La cosa più bizzarra fatta dal governo italiano sul caso di Almasri

Ha a che fare con una stranissima richiesta di estradizione per il generale libico, su cui però molte cose non tornano

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il ministro della Giustizia Carlo Nordio a Palazzo Chigi, il 7 settembre 2023 (Roberto Monaldo/LaPresse)
La presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il ministro della Giustizia Carlo Nordio a Palazzo Chigi, il 7 settembre 2023 (Roberto Monaldo/LaPresse)
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Era già noto che il governo italiano avesse gestito in modo contorto il caso che riguarda il generale libico Almasri. Ora però stanno emergendo stranezze notevoli nella condotta dei ministeri e dei servizi di intelligence coinvolti, contenute nella relazione con cui il tribunale dei ministri ha chiesto l’autorizzazione a procedere per i ministri della Giustizia e dell’Interno Carlo Nordio e Matteo Piantedosi, e per il sottosegretario con delega ai servizi segreti Alfredo Mantovano.

Alcune sembrano frutto di improvvisazione e affanno nell’affrontare una vicenda delicata da tanti punti di vista, altre sembrano dettate dal tentativo di rimediare a errori o di trovare scappatoie e giustificazioni da parte dei membri del governo e dei servizi segreti. Non è affatto detto che queste anomalie procedurali configurino reati o illeciti, ma è indubbio che mostrino una situazione gestita con una certa approssimazione e confusione.

La faccenda più bizzarra di tutte è forse quella che riguarda la richiesta di estradizione, cioè la lettera con cui le autorità libiche chiesero all’Italia di far rimpatriare Almasri. Almasri, capo della polizia giudiziaria libica, fu arrestato a Torino il 19 gennaio in forza di un mandato della Corte penale internazionale (CPI), che lo accusava di crimini gravissimi, tra cui torture, omicidi e stupri. Venne liberato e rimpatriato con un volo di Stato solo due giorni dopo dal governo italiano: per questo sono finiti sotto indagine due ministri e un sottosegretario, ritenuti responsabili di quella decisione.

Per quasi tre mesi il governo non ha dato notizia della richiesta di estradizione di Almasri da parte della Libia. Ora però questo documento ha assunto un ruolo centrale nella difesa di Nordio, Piantedosi e Mantovano davanti al tribunale dei ministri, e ci sono molte anomalie nel modo in cui è scritto e nei tempi in cui è stato ricevuto.

La prima volta in cui il governo parlò di questa richiesta di estradizione era il 20 gennaio, in una riunione organizzata il giorno dopo l’arresto di Almasri a Torino. La citò il direttore dell’AISE (i servizi segreti esteri) Giovanni Caravelli, che informò il sottosegretario Mantovano, i ministri e i loro capi di gabinetto presenti di aver ricevuto la richiesta di estradizione dal governo libico. Caravelli disse di averla ricevuta «in anticipazione», ma aggiunse che il documento era stato trasmesso all’ambasciata libica a Roma ed era stato elaborato e firmato dal procuratore generale libico Alsaddiq Ahmed Alsour. Quest’ultimo sosteneva di poter perseguire Almasri in Libia, e che quindi la CPI non avesse competenze in materia.

Giorgia Meloni e il sottosegretario Alfredo Mantovano, alla sua destra, con i direttori dei servizi segreti italiani (Giovanni Caravelli, a sinistra della foto, Bruno Valensise e Vittorio Rizzi alla destra), durante la cerimonia di giuramento dei neoassunti del Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica, a Roma, il 15 luglio 2025 (Filippo Attili/ANSA)

Questa richiesta venne però formalmente consegnata dall’ambasciata libica a Roma al ministero degli Esteri, come da prassi, solo la sera del 21 gennaio, dopo che l’ambasciata italiana a Tripoli, grosso modo tra le 18 e le 20, ne aveva curato la traduzione in italiano. E venne poi depositata al ministero della Giustizia addirittura la mattina seguente, il 22 gennaio (anche se con data 20 gennaio). Solo a questo punto la richiesta di estradizione può dirsi ufficiale.

Il punto è che in quel momento Almasri era già in Libia da un pezzo: un aereo dei servizi segreti italiani lo aveva riportato da Torino a Tripoli la sera precedente, quella del 21 gennaio. Non è l’unica cosa strana di questa richiesta di estradizione.

Come hanno evidenziato due importanti funzionari del ministero della Giustizia, Luigi Birritteri (poi dimessosi proprio in seguito a questa vicenda) e Cristina Lucchini, la richiesta di estradizione appariva del tutto anomala e «meramente strumentale», in quanto «totalmente sprovvista di provvedimenti e documenti, senza alcuna indicazione del titolo processuale esecutivo e/o del mandato di cattura»: era insomma un documento scarno e privo di tutti gli elementi canonici per una richiesta di estradizione. Per questo secondo il tribunale dei ministri non sarebbe mai stato possibile accettarla.

– Leggi anche: La difesa di Nordio sul caso Almasri è sempre meno convincente

È un punto dirimente nell’indagine. Giusi Bartolozzi, la capa di gabinetto di Nordio, in questa come in altre vicende ha avuto un potere notevole e ha fatto spesso le veci dello stesso ministro. Per motivare il fatto di non aver dato seguito alle sollecitazioni di altri funzionari del ministero, che avrebbero voluto eseguire le richieste della Corte penale internazionale, Bartolozzi si è giustificata dicendo che doveva garantire un presunto «bilanciamento» tra la richiesta della Libia e quella della Corte.

La capa di gabinetto del ministro Nordio, Giusi Bartolozzi, durante una conferenza stampa alla Camera il 19 marzo 2019, quando era una deputata di Forza Italia (Vincenzo Livieri/LaPresse)

Quando le giudici del tribunale dei ministri le hanno chiesto se avesse effettivamente visto la richiesta di estradizione, però, Bartolozzi ammise «di non averla avuta in mano, mai», e che aveva agito sulla base «delle informazioni fornite dai servizi» segreti.

Anche la memoria difensiva degli indagati punta molto su questa richiesta di estradizione, dedicandole un intero capitolo. La tesi è un po’ la stessa di Bartolozzi: essendoci una richiesta «concorrente» rispetto a quella della Corte penale internazionale, è stato necessario prendere tempo per fare approfondimenti, perché la Libia poteva rivendicare il diritto a perseguire un proprio cittadino prima della Corte.

Il tribunale dei ministri contesta questa tesi: anzitutto perché nel momento in cui è stata protocollata la richiesta «Almasri era stato già rimpatriato», per cui quella richiesta «tecnicamente non era concorrente». Poi perché l’Italia ha degli obblighi nei confronti della Corte penale internazionale. Infine perché non c’erano certezze dell’effettiva volontà della Libia di perseguire Almasri.

Al di là degli aspetti giudiziari, quest’ultimo è l’aspetto più rilevante da un punto di vista di politica internazionale, perché dimostra che il governo italiano accettò più o meno consapevolmente di fidarsi di impegni del tutto vaghi esibiti dalla Libia. Solo Caravelli ottenne una forma di garanzia che il governo libico volesse effettivamente perseguire Almasri, in una riunione in cui il procuratore generale libico gli disse che c’era un’indagine a carico suo. Questa però avvenne solo il 29 gennaio, cioè una settimana dopo la richiesta di estradizione.

Le promesse in ogni caso furono assai fumose e non ebbero alcun seguito. Negli ultimi due mesi c’è stato qualche sviluppo, anche se piuttosto caotico. Il governo libico ha prima prospettato di dare seguito alla richiesta di estradizione di Almasri da parte della Corte penale internazionale, proponendosi dunque di fare quello che l’Italia si era rifiutata di fare; poi è invece tornato sui propri passi, negando l’estradizione.

Infine, la procura generale di Tripoli ha emesso un ordine di comparizione per lo stesso Almasri, mostrando dunque una rinnovata intenzione di avviare un’azione penale nei suoi confronti, ma anche questa si è risolta in nulla per ora. In realtà alla base di questa volontà di perseguire Almasri ci sono ragioni di politica interna, che hanno a che fare con gli scontri tra le milizie libiche e con l’opposizione dello stesso Almasri al governo libico.