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  • Sabato 19 luglio 2025

Sono quarant’anni che un francese non vince il Tour de France

I ciclisti francesi sentono una grande pressione, ma al pubblico e agli organizzatori tutto sommato va bene così

Bernard Hinault in maglia gialla al Tour de France del 1985 (Gilbert Iundt; Jean-Yves Ruszniewski/TempSport/Corbis/VCG via Getty Images)
Bernard Hinault in maglia gialla al Tour de France del 1985 (Gilbert Iundt; Jean-Yves Ruszniewski/TempSport/Corbis/VCG via Getty Images)
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Il 21 luglio del 1985 il francese Bernard Hinault vinse per la quinta volta il Tour de France, che già allora era per distacco la più importante corsa del ciclismo mondiale. Era il quinto anno consecutivo che il Tour de France veniva vinto da un francese, e nelle dieci edizioni precedenti solo in due occasioni il vincitore non era stato francese. In tutto il Novecento non erano mai passate più di sette edizioni senza che un francese vincesse il Tour.

Da allora, in quarant’anni, il Tour de France è stato vinto da corridori provenienti da tutto il mondo meno che dalla Francia: Stati Uniti, Irlanda, Spagna, Germania, Regno Unito, Australia, Colombia, Lussemburgo, Danimarca, Slovenia e Italia (Marco Pantani nel 1998 e Vincenzo Nibali nel 2014). Le ragioni sono dovute in parte al fatto che il ciclismo è diventato uno sport più praticato in tutto il mondo, in parte alle scarse risorse economiche delle squadre francesi. Le cose sono andate giusto un po’ meglio nel femminile, dove però solo da un paio d’anni il Tour ha un’importanza paragonabile a quella che ha a livello maschile: l’ultima vittoria francese in una versione femminile del Tour de France fu quella di Jeannie Longo nel 1989.

È impossibile – al netto di evoluzioni di corsa oltremodo imprevedibili – che un francese vinca il Tour quest’anno, ed è anche improbabile che lo vinca qualcuno di diverso da Tadej Pogačar. Già un piazzamento nei primi dieci della classifica finale sarebbe un buon risultato, e uno nei primi tre un evento paragonabile a una vittoria.

Tutto questo succede in un paese che al Tour de France, e al ciclismo in generale, tiene molto. Il Tour de France è diventato così grande anche per via di quanto è storicamente seguito in Francia il ciclismo, uno sport in cui ancora oggi una buona parte del gergo tecnico è in francese: si dice à bloc per dire “andare-a-tutta”, bidon per dire borraccia, voiture balai e lanterne rouge in riferimento all’auto che chiude la corsa e al corridore ultimo in classifica; finisseur, grimpeur, puncheur e rouleur per descrivere corridori dalle determinate caratteristiche o attitudini; soigneur e suiveur per dire (con maggiori finezze descrittive rispetto all’italiano) massaggiatore e tifoso. Succede inoltre con buona frequenza che, anche a prescindere dal Tour de France, il quotidiano sportivo L’Équipe dedichi la prima pagina, e diverse pagine interne, al ciclismo.

Bandiere del Tour de France, il 3 luglio a Lille, in Francia (Tim de Waele/Getty Images)

In questi quarant’anni ci sono state occasioni in cui i francesi sono arrivati vicini alla vittoria del Tour. Hinault arrivò secondo nel 1986, Laurent Fignon arrivò secondo (con solo otto secondi di distacco dal primo) nel 1989. In anni più recenti sono arrivati sul podio finale Richard Virenque, Jean-Christophe Péraud, Thibaut Pinot e Romain Bardet.

Nessuno di questi corridori è però mai stato, per risultati e costanza, vicino ai migliori corridori da corse a tappe (quelli che possono pensare di vincere un Tour de France) delle rispettive generazioni. Non è nemmeno un problema specifico del Tour de France: l’ultima vittoria francese alla Vuelta di Spagna fu nel 1995; l’ultima al Giro d’Italia nel 1989.

È probabile che anche chi non segue il ciclismo abbia sentito parlare di Chris Froome o Miguel Indurain, è molto meno probabile che conosca Péraud, Bardet o Pinot.

Questa lunga assenza di vittorie si spiega col fatto che il ciclismo, come molti altri sport, è diventato globale. Fino a qualche decennio fa era uno sport di gare fatte perlopiù tra Italia, Francia, Spagna, Belgio e Paesi Bassi e vinte quasi sempre da corridori di questi paesi. Ora il ciclismo – che continua però ad avere pochissimi professionisti asiatici e africani – è senz’altro più internazionale. «Prima arrivarono gli statunitensi, poi gli inglesi e i britannici, e poi sono arrivati da tutti gli angoli del mondo», ha detto Hinault all’Équipe. «E noi abbiamo dovuto dividere la torta con tutti loro».

Un discorso simile si fa anche in Italia, dove già da qualche anno si aspetta “il nuovo Nibali”; ma così come per l’Italia questa tesi si scontra in parte col fatto che non è che la Francia abbia meno ciclisti rispetto alla Slovenia (o ad altri paesi che hanno vinto di più negli ultimi decenni). Se è vero che l’arrivo di ciclisti da nuovi paesi porta i francesi a vincere meno, è difficile che non li faccia vincere proprio più.

Certo, a livello locale e giovanile in Francia il ciclismo è meno praticato rispetto a qualche decennio fa e la base della piramide (quella rappresentata dai praticanti assoluti, a prescindere dai professionisti) si è ristretta. «Quarant’anni fa ogni paesino in Normandia o Bretagna aveva la sua corsa e la sua squadra», ha scritto William Fotheringham sul Guardian. Mentre ora molte gare e molte squadre sono in crisi.

Al contempo, tuttavia, la Francia continua ad avere decine di corridori professionisti e quattro squadre World Tour (il massimo livello del ciclismo mondiale). E tra le aziende che stanno investendo nel ciclismo professionistico c’è la francese Decathlon, che ha un evidente interesse a mettere in mostra il suo brand di biciclette Van Rysel.

Più che una questione di quantità, è una questione di qualità. Ci sono infatti squadre (come per esempio la UAE Team Emirates XRG di Pogačar) che investono molti più soldi rispetto alle squadre francesi: «Senza un budget di almeno 50 milioni di euro puoi scordarti di vincere il Tour», ha detto il francese Cédric Vasseur, ex ciclista e team manager della squadra francese Cofidis. «Nessuna squadra francese arriva a quelle cifre».

In parte, c’entra anche il caso: scelte e investimenti sono importanti, ma non ci si può fare granché se un talento come Pogačar nasce in Slovenia anziché in Italia o in Francia.

Come spesso in questi casi, l’assenza di vittorie francesi al Tour de France è anche un problema che si autoalimenta. Diversi corridori francesi, in particolare quelli che hanno corso in anni più recenti come Bardet e Pinot, hanno parlato più volte della grande pressione su ogni corridore francese che sembra poter vincere il Tour. Una pressione che già si vede su corridori più giovani come Kévin Vauquelin (tra i migliori quest’anno) e soprattutto sul 18enne Paul Seixas, che corre per la squadra sponsorizzata da Decathlon, e che ancora deve partecipare al suo primo Tour.

Paul Seixas, il 13 giugno al Giro del Delfinato, in Francia (Dario Belingheri/Getty Images)

Sembra comunque che, pressione a parte, i francesi non si curino troppo di tutti questi anni senza vittorie al Tour de France. Il Tour continua a essere ogni anno uno degli eventi più seguiti al mondo. In Francia è vissuto come una lunga festa itinerante che prescinde dal ciclismo e che non a caso si svolge nel mese in cui i francesi hanno in genere le ferie e nel quale festeggiano (il 14 luglio) la presa della Bastiglia. «Il fatto che i francesi non vincano il Tour danneggia l’evento?», si è chiesto di recente Le Monde. La risposta alla domanda è stata rapida: «Per niente».