Il Vietnam fa ancora i conti con le conseguenze delle armi chimiche statunitensi
Nella guerra che finì cinquant'anni fa usarono le bombe al napalm e l'agente arancio, che continuano a contaminare l'ambiente e causare problemi di salute

Il 29 aprile del 1975 gli Stati Uniti lasciarono Saigon, la capitale del Vietnam del Sud (ora chiamata Ho Chi Minh), che nel giro di poche ore sarebbe stata conquistata dall’esercito comunista del Nord. La guerra del Vietnam fu una delle più lunghe e cruente del Novecento: tra il 1955 e il 1975 si scontrarono l’esercito del Vietnam del Nord, un regime comunista sostenuto da Cina e Unione Sovietica, e il Vietnam del Sud, uno stato filo-occidentale sostenuto prima dai francesi e poi dagli Stati Uniti.
Cinquant’anni dopo, per molti vietnamiti e non solo (la guerra sconfinò anche nei vicini Laos e Cambogia) le conseguenze del coinvolgimento statunitense nel conflitto sono ancora concrete, principalmente per due ragioni: la presenza di centinaia di migliaia di ordigni inesplosi, che secondo le stime del governo vietnamita hanno ucciso 40mila persone dal 1975, e la contaminazione dell’ambiente causata dalle armi chimiche che l’esercito statunitense sganciò su praticamente tutto il paese.
Il governo vietnamita stima che quasi 5 milioni di persone siano state esposte a composti tossici, e decine di migliaia sono state uccise. A moltissime altre (avere una stima affidabile è difficile) l’esposizione diretta o indiretta ha causato problemi di salute riproduttiva, malformazioni, tumori e varie disabilità.
Con armi chimiche si fa riferimento a un vasto genere di armi, ma solitamente si parla di ordigni (quindi armi dotate di carica esplosiva) riempiti con un agente chimico che vaporizzato sulle persone può causare ustioni, infiammazioni o anche la morte. Sono vietate dal 1925, quando 37 stati firmarono il protocollo di Ginevra (oggi i firmatari sono 146 in totale). Il protocollo tuttavia non ne vietò la produzione e il possesso, ma soltanto l’uso, e comunque non è stato sempre rispettato: nel corso dei decenni successivi le armi chimiche sono state usate in diverse occasioni da vari eserciti, e ne sono anche state sviluppate di nuove.
In Vietnam gli Stati Uniti utilizzarono principalmente due tipi di armi chimiche: le bombe al napalm e l’agente arancio. Il napalm è una miscela incendiaria inventata durante la Seconda guerra mondiale e utilizzata in Vietnam per dare fuoco alle foreste usate dai vietcong (i guerriglieri della forza di resistenza comunista) per nascondersi e attaccare l’esercito statunitense. Due caratteristiche lo rendono particolarmente letale: ha la consistenza di un gel appiccicoso, quindi aderisce bene e per molto tempo all’obiettivo su cui è sganciato, e bruciando raggiunge temperature molto elevate. Una sola bomba al napalm può bruciare in poco tempo più di 2mila metri quadrati di terreno.

Certamente l’immagine più famosa degli effetti delle bombe al Napalm in Vietnam: ritrae Kim Phuc, all’epoca novenne, che scappa dal luogo di un’esplosione completamente nuda dopo essersi tolta i vestiti infuocati (AP Photo/Nick Ut)
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Oltre alle conseguenze più immediate (gravissime ustioni e asfissia), la combustione del napalm genera anche alti livelli di monossido di carbonio e anidride carbonica, e può causare la diffusione nell’ambiente di sostanze cancerogene. Questo ha avuto effetti negativi sulla biodiversità e ha causato un’ampia deforestazione in vastissime aree del paese.
L’agente arancio nacque invece come erbicida: in modo simile al napalm doveva servire per rimuovere le foglie degli alberi e privare i vietcong dei loro nascondigli, oltre che per distruggere le piantagioni nemiche. Il suo nome deriva dal colore dei barili in cui era conservato. È tra le sostanze più pericolose tra quelle che vengono usate nelle armi chimiche, dato che non solo causa danni alla salute di chi ci entra in contatto, ma si ritiene possa mettere a rischio anche le generazioni successive. La maggior parte della popolazione vietnamita di oggi è nata dopo la fine della guerra, ma l’agente arancio è stato correlato all’alta incidenza di aborti spontanei, cancro, problemi cognitivi e dello sviluppo anche fino alla quarta generazione successiva a quella esposta.

Un aereo dell’aviazione statunitense sgancia il defogliante su una fitta foresta vietnamita, maggio 1966 (AP Photo/Department of Defense)
Questo è possibile perché l’agente arancio resta nell’ambiente per molto tempo. Infiltrandosi nel ciclo dell’acqua attraverso fiumi o stagni, alcune delle sostanze tossiche contenute al suo interno possono continuare a impattare l’ecosistema anche per un secolo, contaminando la produzione agricola e gli animali della zona. Una volta entrato nella catena alimentare, agisce anche sull’organismo umano: tra le altre cose le diossine possono contaminare il latte materno e quindi essere trasmesse ai neonati.
Tra il 1961 e il 1971 gli Stati Uniti sganciarono sul Vietnam più di 70 milioni di litri di agente arancio, oltre a più di 6 milioni di litri di erbicidi tossici di vario tipo.
Nel decenni successivi alla fine della guerra gli Stati Uniti finanziarono varie operazioni di bonifica di alcune delle zone più colpite, e programmi di supporto per le persone con problemi di salute correlati all’esposizione alle armi chimiche, in particolare all’agente arancio. Offrirono anche compensazioni ai veterani statunitensi che erano stati esposti.
Nonostante questo, ampie zone del Vietnam sono ancora contaminate: si ritiene che l’area con la più alta concentrazione di sostanze tossiche sia quella intorno alla base aerea di Bien Hoa, vicino a Ho Chi Minh, dove l’esercito conservava i barili. A occuparsi della bonifica di quella e di altre aree (oltre che dei programmi di supporto) è USAID, l’agenzia governativa statunitense che fornisce aiuti in varie parti del mondo. A marzo però il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha iniziato a smantellarla, e il futuro di queste iniziative è incerto.