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  • Martedì 24 giugno 2025

L’Italia ha sempre cercato di tenersi buono l’Iran

È uno dei motivi delle dichiarazioni goffe del governo, che vorrebbe restare amico anche di Israele e di Trump

Il presidente del Consiglio Matteo Renzi durante con il presidente iraniano Hassan Rohani a Teheran, il 12 aprile 2016 (ANSA/PALAZZO CHIGI/TIBERIO BARCHIELLI)
Il presidente del Consiglio Matteo Renzi durante con il presidente iraniano Hassan Rohani a Teheran, il 12 aprile 2016 (ANSA/PALAZZO CHIGI/TIBERIO BARCHIELLI)
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Per quanto un attacco statunitense contro l’Iran fosse diventato da qualche giorno un’ipotesi concreta, i leader europei sono stati presi piuttosto alla sprovvista dai bombardamenti ai siti nucleari di domenica: Trump non aveva avvertito nessuno, e la posizione dell’Europa – che invita alla calma e al rispetto del diritto internazionale – appare quanto mai marginale e ininfluente. Lo stesso discorso vale per l’Italia, il cui governo, in questa situazione precaria e in continua evoluzione, ha cercato di mostrarsi attivo, ma lo ha fatto più che altro con dichiarazioni avventate e che non hanno minimamente cambiato il corso degli eventi.

Poche ore prima del bombardamento di Israele contro l’Iran, il 13 giugno, mentre i suoi omologhi europei si guardavano bene dal commentare, il ministro degli Esteri Antonio Tajani aveva detto: «Un attacco militare contro l’Iran non mi pare che sia così imminente». Per rimediare, ha poi tentato di rassicurare i parlamentari dell’opposizione che lo incalzavano dicendo che poche ore dopo l’attacco aveva chiamato sia il ministro israeliano sia quello iraniano per rimbrottarli e dire loro: «Basta con le escalation». È avvenuto il contrario.

È una difficoltà in parte frutto del posizionamento internazionale del governo di Giorgia Meloni.

Da un lato, infatti, il governo tenta di ribadire una prassi diplomatica consolidata nei decenni che vede l’Italia come un paese particolarmente disposto al dialogo e alla mediazione con i paesi arabi e col regime iraniano: durante il rapimento della giornalista Cecilia Sala, il viceministro degli Esteri Edmondo Cirielli disse candidamente, in un’intervista a Repubblica, che «in Occidente siamo quelli che hanno rapporti migliori con l’Iran» (non è esattamente così, ma all’Italia da tempo piace raccontarlo per accreditarsi).

Dall’altro lato, questa pretesa vicinanza all’Iran mal si concilia con la volontà di Meloni e Tajani di mostrarsi vicini anche al governo israeliano di Benjamin Netanyahu e di non contraddire mai, neppure in modo cauto, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Sintetizzando, si vuole essere insomma amici privilegiati di troppe persone e di troppi paesi che tra loro in questo momento sono decisamente ostili e lontani tra loro. Neppure questa ambiguità è una novità, per la diplomazia italiana: ma in una fase di guerra e con un ministro degli Esteri i cui commenti non sempre appaiono all’altezza della situazione, diventa difficile mantenere l’equilibrismo.

Le buone relazioni tra Italia e Iran iniziarono negli anni Cinquanta, grazie agli interessi che avevano sia l’ENI di Enrico Mattei sia Mediobanca, e proseguirono negli anni successivi quando il paese fu governato dal regime dello scià Mohammad Reza Pahlavi, che del resto era grande amico anche degli Stati Uniti.

Enrico Mattei davanti al suo aereo con il simbolo dell’Agip, data sconosciuta. Nel 1957 Mattei firmò un accordo con la compagnia petrolifera statale iraniana, la NIOC, che prevedeva condizioni assai favorevoli per l’Iran e che influenzò profondamente il mercato dell’epoca (ANSA)

Con la rivoluzione islamista del 1979 le cose cambiarono, ma i contatti rimasero. L’Italia continuò a importare petrolio dall’Iran, e in generale anche in anni recenti è rimasta l’idea che l’Italia potesse mantenere con il regime una sorta di relazione speciale. Non era solo un’idea astratta: in vari momenti degli ultimi decenni l’Italia è stata il principale partner commerciale europeo dell’Iran.

Nel 2003 i governi di Francia, Germania e Regno Unito cercarono di stabilire relazioni diplomatiche con l’Iran che non contemplassero il coinvolgimento diretto degli Stati Uniti: alla base c’era l’interesse a raggiungere un accordo sul programma nucleare iraniano, dopo che, nel 2002, erano emerse notizie solide della realizzazione di alcuni impianti per l’arricchimento dell’uranio (a Natanz) e per la realizzazione di bombe al plutonio (ad Arak).

Gli europei contestavano l’approccio troppo muscolare dell’allora presidente statunitense George W. Bush, che non escludeva neppure un intervento militare diretto in Iran: il tutto in un contesto in cui le relazioni transatlantiche erano logore, dopo la scelta degli Stati Uniti di invadere l’Iraq, alla quale Francia e Germania si erano opposte. Così decisero di muoversi da sole per indurre l’Iran a interrompere, o almeno a sospendere, i propri progetti nucleari.

Francia e Germania del resto erano state coinvolte nei decenni precedenti nella costruzione di due impianti nucleari iraniani, rispettivamente a Bushehr e a Darkhovin, e quindi avevano buone ragioni per discuterne con l’Iran. Al presidente francese Jacques Chirac e al cancelliere tedesco Gerhard Schröder si aggiunse poi il primo ministro britannico Tony Blair, che ebbe il compito di fare da ufficiale di collegamento tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti, per evitare che la creazione di questo formato di dialogo (chiamato E3, “Europe 3” appunto) sembrasse uno sgarbo nei confronti degli americani.

L’Italia assunse invece una posizione più ambigua, chiamandosi fuori. Lo fece in parte perché l’allora governo di Silvio Berlusconi si lamentò di non essere stato coinvolto per tempo, facendogli fare brutta figura con Bush, ma soprattutto perché c’era la convinzione di poter avere vantaggi nel giocare una partita autonoma con l’Iran, in virtù appunto di quel rapporto storicamente amichevole.

Il formato E3 si è mostrato però una buona piattaforma di dialogo, al punto che nel corso degli anni è stato sfruttato come base per altri formati che hanno coinvolto in primo luogo l’Unione Europea e poi, dal 2006, anche la Russia, la Cina e gli stessi Stati Uniti. Da allora, gli americani hanno iniziato a riferirsi a questo formato come al 5+1 (i cinque membri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, più la Germania).

L’E3 ha comunque mantenuto, parallelamente, una sua dimensione più europea: e infatti francesi e tedeschi lo chiamano E3/EU+3, cioè i tre grandi europei, l’Unione Europea, e gli altri tre paesi extraeuropei subentrati in seguito (Cina, Russia, Stati Uniti). Nel luglio del 2015 fu proprio questo formato a firmare con l’Iran il Piano d’azione congiunto (JCPOA: Joint comprehensive plan of action) sul programma nucleare. L’Italia, in quella sede, fu rappresentata solo indirettamente: la capa della diplomazia europea, l’Alta rappresentante, era infatti Federica Mogherini.

Ma nelle varie occasioni in cui l’Italia poteva essere di nuovo inclusa nel formato (una volta tra il 2012 e il 2013, a cavallo tra i governi di Mario Monti e di Enrico Letta) non ci furono tante possibilità di far valere le proprie buone relazioni con l’Iran. All’inizio del 2016, per esempio, approfittando dell’orientamento più dialogante dell’amministrazione di Barack Obama, e forte della grande sintonia con l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi, il governo spinse per una riapertura degli scambi commerciali con l’Iran, che fino a quel momento era sotto sanzioni.

Prima, a gennaio, ricevette a Roma una delegazione iraniana guidata dal presidente Hassan Rouhani (la cosa fece discutere soprattutto per il fatto che le statue di nudi esposti ai musei capitolini vennero coperte durante la visita di Rouhani); poi, con una rapidità inusuale, Renzi andò a Teheran con una folta delegazione di imprenditori al seguito. Fu il primo leader occidentale a fare quel viaggio, con l’impegno di riaprire i commerci e di sostenere la leadership moderata di Rouhani. Il viaggio era stato preventivamente concordato coi leader europei dell’E3, e ottenne solo in parte i risultati sperati perché la conclusione (temporanea) delle sanzioni non consentì di fatto di ristabilire delle solide relazioni commerciali e finanziarie.

Quell’iniziativa, un buon successo per la diplomazia italiana, resta tuttora emblematica del modo con cui l’Italia, in maniera ricorrente e a prescindere dal colore politico dei governi, tenti di avere un ruolo sulla questione iraniana. E cioè facendo atti plateali, spesso anche azzardati, che però non sempre consentono di ottenere risultati concreti.

Dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, per esempio, il governo di Mario Draghi cercò di nuovo di promuovere una riabilitazione dell’Iran, anche grazie all’attivismo del ministro degli Esteri Luigi Di Maio che esibì la bontà delle sue relazioni con l’omologo iraniano, Hossein Amir-Abdollahian. L’intelligence italiana predicò la necessità di «tornare» ad avere nell’Iran «un partner di primo piano», per garantirsi approvvigionamenti di gas alternativi a quelli russi, ma alla fine non se ne fece quasi niente.

Giulio Terzi di Sant’Agata a Roma il 10 ottobre 2022 (ANSA/ETTORE FERRARI)

Oggi al governo e tra i dirigenti di Fratelli d’Italia ci sono persone che hanno posizioni molto diverse sull’Iran. C’è il ministro delle Imprese Adolfo Urso, accusato più volte di essere troppo vicino al regime iraniano per via di una sua ex azienda che forniva consulenze alle imprese che volevano investire in Iran; e c’è il presidente della commissione Esteri del Senato Giulio Terzi di Sant’Agata, uno che da ambasciatore a Tel Aviv, da consigliere politico del ministro degli Esteri Gianfranco Fini, e poi da ministro degli Esteri nel governo di Mario Monti, ha sempre avuto una posizione di ferma condanna del regime iraniano. «Le prove che il piano nucleare avesse chiari fini militari e che l’Iran giocasse sporco erano evidenti fin dal 2003, e lo sono rimaste anche dopo: non le vedeva solo chi non voleva vederle», ha detto.