oggi suona poco appropriato. Per lungo tempo quell’arguzia e quella vivacità hanno infatti trovato la loro principale e più ammirata espressione nelle stroncature, ma di stroncature se ne leggono sempre meno, o meglio ancora: le ragioni per cui i critici le scrivono sono cambiate.

Ne ha scritto di recente anche il New Yorker a proposito della critica musicale, ma è un argomento di cui si discute da anni anche per le recensioni dei libri, dei film e di altri prodotti culturali. C’entra il modo in cui Internet e altri fattori hanno cambiato gli interessi economici e i rapporti tra critica, pubblico, produttori e autori, favorendo di fatto un approccio generalmente accomodante o compiacente verso la cultura di massa, o verso nicchie abbastanza ampie da sostenere domande di mercato.

Nel caso della critica musicale è un’evoluzione particolarmente notevole, perché molti dei più autorevoli critici del passato avevano invece costruito la loro reputazione proprio sulla severità dei loro giudizi contro la musica che andava forte in classifica. E anche davanti a musicisti famosi e rispettati, quando non apprezzavano un loro nuovo disco, non si facevano problemi a scriverlo senza mezzi termini.

Tra gli esempi citati dal New Yorker c’è Greil Marcus, uno dei più stimati critici musicali statunitensi di sempre, peraltro autore di uno dei migliori libri sul rock, Mystery Train, del 1975. Cinque anni prima, sulla rivista Rolling Stone, Marcus aveva cominciato la sua recensione del decimo disco di Bob Dylan, Self Portrait, con una domanda poi diventata memorabile: «cos’è questa merda?» (la valutazione finale era poi più sfumata, in realtà, e il disco è noto come uno tra i meno riusciti di Dylan).

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In quegli anni altri critici statunitensi si erano fatti un nome, oltre che per le loro competenze, per il loro stile diretto e sprezzante: tra gli altri, Robert Christgau, Ellen Willis e Lester Bangs (interpretato da Philip Seymour Hoffman nel celebre film del 2000 Almost Famous). Più o meno tutti, man mano che il rock prima e il pop poi diventavano generi dominanti, contribuirono a fondare una distinzione netta tra ciò che la critica “acclamava” e la musica “commerciale”, definizione che spesso conteneva un giudizio intrinsecamente negativo. Scrivevano però di tutta la musica per loro meritevole di attenzione, anche quella che consideravano disprezzabile.

Un certo gusto per le stroncature si è mantenuto fino agli anni Novanta e ai primi Duemila. Nel 1990 il primo e ultimo disco da solista di Andrew Ridgeley, membro del duo inglese Wham! con George Michael, ricevette su Rolling Stone mezza stella, su una scala da zero a cinque. Nel 2001, in una famosa recensione dei dischi più venduti di quell’anno, lo scrittore inglese Nick Hornby non nascose una chiara insofferenza verso le Destiny’s Child e i Blink 182. E nel 2006 il secondo disco del gruppo australiano Jet, che tre anni prima aveva avuto successo con il singolo “Are You Gonna Be My Girl”, ricevette su Pitchfork un punteggio di 0.0 su 10 e una recensione senza testo, con solo un video di uno scimpanzé che dirige il getto della sua urina in bocca.

Nel tempo la distinzione tra la musica acclamata dalla critica e quella più ascoltata e venduta è diventata molto più sfumata, e i critici hanno praticamente smesso di scrivere stroncature (Pitchfork non assegna uno 0.0 dal 2007, anche se dischi di rara bruttezza come Rush dei Måneskin possono prendere voti come 2.0). Il gruppo di autori del blog Data Colada, che si occupa di analisi statistiche, fece notare nel 2018 che soltanto il 16 per cento dei dischi pubblicati quell’anno aveva un punteggio inferiore a 70 su Metacritic, il sito che raccoglie le recensioni più lette e ne trae un punteggio medio da 0 a 100.

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Una possibile ragione di questo squilibrio, secondo Data Colada, è che i critici non vogliono essere severi quando i musicisti non imbroccano un disco, o che preferiscono non recensire affatto i dischi che considerano brutti. In generale, meno recensioni ha un disco, più è probabile che non sia un granché, indipendentemente dal punteggio che riceve: di solito alto, perché i pochi che ne scrivono sono incentivati a scriverne bene, non male.

Anche per i dischi più venduti e recensiti c’è però una propensione generale a giudicarli bene o benissimo. Il più recente di Taylor Swift, stando a Metacritic, è un bel disco: l’unica recensione negativa non basta a portare il punteggio sotto 76. Il che non implica che non ci siano persone che detestano la musica di Taylor Swift, anzi: solo che «a quanto pare nessuna di loro è un critico», ha scritto il New Yorker, che a Swift e ad altri musicisti di enorme successo ha comunque dedicato in anni recenti diversi approfondimenti, spesso con toni celebrativi.

Di un disco di Taylor Swift, fino a una decina di anni fa, le più note riviste musicali statunitensi non si sarebbero nemmeno occupate (Pitchfork ha cominciato a farlo solo nel 2017, dal sesto disco in poi). E lo stesso discorso vale per la musica più venduta di altri generi, dall’R&B al country al reggaeton, che le riviste di musica cominciarono a recensire e celebrare sia per respingere le accuse di rock e pop-centrismo, sia per cercare di adattarsi ai profondi cambiamenti dell’industria dei media e alla frammentazione delle comunità online. Cambiamenti che in parte hanno avuto effetti simili anche sulla critica letteraria e cinematografica.

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Gruppi editoriali e riviste di settore in crescenti difficoltà economiche, in un mercato stravolto dai social network e dalla crisi dei servizi di intermediazione, intuirono che era possibile attirare pubblico mostrando compiacenza e benevolenza verso autori molto seguiti sui social media. Questo approccio poteva far circolare più estesamente le recensioni e fare aumentare le vendite delle riviste o il traffico sui siti, generando profitti fondamentali. «La critica, come ogni attività umana, tende a fare gli interessi di chi la paga», scrisse nel 2022 sulla rivista Il Tascabile lo scrittore Vincenzo Latronico, citando il curatore e critico d’arte statunitense Robert Storr.

È un argomento che salta fuori spesso quando si parla dei giornali e dei loro modelli di business, ma vale abbastanza anche per la critica. Se non è finanziata pubblicamente o sostenuta da persone abbonate alle riviste, dipende comunque da collaborazioni con l’industria di settore, con le gallerie o con le case editrici. E «in una posizione del genere non si è molto inclini a farsi nemici», scrisse Latronico.

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Nel tempo, a causa delle difficoltà economiche, si è diffusa inoltre nelle riviste una tendenza a reclutare come recensori non critici che scrivono un po’ di tutto, come in passato, ma autori o giornalisti freelance esperti di un determinato argomento o micro-genere. Questo ha reso ulteriormente rare le stroncature e lo stile mordace, dato che quegli autori sono spesso portatori di un pregiudizio positivo intrinseco. «Se sei uno degli unici due esperti al mondo nella prima scrittura cuneiforme sumera e scrivi una recensione negativa sul libro dell’altro esperto, la cosa potrà anche essere divertente per venti minuti, ma poi te ne pentirai per vent’anni», scrisse l’Economist nel 2023.

Le critiche sarcastiche o sottilmente maligne sulle riviste sono diventate via via meno frequenti anche per un’altra ragione: la paura di suscitare reazioni eccessive dei fan o ostilità da parte degli autori stessi. Ci sono ovviamente diverse eccezioni: capita ancora di leggere stroncature di dischi, libri e film di autori e autrici di grande successo, dai Coldplay a Sally Rooney a Francis Ford Coppola.

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È aumentata però anche la frequenza di stroncature mirate e interessate. Parallelamente al timore delle riviste di scontentare il pubblico dei fan, è aumentato infatti a dismisura un interesse di gruppi più piccoli o di singoli utenti delle piattaforme a raccogliere consensi altrettanto estesi tra le molte persone che disprezzano apertamente un certo autore o una certa autrice di successo.

Anche per i film e le serie, come per altri prodotti culturali, le opinioni sono diventate sempre più polarizzate man mano che aumentava la tendenza a discuterne online e sui social media. «La cosa che si fa fatica a trovare non sono le stroncature, ma l’opinione intermedia», dice Gabriele Niola, critico di cinema e autore sul Post della newsletter Dicono che è bello e del podcast Dicono che è bello, a Venezia. Stroncare in questo modo può essere utile a chi stronca, aggiunge, perché anche per i film più amati e popolari si è capito «che dopo la prima ondata di opinioni, arriva sempre la seconda di contro-opinioni che raccoglie altrettanti clic, se non di più».

– Ascolta anche il podcast “Dicono che è bello, a Venezia”

In un certo senso, in un contesto di opinioni polarizzate e comunità frammentate, a mancare non sono le stroncature. Manca piuttosto una critica in grado di creare una cultura di cui si ambisca a fare parte, che è una cultura «intrinsecamente pluralista», scrisse Latronico parlando di critica letteraria (ma vale in parte anche per quella musicale e cinematografica).

Ha senso stroncare chi ha successo non per i profitti che la stroncatura genera, ma anzi per fare da contrappeso a un discorso orientato solo verso i profitti stessi: le classifiche di vendita, le recensioni commissionate, i fandom. E per opporsi, in generale, a una cultura eccessivamente condizionata da vari incentivi economici e interessi contrapposti, in cui qualsiasi cosa o è un capolavoro o è una schifezza, altrimenti è trascurabile.