Gli economisti vogliono occuparsi di tutto

Dalla psicologia all'antropologia, negli ultimi decenni hanno sfruttato i loro metodi e modelli per espandersi in altri campi, pestando un po' di piedi

L'economista Paul Samuelson mostra il suo libro di testo dopo aver vinto il premio Nobel per l'Economia, 1970 (Bettmann, Getty Images)
L'economista Paul Samuelson mostra il suo libro di testo dopo aver vinto il premio Nobel per l'Economia, 1970 (Bettmann, Getty Images)
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Era il 2022 e nella sede dell’Università Bocconi di Milano, in via Sarfatti, si svolgeva una lezione di storia del pensiero economico del corso magistrale di Economic and Social Sciences (Ess), uno dei corsi universitari di economia più prestigiosi d’Europa. A un certo punto, durante la spiegazione, il professore si interruppe per fare una domanda ai suoi studenti. Chiese: «perché la deflazione è un problema?». In aula c’erano circa 70 persone; nessuno fu in grado di dare una risposta esatta.

Alcuni tra gli studenti che passano da Ess riescono poi ad accedere ai corsi di dottorato delle università più importanti al mondo e a superare un processo estremamente faticoso e selettivo. Giusto per fare qualche esempio, di quell’annata in due sono finiti a Princeton, due a Stanford, una al Mit, uno a Berkeley e una a Yale, tra le più prestigiose università statunitensi. «In quella stanza c’era un pezzo della prossima generazione di economisti e nessuno era riuscito a rispondere a una domanda così semplice di teoria economica», racconta un ex studente del corso.

In realtà, per la piega che ha preso una parte del settore accademico delle scienze economiche non è strano né scandaloso che in quell’aula, a quella domanda, non sapesse rispondere nessuno.

Da qualche decennio, infatti, nella disciplina sono in corso alcuni grossi cambiamenti. Il primo è che si sono diffusi e consolidati metodi di ricerca quasi-sperimentali incentrati sullo studio di relazioni causali nei fenomeni empirici, cioè metodi che, principalmente, cercano di capire se e come una cosa ne provoca un’altra, basandosi su osservazioni del mondo reale, sulla raccolta dei dati e sulla loro elaborazione statistica. Sono metodi che possono essere usati per studiare fenomeni anche molto diversi fra loro: giusto per fare qualche esempio, permettono di verificare empiricamente il rapporto tra la spesa pubblica e l’inflazione, oppure tra il tasso di occupazione e la crescita dei salari.

Il secondo cambiamento, invece, dipende dalla sorprendente adattabilità di questi metodi, che ha ampliato la varietà di argomenti studiati dalla disciplina. Argomenti che, a volte, possono avere anche ben poco a che fare con l’economia per come viene tradizionalmente intesa – cioè, semplificando molto, lo studio di ciò che riguarda la produzione, lo scambio e il consumo di beni e servizi.

In pratica, gli economisti hanno iniziato a usare i loro modelli teorici e metodi statistici per occuparsi di molti temi trattati da altre discipline; e per migliorare o mantenere il piazzamento nei ranking alcuni corsi universitari si sono dovuti adattare, dando priorità all’insegnamento dei metodi di ricerca – molto matematici e difficili da imparare – piuttosto che della teoria economica classica.

La statistica e la matematica hanno preso il posto delle teorie economiche, ed è per questo che alla lezione di teoria economica di Ess nessuno era riuscito a dire che cosa c’è che non va nella deflazione.

L'edificio Roentgen dell'Università Bocconi, a Milano (<a href=https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Grafton_Building.jpg>Wikimedia Commons</a>)

L’edificio Roentgen dell’Università Bocconi, a Milano (Wikimedia Commons)

«Se prendi un volume di cinquant’anni fa dell’American Economic Review (la principale rivista di riferimento per gli economisti, ndr), ci trovi quasi solo articoli su inflazione, disoccupazione e tassazione», spiega Paolo Pinotti, prorettore dell’Università Bocconi. «Ora almeno un quarto delle pubblicazioni riguarda temi che normalmente le persone non associano all’economia».

È abbastanza facile, per esempio, trovare studi fatti da economisti che si occupano di istituzioni e di partiti; che riadattano le teorie microeconomiche per analizzare il comportamento di elettori e politici, le intenzioni di voto e i flussi elettorali. «Tutti argomenti che ricadrebbero nell’ambito di studio dei politologi», dice Pinotti.

Lo sconfinamento nelle scienze politiche, però, è forse quello più prevedibile, vista la storica propensione degli economisti a occuparsi anche di politica e a sviluppare teorie e modelli da suggerire alle élite governanti per orientare le loro decisioni. Un altro caso invece meno scontato, per esempio, riguarda lo studio di questioni molto legate alla psicologia: partendo dall’analisi del comportamento economico degli individui (che nel settore viene chiamata economia comportamentale), gli economisti si sono messi a studiare temi come le emozioni e i pregiudizi, per capire come influenzano il comportamento delle persone. «Tanti si stanno occupando anche dei social media e dei loro effetti sulla salute mentale», spiega Pinotti.

Pinotti stesso, che è un economista, tra le altre cose si è specializzato nello studio della criminalità – tema che un tempo veniva studiato soprattutto da sociologi e antropologi – e tra le sue ricerche si possono trovare anche studi che trattano di matrimoni, scuola e immigrazione.

In modo abbastanza sorprendente, quello dei matrimoni è un altro tema su cui gli economisti si sono dati molto da fare. La letteratura scientifica sull’argomento è molto complessa: si cerca di capire chi sposa chi e perché, e per farlo si usano modelli inizialmente inventati per studiare il piazzamento delle persone nel mercato del lavoro. «L’idea, giusta o sbagliata che sia, è che gli strumenti utili per comprendere il comportamento di un lavoratore o di un imprenditore si possono usare per analizzare altri aspetti nelle scienze sociali», dice Pinotti.

Lo stesso approccio viene applicato anche per studiare altri temi legati alla demografia, alla storia e all’antropologia. La varietà degli argomenti trattati è tale che tra gli economisti l’espressione “how is this economics?(che tradotto può significare qualcosa come: “in che modo questa sarebbe economia?”) è diventata un meme usato per commentare gli articoli scientifici pubblicati da economisti che trattano di argomenti che con l’economia in senso stretto hanno poco a che vedere.

Tutto questo è successo perché rispetto agli altri scienziati sociali – cioè coloro che si occupano di studiare gli esseri umani e la società in cui si organizzano, come per esempio i politologi, gli antropologi e gli economisti stessi – si sono resi conto di essere i più equipaggiati, da un punto di vista metodologico, per poter sfruttare la grande mole di dati resa disponibile dalla digitalizzazione. Questo ha prodotto risultati importanti in varie discipline, che hanno beneficiato delle innovazioni introdotte dagli economisti.

Ci sono un sacco di fenomeni sociali, come per esempio l’immigrazione, l’istruzione o anche i matrimoni, che apparentemente non c’entrano con l’economia ma che di fatto hanno delle conseguenze economiche, e che per questo dal punto di vista di un economista meritano di essere studiati e misurati. «Le organizzazioni criminali per esempio rispondono a incentivi di tipo economico; per questo la criminologia è una materia che ha un legame teorico con l’economia», dice Pinotti.

Contemporaneamente, però, alcuni economisti hanno deciso di applicare il loro metodo dovunque fosse possibile farlo, anche perché occuparsi di un argomento in modo innovativo in alcuni casi aiuta a fare carriera e a vedere le proprie ricerche pubblicate su importanti riviste scientifiche. Nel mondo accademico, in qualsiasi disciplina, occuparsi di un argomento per primi o in modo originale aiuta a ottenere visibilità e riconoscimento.

L’intromissione degli economisti nello studio di argomenti di altre discipline, però, non è sempre vista di buon occhio. Le critiche sono arrivate sia dall’interno che dall’esterno del mondo delle scienze economiche, soprattutto in occasione di argomenti trattati in modo superficiale. Capita che sociologi, storici, demografi e politologi accusino gli economisti di non documentarsi abbastanza prima di addentrarsi nello studio di un tema che non è di loro competenza, rischiando così di dire delle cose scontate e un po’ ingenue: «è una critica che personalmente trovo sensata, e che a volte viene fatta con fondamento», dice Pinotti.

Gli studi fatti dagli economisti per verificare relazioni di causa-effetto usano un approccio teorico che richiede di schematizzare molto il fenomeno analizzato. Per farlo bene bisogna avere un’adeguata preparazione sullo specifico argomento che si affronta. «Un economista che si lancia nel fare modelli quantitativi di analisi sociologica rischia molto spesso di dire stupidaggini, nella misura in cui affronta temi al di fuori della sua formazione teorica», dice Roberto Golinelli, professore di econometria all’università di Bologna. Al contempo, la logica e i modelli usati nelle scienze economiche possono essere effettivamente utili anche per i ricercatori di altre scienze sociali, che in certi casi li hanno già adottati.

Questa intromissione viene fatta a volte in modo un po’ sfrontato, anche perché tra gli economisti viene dato poco credito alla conoscenza prodotta da studi che usano metodologie e che hanno obiettivi di ricerca diversi dai loro. Alcuni accademici ritengono che ci sia la tendenza a imporre le metodologie economiche come riferimento assoluto per tutte le scienze sociali. Anche se in questo modo fenomeni molto complessi come gli eventi storici rischiano di essere eccessivamente semplificati pur di poter essere studiati usando funzioni matematiche.

Secondo Emanuele Felice, professore di storia economica all’università Iulm di Milano, dietro a questo comportamento c’è una visione epistemica, cioè un modo di vedere la realtà e il modo in cui può essere conosciuta e indagata, secondo cui l’economia è quasi una scienza, o comunque una disciplina che grazie a un approccio solido si avvicina maggiormente a una conoscenza oggettiva, rispetto per esempio alla sociologia o alla politologia. «Esiste un premio Nobel per l’Economia che le dà uno status simile a quello della fisica o della chimica, ma è una posizione che la disciplina si è conquistata nel tempo», dice Felice.

Anche grazie alla diffusione di questa convinzione, nel tempo le scienze economiche sono riuscite a costruirsi autorevolezza e riconoscimento: le citazioni di studi fatti da economisti da parte di ricercatori di altre discipline – e soprattutto delle altre scienze sociali – sono in crescita da almeno trent’anni, e la maggior parte degli economisti pensa che le scienze economiche dovrebbero continuare a espandere e diversificare i propri ambiti di ricerca.