È davvero il turismo quello che serve all’economia italiana?

La politica ne parla spesso come la soluzione su cui puntare per la crescita, gli economisti non sono d'accordo

di Mariasole Lisciandro

Turisti al Colosseo, a Roma, nel 2023 (AP Photo/Andrew Medichini)
Turisti al Colosseo, a Roma, nel 2023 (AP Photo/Andrew Medichini)
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Ad agosto c’è stata una discreta polemica politica su come stesse andando la stagione turistica italiana, tra chi sosteneva che le spiagge fossero più vuote del solito, come se questo fosse rappresentativo di una crisi dell’intero modello turistico italiano, e chi invece diceva che le cose andassero bene come sempre.

A prescindere da cosa finiranno per dire i dati definitivi sulla stagione che sta per chiudersi, l’intensità di questo dibattito mostra l’alta considerazione che la politica italiana ha del turismo, spesso ritenuto tra i settori più preziosi per l’economia, su cui investire e puntare per la crescita. Se ne sente parlare spesso in termini di «volàno per l’economia italiana» o di «petrolio italiano», ma in realtà è un settore pieno di problemi, vecchio, con poca concorrenza, condizioni di lavoro massacranti, stipendi bassissimi, con scarso potenziale di innovazione, e con un alto impatto sui territori per tutte le conseguenze dell’overtourism: gli economisti sono generalmente concordi nel dire che non è il settore su cui puntare per il futuro.

In Italia il dibattito sul valore del turismo per l’economia è sempre legato a un dato: quanto pesa il turismo sul Prodotto Interno Lordo (PIL), quindi il suo ruolo nell’economia italiana. Capita spesso di sentire stime esagerate e poco affidabili, usate peraltro anche dalla stessa ministra del Turismo Daniela Santanchè, ma il dato più affidabile lo dà l’ISTAT (l’istituto nazionale di statistica): il turismo vale il 6 per cento del PIL italiano, circa il 13 per cento se si considerano anche i servizi che non generano valore nel solo turismo, come la ristorazione e i trasporti.

Nonostante ci siano altri settori che valgono in realtà molto di più, come l’industria, è comunque una quota rilevante, considerando anche quante persone occupa: circa 5 milioni di addetti, compresi anche quelli dei settori non esclusivamente turistici. Sono poco più di un quinto di tutti i lavoratori in Italia, ma questo ovviamente non basta a definirlo un “traino per l’economia”.

Affinché un settore sia davvero decisivo per l’economia di un paese bisogna valutarne le potenzialità di crescere e di portare sviluppo, cioè se attrae investimenti, stimola l’innovazione, e se crea posti di lavoro ben retribuiti e vantaggi per la società nel suo complesso. Il turismo questo non lo fa, e non per una questione di scarse capacità imprenditoriali degli operatori italiani, ma proprio per le caratteristiche intrinseche del settore.

Uno stabilimento balneare sul litorale di Ostia (Cecilia Fabiano/LaPresse)

L’evidenza statistica dice che generalmente più è alta l’incidenza del turismo sul PIL di un paese e più è basso il livello di reddito procapite. I paesi più ricchi e avanzati non puntano a vivere di turismo, mentre lo fanno di solito i paesi più poveri e in via di sviluppo.

L’intuizione è che questi basano il loro modello economico sullo sfruttamento di ciò che hanno già, per esempio spiagge, montagne o luoghi culturali. È un qualcosa di simile a quello che succede ai paesi che vivono di risorse naturali, come il petrolio: sono in entrambi i casi risorse finite, il cui sfruttamento non può crescere all’infinito e può facilitare un’indolenza nello sviluppo di altri settori (con un fenomeno che in economia è chiamato la maledizione delle risorse naturali).

L’Italia è il quarto paese europeo per quota del turismo sul PIL: dal grafico si vede che i paesi a più alto reddito sono nella seconda metà della classifica.

Il concetto centrale per capire la questione è la produttività, la misura dell’efficienza del sistema produttivo. Per spiegarlo in modo banale: tra due aziende che hanno le stesse spese, è più produttiva quella che riesce a generare più reddito. Un’azienda più produttiva è anche un’azienda più ricca, che può aumentare gli stipendi ai propri dipendenti, reinvestire i guadagni per diventare ancora più produttiva oppure creare utili per l’imprenditore.

Nel settore turistico l’aumento della produttività incontra però evidenti limiti strutturali. Alberghi e ristoranti hanno un dato numero di stanze e tavoli e gli stabilimenti balneari non possono aumentare più di tanto la densità degli ombrelloni. I camerieri dei ristoranti riescono a servire in un’ora più o meno lo stesso numero di tavoli che probabilmente servivano i camerieri di quarant’anni fa, così come gli addetti alle pulizie degli alberghi riescono a pulire in un’ora più o meno lo stesso numero di stanze da decenni a questa parte.

Ciò significa che le aziende turistiche possono aumentare la loro produttività fino a un certo punto, e che quindi hanno margini di crescita tutto sommato limitati: possono puntare sul fornire servizi di lusso, per aumentare i prezzi, ma è una scelta che non tutti possono fare e soprattutto che non aggira il problema della produttività.

Questo vincolo alla crescita vale per molti settori a bassa produttività, come l’edilizia e in misura minore l’agricoltura, mentre non vale per i settori dove il ruolo della tecnologia è preponderante.

Un ristorante a Roma (AP Photo/Andrew Medichini)

Gli economisti sostengono quindi che è sempre più conveniente che i paesi puntino sui settori ad alta produttività, come per esempio l’industria, i settori tecnologici, parte della manifattura, i servizi finanziari: sono quelli in cui il margine di crescita della produttività è maggiore, in cui le prospettive di crescita e sviluppo sono migliori, è maggiore anche il guadagno dei loro lavoratori e a cascata il contributo sull’intera economia e società.

Non significa però che l’Italia dovrebbe smettere del tutto di curare il settore turistico – visto anche quanti lavoratori assorbe, perlopiù tra la forza lavoro poco qualificata – ma che i governi dovrebbero tentare di dirottare gli investimenti su altro, e puntare alla formazione di lavoratori più istruiti che possano lavorare in settori a più alta potenzialità.

Incentivare la forza lavoro a spostarsi sui settori più promettenti significa incentivarla anche ad avere stipendi più alti: secondo la teoria economica le retribuzioni infatti possono crescere solo insieme alla crescita della produttività. Che gli stipendi del settore turistico tendano a essere più stagnanti e bassi degli altri è cosa nota e strutturale. In Italia non solo la media delle paghe orarie del settore turistico è inferiore di circa un terzo rispetto a quella di tutti i lavoratori italiani, ma lo sono anche le paghe orarie dei lavoratori turistici pagati meglio. A questo si aggiunge che i lavoratori del settore subiscono anche una bassa qualità del lavoro, con contratti stagionali o precari e turni spesso estenuanti.

Gli stipendi sono aumentati di pochissimo anche in questi anni di grandi rincari del settore. A fronte di una crescita del 13 per cento promessa entro il 2027 con il rinnovo del principale contratto del settore, i dati ISTAT dicono che gli imprenditori hanno aumentato i loro prezzi molto di più, andando quindi a ingrossare solo i loro profitti: da gennaio del 2021 a oggi il costo dei servizi ricettivi – cioè quelli di ristoranti, bar, alberghi e delle spiagge – è salito del 33 per cento; il costo di dormire fuori, in alberghi o in altri tipi di strutture, è aumentato del 55 per cento.

Non sono rincari giustificati esclusivamente dall’aumento generalizzato dei costi per gli imprenditori: a fronte di un aumento generale del costo della vita del 19 per cento ristoranti e alberghi hanno aumentato i loro prezzi rispettivamente di più di un terzo e di quasi il triplo. Il resto ha aumentato i loro profitti, e non gli stipendi dei dipendenti.

La piazza della Fontana di Trevi piena di turisti (AP Photo/Andrew Medichini)

Come ha spiegato in un’intervista a lavoce.info l’economista Riccardo Trezzi, che di questi temi si occupa da tempo, mentre il problema della bassa produttività accomuna il turismo di tutto il mondo, quello degli stipendi fermi e bassi è un problema particolarmente forte in Italia, dove il settore subisce tra le altre cose anche la scarsa concorrenza degli operatori (basta pensare all’annosa questione delle concessioni balneari) e una contrattazione dei sindacati talvolta inefficace. Il risultato è che se anche il settore aumenta i suoi profitti, questi andranno solo a beneficio dei proprietari delle aziende, senza una redistribuzione ai lavoratori e senza investimenti in produttività.

Se poi a questo aggiungiamo anche i problemi qualitativi del turismo, come l’inquinamento legato ai trasporti, l’eccessivo sfruttamento del territorio, l’aumento del costo della vita e delle case per i residenti, la trasformazione dei centri storici, e via così, diventa chiaro che il turismo non ha grandi potenzialità di far crescere l’economia italiana, per com’è strutturato ora.

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