“L’odio” è rimasto IL film sulle periferie a trent’anni di distanza

E i media vanno ancora dal regista Mathieu Kassovitz ogni volta che nelle banlieue francesi ci sono disordini e violenze

di Gabriele Niola

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Quando L’odio di Mathieu Kassovitz fu presentato a Cannes il 27 maggio del 1995 con il titolo La Haine, gli agenti di polizia che facevano da servizio d’ordine durante il tappeto rosso diedero le spalle agli attori e al regista mentre salivano le scale del Palazzo del cinema. Fu un gesto simbolico contro un film che in quel momento nessuno aveva ancora visto, ma di cui tutti conoscevano l’argomento e il punto di vista.

Ideato a partire da un caso di cronaca, ambientato nelle banlieue di Parigi con attori esordienti o quasi e moltissime comparse prese da quei quartieri periferici, ispirato allo stile del cinema americano ma poi molto radicato nella cultura urbana locale, L’odio è stato uno dei film europei più importanti degli anni ’90 e un punto di riferimento per ogni altro film sulle periferie, l’integrazione, la violenza della polizia e la vita nelle città europee degli ultimi decenni. Kassovitz lo pensò proprio come una sorta di film definitivo sull’argomento.

Il 6 aprile 1993 il diciassettenne Makomé M’Bowolé fu arrestato insieme a due suoi amici: la polizia li aveva sorpresi a contrabbandare sigarette. Nel tentativo di estorcergli una confessione che comprendesse anche il furto con scasso, l’ispettore Pascal Compain gli puntò la pistola alla tempia, e convinto che fosse scarica premette il grilletto per spaventarlo. I proiettili c’erano, e Compain lo uccise. Il caso ebbe rilevanza nazionale e portò alla condanna per omicidio non volontario dell’ispettore, ma quello di cui si parlò di più fu quanto questo tipo di intimidazioni fossero ordinarie. Lo dissero i molti ragazzi dei quartieri periferici intervistati e lo dissero anche i colleghi di Compain, presenti all’interrogatorio, che non lo fermarono perché abituati a questo tipo di pratiche per spaventare gli interrogati. Quella stessa sera, dopo essere stato a una manifestazione di protesta per l’accaduto ed essere stato caricato dalla polizia, Mathieu Kassovitz racconta di aver iniziato a scrivere L’odio.

Il film inizia il giorno dopo il pestaggio da parte della polizia di un ragazzo del diciottesimo arrondissement, lo stesso da cui veniva Makomé M’Bowolé. Il ragazzo non è morto ma in fin di vita. Il clima è molto più teso del solito e tre amici, un arabo, un africano e un ragazzo di famiglia ebrea, come tanti altri si svegliano pieni di odio. Uno di loro in particolare, il più arrabbiato, ha trovato la pistola persa da un agente e qualora il ragazzo pestato dovesse morire vuole usarla per uccidere un agente come forma di vendetta. Passano una giornata tra il loro quartiere e il centro di Parigi, tra furti, acquisti di droga e un incontro con la polizia, sempre sul crinale di una violenza che sta per esplodere.

Era una storia pessimista raccontata con modi molto duri, senza ammorbidire nulla. Fu scritta in fretta perché, come dice Kassovitz al Post parlando dell’anniversario di L’odio, «è così quando c’è un fuoco politico che ti spinge e un’indignazione: le parole vengono tutte insieme».

Era qualcosa di inusuale per gli standard del cinema francese dell’epoca, che Kassovitz disprezzava. Era cresciuto tra gli anni ’70 e ’80, quando in Francia «si facevano solo brutte commedie per tutta la famiglia e pessimi film d’azione. Veramente brutti. Quando ero piccolo la scelta era tra vedere uno stupido film con Belmondo oppure Lo squalo. Si fa presto a capire con cosa mi sono formato. Mentre giravo L’odio il mio pensiero era di fare inquadrature belle, e desideravo semplicemente fare un film che potesse piacere a Steven Spielberg».

Oltre a quello Kassovitz si è molto ispirato al cinema italiano degli anni ’50, specialmente per le dinamiche di diffidenza verso la polizia delle persone di periferia. La scena di I soliti ignoti in cui Totò viene avvertito dell’arrivo della polizia dai bambini è per esempio l’ispirazione diretta di una molto simile in L’odio. Dopo l’uscita, il film arrivò anche a Steven Spielberg grazie a Jodie Foster, che fu una delle più grandi sponsor del film nella ricerca di un distributore per gli Stati Uniti, tanto da arrivare a dire: «è il film di cui vado più fiera e non l’ho neanche diretto!». Spielberg lo amò molto e scrisse una lettera di complimenti a Kassovitz.

Molti attori di L’odio venivano dal suo precedente film (il suo esordio) Meticcio, e almeno 300 comparse reclutate con inserzioni radiofoniche, manifesti nelle scuole e volantinaggio porta a porta. Uno degli obiettivi principali era il realismo: anche il copione non rispetta molte convenzioni del cinema francese dell’epoca per questa ragione. Per esempio non c’è una storia d’amore perché, sempre secondo Kassovitz, non è così che funzionano le cose in quei quartieri, dove uomini e donne sono spesso separati, perché «ogni ragazza potrebbe essere la sorella di qualcuno». Solo i tre protagonisti li scelse lo stesso Kassovitz senza casting, attingendo anche ad attori con cui aveva già lavorato, come Vincent Cassel: «era un film sulla vita in strada, e quello che non vuoi è fare una cosa del genere con degli attori che non conosci. Per questo ho preso persone che già conoscevo o venivano dai miei quartieri, e per questo i personaggi hanno gli stessi nomi degli attori».

Per la stessa ragione e per la vicinanza di Kassovitz alla scena hip hop le musiche sono del gruppo Assassin, proveniente anch’esso dal diciottesimo arrondissement di Parigi, il cui leader era il fratello di Vincent Cassel. Il film comunque è pieno di canzoni non originali e compare anche il dj Cut Killer, ripreso mentre realizza il suo mix più famoso, quello con “Sound of da Police” di KRS-One.

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Le riprese della parte nelle banlieue non avvennero a Parigi ma a Chanteloup-les-Vignes. Occorreva girare con attori vestiti da poliziotti e, visto il clima, si scelse di andare lontano per non avere problemi e non rischiare. La produzione cercò un posto nei dintorni della capitale (in cui comunque furono girate le scene ambientate nel centro), ma nessun comune era intenzionato ad autorizzare le riprese di un film intitolato L’odio, in quel momento. Chanteloup-les-Vignes fu l’unico ad accettare.

Essendo l’argomento molto sensibile ci furono molti calcoli e ragionamenti nel lavoro di pre-produzione con il produttore Christophe Rossignon, che ebbe il coraggio di sostenere Kassovitz dall’inizio alla fine e al quale lui è ancora oggi molto grato. L’obiettivo era bilanciare colpe e responsabilità nel racconto del trattamento riservato alle minoranze etniche o religiose a Parigi a metà degli anni ’90: «Se ci sono due persone di colore nel film ed entrambe spacciano droga, il pubblico penserà: “Ok allora il 100% delle persone di colore spaccia”. E quell’errore sarà lì nel film per sempre».

Iniziarono così le riprese di un film che non voleva essere come gli altri film francesi ma più come quelli di Spike Lee. Kassovitz era stato molto colpito dal primo film di Lee, Lola Darling, e da Fa’ la cosa giusta e la sua ambiguità, e voleva filmare esattamente quel tipo di storie con quel tono: «Il contesto in Francia era diverso, non avevamo le pistole e c’erano tante cose che, rispetto ai film di Spike Lee, non si potevano dire, ma lo stesso ho rubato da lui tutto quello che potevo rubare».

C’era molto che non si poteva fare, anche perché era una produzione a basso costo, e molto di quello che viene riconosciuto come innovativo e audace del film è figlio delle ristrettezze economiche, cosa che capita spesso nel cinema. A partire dalla fotografia in bianco e nero, più economica del colore. Si cercò di compensare le spese ingenti sostenute per le parti ambientate in periferie, riprese con tante inquadrature larghe, piene di comparse e di grande impatto, con inquadrature strette, claustrofobiche e nessun panorama per le parti nel centro di Parigi. «Una volta capito come eravamo messi con il budget, decisi semplicemente di mettere tutti i soldi all’inizio, infatti c’è anche una ripresa aerea. Il resto invece lo abbiamo fatto con focali lunghe, lo stile del cinema da guerrilla, in cui i protagonisti sono a fuoco e lo sfondo invece no».

L’odio ebbe subito un grande impatto, fu definito dalla stampa dell’epoca “una bomba” e negli anni la sua importanza è anche cresciuta. È un film al quale si torna periodicamente a fare riferimento, cosa di cui Kassovitz dice di dispiacersi («mi piacerebbe che non fosse più rilevante, invece continua a esserlo»). La sua influenza sui film successivi si può vedere in tanti modi diversi. Non solo ha cambiato la maniera in cui si raccontano le storie di ragazzi di periferia, creando un sottogenere delle storie poliziesche, molto verboso, girato in dialetto locale e “arrabbiato”, con piccoli criminali come protagonisti al posto dei poliziotti. Ma introdusse anche la musica hip hop nel cinema mainstream francese (e poi europeo) e contribuì a un breve ritorno del bianco e nero, non più associato ai film patinati, d’epoca o semplicemente vecchio stampo, ma anzi per le storie metropolitane contemporanee.

Proprio il bianco e nero di L’odio fu molto osteggiato dalle reti televisive nel momento in cui dovettero acquistare il film. Anche all’epoca c’era in Francia la pratica di pre-acquistare i film, cioè vendere i diritti di messa in onda televisiva di un film prima che venga girato, sulla carta, così da usare quel capitale per la produzione, e i canali volevano una versione a colori da mostrare perché erano convinti che nessuno avrebbe guardato un film in bianco e nero.

Anche a livello politico, dopo la sua uscita L’odio fu accusato da una parte della società di essere un manifesto contro la polizia e di fomentare la rabbia contro le istituzioni. Due settimane dopo la presentazione del film a Cannes, dove Kassovitz vinse la Palma per la miglior regia, si verificarono nuovi violenti scontri nella città di Noisy-le-Grand, e la colpa fu data al film. Questo anche se L’odio fu apprezzato dall’allora presidente Jacques Chirac e il primo ministro Alain Juppé chiese che il film fosse visto da tutti gli esponenti delle forze dell’ordine.

In seguito Kassovitz non ha più girato film di questo tipo, ma si è dedicato a produzioni più grandi e spettacolari come I fiumi di porpora, e più che altro alla carriera d’attore (per esempio è il coprotagonista di Il favoloso mondo di Amélie). Lo stesso L’odio fu un fenomeno politico e di costume tale che Kassovitz continua a essere identificato con quel film e a essere interpellato da giornali e televisioni francesi ogni volta che ci sono disordini che coinvolgono la polizia e le periferie. Nel presentare il film in occasione del suo decennale disse: «Ho fatto tante cose nel frattempo ma questo film mi perseguita. E in fondo non mi dispiace».