Su internet una minoranza piccola fa la voce più grossa
Pochi utenti molto attivi e sovraesposti riescono a influenzare l’idea del mondo che ci facciamo

Se il mondo fosse come i social media sarebbe uno di quei ristoranti in cui, per il tono di voce molto alto di qualche cliente, tutta la sala in poco tempo diventa rumorosissima, perché i commensali devono urlare per riuscire a sentirsi tra loro. Ma il mondo non è come i social media: non viviamo tutto il giorno in un ristorante rumoroso.
Lo psicologo statunitense Jay Van Bavel ha utilizzato questa metafora in un recente articolo sul Guardian per spiegare perché l’idea del mondo che ci facciamo quando siamo online sia diversa da quella che ricaviamo dalle nostre esperienze e frequentazioni quotidiane, nella maggior parte dei casi. C’entra la sproporzionata influenza che hanno sulle percezioni collettive poche persone molto attive online, portate dal funzionamento stesso delle piattaforme dei social media a condividere opinioni estreme e radicali per ottenere attenzioni e approvazioni.
È un argomento noto da tempo e studiato in psicologia sociale: Van Bavel, che insegna alla New York University e alla Norwegian School of Economics, ci lavora da anni insieme a diversi gruppi di ricerca. Lui e altri suoi colleghi e colleghe si sono occupati dell’attrazione dei media per storie, eventi e sentimenti negativi, per esempio, o del perché nei gruppi online certe emozioni siano più diffuse di altre. E in una delle loro ricerche più citate, pubblicata nel 2024, sostengono che i social media siano appunto uno «specchio deformante» della realtà e delle norme sociali, per effetto dei meccanismi che regolano il coinvolgimento degli utenti e li incentivano a spararla grossa.
La ricerca ha permesso di aggiungere qualche dato e riflessione a un’idea che, in linea di massima, è abbastanza risaputa: i social media amplificano le opinioni più estreme e limitano la diffusione di quelle moderate e sfumate, o – come le definisce Van Bavel – «noiosamente ragionevoli». E a dominare le discussioni sulle piattaforme è una piccola minoranza estremamente attiva e non rappresentativa.
– Leggi anche: Le persone per bene sono più felici
Su X (ex Twitter), per esempio, il 97 per cento dei post politici proviene più o meno dal 10 per cento degli utenti: vuole dire che il 90 per cento circa delle opinioni politiche degli utenti è rappresentato da meno del 3 per cento dei post su X. È un dato che stride con quelli di diversi sondaggi offline citati nella ricerca, secondo cui la maggior parte delle persone ha posizioni politiche moderate, non è interessata alla politica ed evita di parlarne se può parlare d’altro.
Questa iperattività di ristrette minoranze vale per quasi tutte le piattaforme, da Facebook a Reddit. Nel complesso, secondo stime riportate nella ricerca, gli account attivi che sui social media diffondono contenuti ostili, divisivi o fuorvianti sono soltanto il 3 per cento del totale, ma sono responsabili del 33 per cento di tutti i contenuti. Inoltre solo lo 0,1 per cento degli utenti condivide circa l’80 per cento delle fake news.
«La maggior parte delle persone non pubblica, non discute e non alimenta la macchina dell’indignazione», scrive Van Bavel, ma la visibilità di pochi utenti molto attivi porta alla falsa impressione che le loro opinioni e i loro comportamenti siano la norma nella realtà offline. L’esposizione della maggioranza degli utenti ai contenuti che quei pochi condividono, in altre parole, altera anche il modo in cui il mondo viene percepito da chi non ha opinioni radicali ed estreme come le loro.
È normale che sia così, perché è normale per gli esseri umani adattare le proprie opinioni e i propri comportamenti nei gruppi sulla base di ciò che le altre persone pensano o fanno. Solo che sui social media questo normale meccanismo psicologico «si ritorce contro di noi», scrive Van Bavel, dato che non riceviamo un campione rappresentativo di opinioni. Siamo indotti a credere che la società sia molto più divisa e arrabbiata di quanto non sia in realtà, perché «la nostra dieta informativa è plasmata da una fetta di umanità il cui lavoro, la cui identità o la cui ossessione è postare continuamente». Ma nella realtà offline «la maggior parte di noi non passa il tempo al telefono a trollare i propri nemici».
Il processo che porta le persone a farsi un’idea sbagliata di ciò che altri membri del gruppo credono o fanno è noto in psicologia sociale come “ignoranza pluralistica”. È quando le persone tendono a conformarsi a opinioni e azioni diverse dalle loro ma che, sulla base delle loro percezioni, presumono essere prevalenti e unanimi all’interno del gruppo. Di conseguenza, per effetto di questo fenomeno, può succedere che la maggior parte dei membri di un gruppo condivida un’opinione con cui non è d’accordo perché pensa sia sostenuta dalla maggior parte del gruppo.
– Leggi anche: I comportamenti molesti nei gruppi maschili
Le piattaforme sono una parte del problema, secondo la ricerca, perché sono strutturate per massimizzare il coinvolgimento e quindi per promuovere contenuti sorprendenti e divisivi, che è proprio ciò che ha maggiori probabilità di distorcere la percezione collettiva della realtà. Quei contenuti vengono peraltro condivisi anche da chi non ha opinioni estreme come quei contenuti suggerirebbero, ma nota che quel tipo di contenuti è mostrato a più persone e condiviso a sua volta.
Secondo diversi studiosi, un modo per cercare di contrastare le distorsioni causate dai social media è aiutare le persone a valutare in modo critico i contenuti online e a comprendere il ruolo degli algoritmi nel dare risonanza a quelli polemici e divisivi. «Dietro ogni thread provocatorio si nasconde spesso una maggioranza silenziosa», scrive Van Bavel, «e noi, come utenti, possiamo riprendere un po’ di controllo, curando i nostri feed, resistendo all’esca dell’indignazione e rifiutandoci di amplificare le assurdità».
In precedenti studi ed esperimenti con altri gruppi di ricerca, Van Bavel e altri ricercatori e ricercatrici avevano peraltro dimostrato che offrire piccole ricompense agli utenti di social media – anche solo qualche dollaro – per condividere informazioni attendibili migliorava la loro capacità di distinguere la disinformazione. «Non è possibile pagare tutti gli utenti di internet perché condividano informazioni più accurate, ma possiamo modificare alcuni aspetti del design delle piattaforme di social media per motivare le persone a condividere contenuti che sanno essere accurati», aveva detto Van Bavel.
– Leggi anche: Perché collaboriamo



