Su cosa si prepara a litigare la politica, da settembre
Ci sono le elezioni in sette regioni, ma una conta più delle altre, e un po' di voti delicati in parlamento sulla giustizia e sul caso Almasri

Ad agosto la politica segue un po’ le tendenze generali del resto del paese, adeguandosi ai suoi ritmi e alle sue abitudini: e quindi, in sintesi, va in vacanza. Non significa che tutta l’attività dei parlamentari o dei rappresentanti del governo sia sospesa: avviene però per lo più lontano dai palazzi romani o dalle sedi istituzionali.
Giorgia Meloni, per esempio, dalla sua vacanza in Grecia, ha dovuto collegarsi per una serie di delicate videoconferenze coi leader europei, con Volodymyr Zelensky e con Donald Trump in vista dell’incontro tra il presidente statunitense e quello russo Vladimir Putin previsto per ferragosto in Alaska. Altre questioni meno rilevanti, come quella sul rincaro dei prezzi degli stabilimenti balneari e sui dati relativi al turismo, alimentano polemiche più o meno strumentali che tengono distrattamente impegnati i vari dirigenti di partito.
Ma un po’ tutti, sia nella maggioranza sia nell’opposizione, sanno che il confronto e lo scontro politico riprenderanno davvero a settembre, e si concentreranno principalmente su tre temi: le varie elezioni regionali che si terranno in autunno, il dibattito sulla riforma della giustizia e l’autorizzazione a procedere per i ministri Carlo Nordio e Matteo Piantedosi e per il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano sul caso Almasri.
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Le regionali sono senza dubbio l’appuntamento elettorale più importante da qui alla fine della legislatura, prevista nel 2027. Sia Meloni sia Elly Schlein sanno infatti che un buon risultato può indirizzare positivamente la lunga campagna elettorale che poi porterà alle elezioni politiche. Bisogna però capire cosa significhi “un buon risultato”. Delle sette regioni che vanno al voto, tre sono governate dalla destra (Calabria, Marche e Veneto) e tre dal centrosinistra (Toscana, Puglia e Campania). E poi c’è la Valle d’Aosta, che però vota con un sistema elettorale diverso e dove la presenza radicata di partiti autonomisti rende la sfida molto particolare: fa un po’ storia a sé, insomma.
Partendo dunque da un sostanziale equilibrio, 3 a 3, un primo discrimine per capire chi avrà vinto o perso sarà vedere se uno dei due schieramenti riuscirà a sottrarre all’altro una regione. Il Veneto, al di là delle tensioni interne alla coalizione di governo relative alla scelta del candidato presidente e alla costituzione di una eventuale lista col nome di Luca Zaia, è abbastanza scontato che resti alla destra. Anche in Calabria parte molto avvantaggiato Roberto Occhiuto di Forza Italia, dimessosi un po’ a sorpresa due settimane fa in seguito agli sviluppi di un’inchiesta che lo vede indagato e contestualmente ricandidatosi.
Dall’altro lato, il centrosinistra è abbastanza certo di vincere di nuovo in Toscana, Campania e Puglia, pur con le consuete divisioni interne agli schieramenti.

Il presidente della Regione Marche, Francesco Acquaroli, all’auditorium Tamburi di Ancona in occasione della visita di Giorgia Meloni, il 4 agosto 2025 (ANSA)
L’elezione più delicata sarà quella nelle Marche, che sarà anche la prima a tenersi, il 28 e il 29 settembre. Lo sarà perché, stando ai sondaggi e alle convinzioni diffuse nei vari partiti, è quella più in bilico, e lo sarà perché è l’unica di quelle che andranno al voto che è governata da un esponente di Fratelli d’Italia, cioè il principale partito di governo di cui è leader la presidente del Consiglio Meloni. Se dovesse succedere, Meloni sarebbe l’unica leader dei partiti di governo a perdere un presidente di regione, Francesco Acquaroli in questo caso, nonostante abbia un consenso molto più alto dei suoi alleati.
Per questo Meloni ha deciso di impegnarsi in prima persona nella campagna elettorale, tenendo comizi ad Ancona e dintorni e annunciando un disegno di legge, poi approvato dal Consiglio dei ministri, per includere anche le Marche, oltre all’Umbria, nella Zona economica speciale: una decisione che nei prossimi mesi dovrebbe garantire a imprese e lavoratori locali sostanziosi incentivi e sgravi fiscali.
L’altro grande argomento di dibattito sarà la giustizia. Anzitutto perché a partire da settembre la Camera tornerà a discutere la riforma costituzionale che introduce, tra l’altro, la separazione delle carriere dei magistrati. Subito dopo lo farà anche il Senato, verosimilmente entro la fine dell’anno.
Saranno comunque discussioni piuttosto rapide e sbrigative: sia perché il governo, in maniera del tutto inusuale per una riforma costituzionale così importante, ha preteso che non si possano fare modifiche al disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri; sia perché si tratterà delle cosiddette “seconde letture”. Significa che Camera e Senato dovranno confermare il proprio voto favorevole a un testo che è già stato promosso da ciascuna camera nei mesi passati, come previsto dall’articolo 138 della Costituzione: in questi casi di solito si procede piuttosto spediti.
L’obiettivo del governo è fare in modo che il referendum si tenga nel 2026: quella della giustizia è l’unica grande riforma strutturale promessa da Meloni che potrebbe entrare in vigore, e la presidente del Consiglio ci sta investendo molto. Inevitabilmente, dunque, il referendum assumerà un valore politico che andrà ben oltre il giudizio di merito sul testo della riforma: sarà una sorta di voto di verifica sull’operato del governo.
Anche questo tema, come i risultati delle regionali, potrebbe segnare in modo decisivo la campagna elettorale che porterà alle politiche nel 2027. Ma potrebbe diventare ancora più rilevante, perché un’eventuale bocciatura della riforma al referendum potrebbe mettere in discussione la stabilità stessa del governo, almeno nelle speranze delle opposizioni.

Il ministro della Giustizia Carlo Nordio alla Camera dei deputati, il 23 luglio 2025 (Mauro Scrobogna/LaPresse)
Tutto questo dibattito si svolgerà quasi certamente in un contesto di crescente polemica tra il governo e la maggioranza di destra e la magistratura. La destra ha già lasciato intendere quale sarà la linea della sua campagna: una mobilitazione popolare per reagire a quelle che vede come storture, scandali ai malfunzionamenti della giustizia.
Il caso del generale libico Almasri, arrestato e poi liberato dal governo nonostante un mandato d’arresto della Corte penale internazionale, renderà con ogni probabilità ancora più teso il dibattito sulla giustizia. A settembre è in programma il voto sull’autorizzazione a procedere per Nordio, Piantedosi e Mantovano.
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Il 5 agosto il tribunale dei ministri ha inviato alla Camera la relazione con cui chiede di procedere nell’azione penale nei confronti dei due ministri e del sottosegretario. La giunta per le autorizzazioni, competente per queste faccende, entro metà settembre dovrà concludere la propria verifica e votare per decidere se autorizzare o negare la richiesta delle giudici, e dunque in sostanza se consentire oppure no di rinviare a giudizio i tre indagati.
Dopodiché, entro il 4 ottobre, l’aula della Camera dovrà confermare o contraddire la decisione adottata dalla giunta con voto segreto. L’esito del voto sembra scontato: la maggioranza di destra ha un rassicurante margine sia nella giunta (13 voti a 8, sulla carta), sia in aula. Il dibattito che accompagnerà queste votazioni però sarà certamente molto duro, e alimenterà la polemica più generale tra politica e magistratura.



