La musica hardcore piace sempre, soprattutto ai ragazzi
Si è visto al Venezia Hardcore, che si tiene da oltre dieci anni in una zona in cui la scena è particolarmente vivace
di Susanna Baggio

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È sabato pomeriggio e in una sala del centro sociale Rivolta di Marghera un ragazzo ruota energicamente le braccia all’indietro, prima una e poi l’altra, agitando la testa per ricalcare il ritmo duro e dirompente della band che sta suonando. Avrà poco più di vent’anni, come molte delle persone che attorno a lui si contendono l’attenzione con quello che succede sul palco, tra calci rotanti e altre mosse del violent dancing, la danza estrema tipica dell’hardcore punk. Al Venezia Hardcore, il più grande festival italiano dedicato a questo tipo di musica e a tutto ciò che ci gira attorno, nessuno sembra aver paura di farsi male.
L’hardcore è un movimento spesso associato a rabbia e violenza, ma che in realtà ha delle proprie regole, una certa varietà di sottogeneri e soprattutto un pubblico molto coinvolto. Quella che si è tenuta il 16 e il 17 maggio è stata la decima edizione del festival in tredici anni, e ha attirato moltissime persone sotto i trenta ma anche sotto i vent’anni, molte di più di quelle che si vedono in altre nicchie simili.
Il Venezia Hardcore si definisce «un concerto in sala prove che non ha mai smesso di sognare». Samall Ali, l’organizzatore, racconta che all’inizio era pensato per riunire le band e il pubblico del posto: pian piano però il giro si è allargato e hanno cominciato a collaborare più collettivi, con il risultato che adesso il festival è più grande, organizzato e strutturato, «una specie di riunione di famiglia» in cui ritrovare le persone con cui si fa rete tutto il resto dell’anno. A questa edizione hanno suonato tra gli altri i Jivebomb, un gruppo hardcore di Baltimora, i La Quiete, band di culto della scena screamo italiana, e i Violent Magic Orchestra, che vengono dal Giappone e fanno una specie di metal mescolato alla techno. Alle due serate hanno partecipato complessivamente più di 2mila persone.
A detta di Ali nel tempo il Venezia Hardcore «è cambiato, ma non nello spirito», ed è cresciuto in maniera organica, dando sempre più spazio alle nuove generazioni. Oltre a band straniere e note in tutto il mondo ci si esibiscono gruppi anche molto giovani, come i vicentini Norman Bates o i Jorelia di Pavia. Sono inoltre giovanissimi sia gli attivisti del Rivolta che collaborano all’organizzazione, sia le ragazze e i ragazzi del pubblico, che sono di gran lunga di più dei quarantenni: molti raccontano di essere attirati dall’energia e dalla grande intensità che altri generi musicali, dal vivo, non riescono a trasmettere.
Irene, che ha 25 anni e viene da San Donà di Piave, dice di essersi avvicinata all’hardcore grazie a persone che lo ascoltavano, e di averci trovato «una comunità in cui potersi esprimere senza giudizi». Una ragazza di 21 anni che è arrivata al festival con quattro compagne di università, invece, dice di aver scoperto il genere dopo aver approfondito quello che sentiva passare sulle radio di musica rock che ascoltano i suoi genitori. C’è poi chi ha scoperto il punk e l’hardcore grazie a Salmo, il rapper sardo che agli inizi faceva parte della band To Ed Gein, o ai video di Poldo, un content creator che canta nella band hardcore metal degli Slug Gore e tra YouTube, TikTok, Instagram e Twitch ha oltre 1,3 milioni di follower.
L’hardcore «fa venire voglia di alzarsi e distruggere tutto», ha scritto su Medium l’autore Stephen Villon. Ma secondo lui per gli adolescenti è qualcosa in più, e precisamente il significato e la sostanza dietro alla rabbia e all’aggressività che evoca. In generale a renderlo interessante a un pubblico giovane sta contribuendo anche il successo mainstream di band straniere che suonano un hardcore fortemente mescolato ad altri generi, come Scowl, High Vis e soprattutto i Turnstile, un’altra band di Baltimora che il New York Times ha definito «inarrestabile». Ma per quanto riguarda la scena locale c’entra soprattutto il fatto che, a differenza di altre città, tra Padova e Venezia ci sono concerti ed eventi con band hardcore italiane e internazionali tutto l’anno.
«Con una proposta così varia e costante le persone giovani ci si avvicinano molto», ha spiegato Matteo Marangoni, che è stato a quasi tutte le edizioni del festival e ci ha suonato più volte con gli Slander, band hardcore metal con Ali alla voce, che tra il 2014 e il 2018 ha avuto un successo notevole anche all’estero. In ogni caso tutte le persone sentite dal Post sottolineano che l’hardcore sembra rispondere a un bisogno di collettività e condivisione che non si riescono a trovare altrove.
Secondo Villon insomma l’hardcore è «un percorso non convenzionale verso l’esplorazione e la consapevolezza del sé». Alle ragazze sentite dal Post in effetti piacciono soprattutto la fisicità con cui si vivono i concerti e l’idea di poter essere accettate per come sono. Nonostante le apparenze lo trovano uno spazio sicuro, in cui dicono di sentirsi coinvolte e protette.
Nell’hardcore infatti c’è una specie di codice non scritto per cui quando si fa mosh (cioè si balla) ci si rispetta e ci si prende cura gli uni degli altri. Per fare un esempio concreto, se si cade ci si aiuta a rialzarsi, e «di solito quelli che nel pubblico sembrano più cattivi sono i più gentili», scherza una di loro. Irene tra l’altro ha con sé una piccola videocamera con cui gira video proprio durante il mosh: ha aperto un profilo su Instagram in cui li pubblica sperando che aiuti a superare lo stigma che si porta dietro questo tipo di musica, nonostante il rischio di prendersi un calcio o un pugno.
In effetti capita che ai concerti hardcore si esca con qualche livido o anche qualche ferita. Ali però ha definito pretestuoso e mal informato il giudizio di chi lo considera un genere violento. In generale farsi male a un concerto hardcore viene vissuto come parte dell’esperienza, e anche se per i critici i rischi vengono percepiti con una certa leggerezza tra il pubblico sembra prevalere un atteggiamento più disteso: nella gran parte dei casi si cerca di evitare di fare e farsi male, ma se succede non è un dramma. Spesso tra l’altro gli stessi fotografi si infilano tra il pubblico per catturare l’energia dei concerti: uno di questi è Luca Secchi, che in uno degli ultimi concerti di sabato al Venezia Hardcore si è fratturato una vertebra.
L’hardcore si è sviluppato attorno al 1980 negli Stati Uniti come evoluzione del punk. Si distingue per canzoni corte e veloci, con chitarre distorte, batterie dai ritmi serrati e linee di basso definite e potenti, ma soprattutto per una grande attenzione ai testi, quasi sempre urlati e spesso incentrati sull’idea di dover sfuggire all’apatia.
Nel libro American punk hardcore. Una storia tribale, Steven Blush spiega che il genere nacque come movimento giovanile di rifiuto, frustrazione e reazione contro le storture della società. Ai concerti hardcore qualsiasi tipo di barriera tra band e pubblico scompare, fisicamente e simbolicamente: di solito davanti al palco non ci sono transenne, e quello che succede sotto è tanto importante quanto la musica che viene suonata. Come mostrano le foto e i video del Venezia Hardcore, il palco stesso diventa un elemento centrale per chiunque voglia salirci per cantare, per urlare, per fare foto, per lanciarsi sul pubblico (stage diving) e quindi per farsi portare in giro sopra le teste dalla folla (crowd surfing).
Ancora oggi il genere è strettamente associato all’etica del “do it yourself”, cioè del fare le cose da sé e dichiaratamente contrario a ogni forma di oppressione e discriminazione: nella sua linea più radicale si oppone anche al consumo di tabacco, alcol e droghe illegali (la filosofia nota come “straight edge”) e del cibo di origine animale. Per questi motivi in passato è stato considerato più escludente che inclusivo, oltre che maschilista. Nel tempo però questo atteggiamento si è smorzato, certe posizioni sono diventate minoritarie e hanno cominciato a partecipare attivamente molte più ragazze, donne e persone della comunità LGBTQ+, sia nelle band che tra il pubblico.

Il pubblico del Venezia Hardcore (Roberto Graziano Moro)
Cosa sia e cosa no l’hardcore in ogni caso è una questione dibattuta. Come accade un po’ in tutte le nicchie, ogni inevitabile segno di contaminazione porta a discussioni ombelicali, in cui i cosiddetti puristi tendono a storcere il naso rispetto alle cose nuove, per scontrarsi con chi invece vede ogni forma di evoluzione come un’opportunità. Per chi sostiene che il vero hardcore abbia avuto un ciclo di vita breve, concentrato tra il 1980 e il 1988, band che suonano un genere ibridato con il metal, con l’elettronica o con il pop, sarebbero poco coerenti: e per questo al Venezia Hardcore di “vero” hardcore ne sarebbe rimasto molto poco.
Ali invece considera la contaminazione tra generi come molto positiva, nonché una caratteristica ormai apprezzata e tipica del festival. In generale, poi, oggi adolescenti e ragazzi non danno molta attenzione alle definizioni, e non sentono l’esigenza di dover ascoltare un solo genere definito.
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Qualche anno fa Michele Giorgi disse a Vice che il Venezia Hardcore funzionava perché era «un festival fatto da giovani, per giovani», che «finalmente» stavano svecchiando la scena. Per Giorgi, autore della fanzine hardcore In Your Face! e della webzine The New Noise, gli organizzatori danno però «spazio anche ai vecchi perché sanno perfettamente dove hanno le loro radici».
L’edizione di quest’anno del Venezia Hardcore comunque è stata ancora più sentita per via dell’omicidio di Giacomo Gobbato, il 26enne ucciso nel settembre del 2024 a Mestre mentre cercava di fermare un uomo che aveva appena rapinato una donna. Gobbato, conosciuto come Jack, suonava in una band, era un attivista del Rivolta e dava a sua volta una mano al festival. La notizia della sua morte ha riaperto una vecchia discussione sui problemi relativi alla sicurezza e alle questioni sociali in città, poi culminata in una manifestazione partecipata in maniera molto trasversale.
In un articolo pubblicato nel 2022 sull’Essenziale il giornalista Marco De Vidi aveva descritto in maniera molto efficace Marghera come «un luogo affacciato sulla laguna più bella e fragile del mondo, che da più di un secolo è diventato il deposito di tutto quello che la Venezia gentrificata e abbagliata dalla chimera del turismo, incurante dei suoi abitanti, vuole a tutti i costi dimenticare, nascondere alla vista, mettere a tacere». Il Rivolta in particolare sorge in una vecchia manifattura di spezie occupata dal 1995, lungo uno stradone che separa da un lato una lunga fila di capannoni abbandonati o in degrado, e dall’altro le case popolari del centro abitato, che ha una storia lunga e complicata di diseguaglianze e crisi abitative, storie di migranti e di marginalità.
Nel video di presentazione dell’ultima edizione del festival Ali ricordava che il Venezia Hardcore «non si fa solo per la musica, ma anche per dare alla comunità un luogo sicuro, dove sentirsi a casa». Dunque un luogo che, in un contesto simile, può essere centrale per decine di ragazze e ragazzi per trovare un senso di comunità e creare coesione.
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