Ci fu anche una Resistenza “passiva”?
Secondo alcuni storici fu quella dei soldati italiani arrestati dai nazisti e deportati in Germania, i cosiddetti “internati militari italiani”

I cortei e le celebrazioni del 25 aprile, il giorno in cui in Italia si ricorda la liberazione dai nazisti e dai fascisti alla fine della Seconda guerra mondiale, tendono a raccontare soprattutto gli sforzi dei partigiani e delle partigiane che liberarono l’Italia combattendo con le armi in montagna, nelle città e nei paesi. Negli ultimi anni gli storici stanno approfondendo il ruolo e i meriti di una categoria di persone che ancora oggi non è chiaro se comprendere fra quelle che hanno partecipato alla Resistenza: cioè gli internati militari italiani, conosciuti anche con la sigla IMI.
In estrema sintesi gli IMI furono i soldati italiani arrestati dall’esercito nazista nei giorni successivi all’armistizio dell’8 settembre 1943 che si rifiutarono di combattere gli Alleati insieme ai nazisti: per questa ragione vennero deportati in appositi campi di concentramento nei territori occupati dalla Germania nazista. In tutto si stima che circa 800mila soldati italiani fecero questa fine.
Molti di loro morirono di fame e di stenti negli anni successivi: non si è mai saputo quanti, esattamente. Quelli che riuscirono a sopravvivere furono liberati nella primavera del 1945 insieme alle persone ancora vive che si trovavano nei campi di sterminio.
Nel corso della guerra venne offerta loro più volte la possibilità di tornare in Italia, a casa, a patto di combattere con l’esercito nazista che aveva occupato il territorio italiano o con lo stato fantoccio instaurato da Benito Mussolini nel Nord Italia, la cosiddetta Repubblica Sociale Italiana. La stragrande maggioranza di loro si rifiutò di farlo e preferì rimanere nei campi in condizioni disumane: per alcuni storici fu una forma di Resistenza passiva contro i nazisti e i fascisti.
«Pensiamo a cosa avrebbe significato se per esempio cinquecentomila di loro fossero andati a riempire l’esercito della Repubblica Sociale Italiana, che non superò mai i centomila uomini», ha osservato lo storico italiano Massimo Flores intervistato per il podcast Una mattina.
Dopo la firma dell’armistizio, l’esercito italiano si sbriciolò: il re Vittorio Emanuele III scappò al Sud sotto la protezione degli Alleati insieme al presidente del Consiglio Pietro Badoglio e ai capi di Stato maggiore. L’esercito non aveva un piano per difendersi dai tedeschi, che fino al giorno prima erano dei preziosi alleati. I nazisti riuscirono ad attuare senza troppe difficoltà la cosiddetta Operazione Achse, cioè il piano per occupare l’Italia nel caso avesse deciso di ritirarsi dalla guerra.
Circa un milione di soldati italiani furono disarmati e arrestati dai tedeschi in tutto il paese e sui fronti in cui erano impegnati all’estero, soprattutto nei Balcani e nelle isole greche. I pochissimi che riuscirono a scappare si unirono poi alle prime bande di partigiani e partigiane.
In poche settimane i tedeschi attrezzarono campi di transito in varie parti d’Italia e misero i soldati arrestati di fronte a una scelta: circa 200mila decisero di rimanere in Italia per combattere gli Alleati, mentre 800mila, più o meno l’80 per cento, scelsero la deportazione.
Gli IMI vennero sistemati in una ventina di campi nel territorio controllato dalla Germania nazista. La vita nei campi era tremenda: il cibo era poco, gli alloggi scomodi e sporchi. In moltissimi venivano impiegati in condizione di semi-schiavitù nelle industrie tedesche. In Italia quasi nessuno sapeva che fine avevano fatto, e molte storie emersero soltanto anni dopo la fine della guerra.
«Quanto abbiamo vissuto noi prigionieri: fame, minacce, lavorare anche 10 ore al giorno senza un centesimo», scrisse anni dopo un ex internato in una lettera al programma Rai La mia guerra, conservata oggi nell’archivio dell’Istituto nazionale “Ferruccio Parri” a Milano. «Solo 100 grammi di pane che era più crusca che farina e qualche pezzettino di patate. Ogni tanto brodo scondito. Ciò solo una volta al giorno». Un altro internato, in un’altra lettera a La mia guerra, aggiunse: «In queste condizioni pochi pensavano ormai di resistere; anzi tutti si erano psicologicamente convinti che lì dovevano morire. Si arrivava al punto che l’attrezzo con cui si sarebbe dovuto lavorare non si era più in grado di reggerlo».
La Germania nazista giustificò il trattamento disumano nei confronti degli IMI citando l’articolo 57 della Convenzione internazionale concernente le leggi e gli usi della guerra terrestre, firmata all’Aia nel 1899. L’articolo identificava come “internato” un soldato di un certo paese che si trova sul territorio di uno stato neutrale, e che per impedirgli qualsiasi violenza può essere «custodito in accampamenti o rinchiuso in fortezze». Era una forzatura evidente: l’Italia non era un paese neutrale ma occupato con la forza dai nazisti. Nessuno però riuscì a vincolare la Germania nazista al rispetto del diritto internazionale.
Gli internati furono liberati soltanto nella primavera del 1945; alcuni riuscirono a tornare a casa soltanto nel 1946, mesi dopo la fine della guerra. Per molti anni non furono associati alla Resistenza e ai suoi sforzi. Ancora negli anni Ottanta «l’idea era quella di raccontare la resistenza come una grande epopea popolare di eroismo con le armi in mano», spiega Flores. «Considerare come “resistenti” persone che non si sa bene che posizione politica e ideologica avevano ed erano stati a soffrire nelle prigioni sembrava una cosa poco dignitosa».
La riabilitazione degli internati arrivò tardi: nel 1999 il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro conferì la medaglia d’oro al valor militare all’Internato Ignoto; il suo successore Carlo Azeglio Ciampi, che fu partigiano, raccontò di avere conosciuto varie storie di internati. In un discorso pronunciato nel marzo del 2001 in occasione di un incontro con l’associazione italiana degli ex internati, disse: «evidentemente nella coscienza di ciascuno di voi ci fu un sentire i valori della Patria in un certo modo e questo rappresenta una delle cose più belle che bisogna valorizzare. Ecco perché accomuno e non faccio differenza fra coloro che presero le armi come partigiani e coloro che resistettero nei vari fronti».



