W le scritte sui muri

«Sono paesaggio, lo sono diventate. Le persone non si orientano con la segnaletica, si orientano con gli edifici»

Garbatella, Roma, 21 dicembre 2021. (Ansa/Massimo Percossi)
Garbatella, Roma, 21 dicembre 2021. (Ansa/Massimo Percossi)
Gianni Montieri
Gianni Montieri

È nato a Giugliano in provincia di Napoli. Scrive di letteratura e di sport per varie testate. Il suo libro di poesia più recente è Ampi margini, edito da Liberaria. L’ultimo di sport è Il Napoli e la terza stagione, edito da 66thand2nd. Vive a Venezia.

Sono stato a Macerata tre o quattro volte, è una città che mi piace molto, un posto bello e vivace. Ho assistito a incontri di poesia e a concerti, ho passeggiato, visitato chiese. Eppure, ogni volta che penso alla città marchigiana, per prima cosa non vado a un bellissimo cortile universitario o all’imponente Sferisterio, no, il primo flash, il primo bagliore cittadino va a una scritta che inneggiava a Mario Capanna, poco distante da un ristorante molto buono. «21-11-88. Mario Capanna a Macerata».

Quel giorno del 1988 Capanna presentava il suo libro Formidabili quegli anni. La scritta l’ho incrociata per la prima volta credo nel 2010, quindi con Capanna e Democrazia Proletaria già rubricati in una parte affettuosa della memoria. Ricordo d’aver pensato a Macerata come a qualcosa di resistente, al tempo, forse, o a qualcosa di ancora più importante e indefinito. Fatto sta che non saprei raggiungere lo Sferisterio senza un navigatore, ma saprei ritrovare quel ristorante perché so dove stava la scritta per Mario Capanna. Quella frase rappresenta un luogo cui tornare, anche adesso che dopo tanti anni, mi pare dal 2016, sia stata coperta da murales molto scadenti. Ora quel posto è solo vicolo Costa, per me rimane vicolo Mario Capanna.

(Gianni Montieri)

Nel tempo ho capito, allargando il campo ad altre scritte o murales incrociate negli anni, passando per gli stessi posti, le stesse città, che il tessuto urbano, l’architettura dei luoghi è fatta di molte cose, è fatta di persone innanzitutto che vanno e vengono e che stanno, e poi dalle chiese, dai palazzi, dai negozi, dai musei, dai bar e, sempre più spesso, dai disegni, dalle scritte sui muri, slogan, insulti, poesie.

Il tessuto urbano è talmente ricco e complesso che una scritta che rimane per molto tempo su un muro lo arricchisce e lo spiega, e spiega, almeno in parte, i tempi, lo stato delle cose. Un amico architetto veneziano mi ha ripetuto spesso una frase, che per me è diventata una lezione di architettura applicata, ma anche una regola generale di vita, «Le persone non si orientano con la segnaletica, si orientano con gli edifici», perciò si orientano oltre che con gli occhi, con i piedi, con la memoria. Se si orientano con gli edifici allora lo fanno anche memorizzando una scritta o un disegno che resta su un muro molto a lungo. L’unità di misura è la durata, il tempo, più della bellezza o del significato della scritta, della bravura dell’artista.

Mi sono innamorato di «Turisti cattivi andate in Duomo», frase incrociata sul muro di una casa dalle parti della resistente via Gola a Milano. Ci sono passato davanti qualche mese fa, poco prima di Natale, non so quanto tempo resisterà su quel palazzo, spero tanto. Quella frase spiega molto bene il contesto sociale e anche cosa riesca a fare la capacità di sintesi. Turisti cattivi, come il mostro cattivo, il lupo cattivo, un linguaggio che viene dalle fiabe, dai fumetti, un lessico che ci riporta a quando eravamo bambini. Chi ha scritto quella frase ha ben presente la dimensione del gioco, dello sfottò. Dopodiché arriva l’andate in Duomo che significa molte cose.

La più semplice. Andate in centro, andate a visitare i musei, guardatevi i negozi d’alta moda ma lasciate stare i nostri quartieri, le nostre case occupate – proprio in via Gola ci sono dei bellissimi murales che vengono fotografati di continuo – le nostre storie di lotta, di vita. La più nascosta. Non prendete alloggi in affitto qui, non vogliamo che queste vie diventino roba da Airbnb, non vogliamo vedervi tornare di pomeriggio dopo lo shopping o la sera dopo aver cenato sui Navigli. Mi piacerebbe che quella scritta rimanesse per sempre. Mi pare che quella frase su un muro nemmeno troppo distante dal centro (Milano è piccola) spieghi la città, la sua situazione attuale meglio di un saggio. Qui la singola frase accelera e il messaggio passa, arriva. Quel giorno ho scattato una fotografia e poi mi sono allontanato velocemente, mi pareva di aver violato la privacy di qualcuno. Dietro il condominio in cui ho vissuto per otto anni ad Affori c’era scritto «Andatevene», in rosso scuro. L’ho sempre interpretata a modo mio, come deterrente turistico, mi piaceva leggere il monito quando tornavo la sera, mi faceva sentire al sicuro.

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Le scritte sui muri o i murales stessi sono paesaggio, lo sono diventati. E non è per il fatto che spesso sono indicati negli itinerari delle guide turistiche, ma perché impregnandosi nei muri vengono assorbiti dalle città e ne diventano una parte fondamentale. Diventano certamente la foto da scattare, ma questa è una questione secondaria, non così importante. Per esempio, il 2 agosto di qualche anno fa – proprio quel giorno – ho scattato una fotografia a pochi passi dalla stazione di Bologna. Su una colonna c’era scritto: «2 agosto 1980. Sappiamo chi è stato!», mi ero emozionato nel leggere la frase e per averla incrociata proprio nel giorno della ricorrenza. Vado spesso a Bologna, la scritta non l’ho più ritrovata, eppure, non posso fare a meno di cercarla, è diventato un rituale. La frase che non c’è più per me vale quanto l’orologio fermo, come il binario 1, come la lapide con i nomi delle vittime. Fa parte della mia segnaletica sentimentale, un pezzo di cuore nel cuore di Bologna.

(Gianni Montieri)

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Un puffo e Gramsci, insieme, cosa c’entrano? Sono state le indicazioni che ho dato per qualche tempo ai turisti che si dirigevano alla stazione di  Santa Lucia a Venezia, dicevo: Dopo campo San Tomà, prosegua da questa parte, poco prima di un ponte, sull’angolo, nella parte bassa di un muro c’è disegnato un puffo che dice «Io odio i fascisti», lì svolti a destra, dopo una cinquantina di metri, alla sua sinistra, sotto una finestra leggerà la frase: «Odio gli indifferenti», a quel punto svolti ancora a sinistra, da lì segua le indicazioni per la stazione, pochi minuti e sarà arrivato. Invece di indicare il punto di svolta nel puffo che odiava i fascisti avrei potuto dire di girare in calle de Mezo, ma non l’ho mai fatto. Intanto, perché molto spesso a Venezia non ci ricordiamo il nome delle calli, noi sappiamo dove andare e svoltiamo; poi, di frequente, i nomi delle calli si ripetono nei diversi sestieri.

(Gianni Montieri)

Esistono varie calli del Forno, del Magazen, delle Botteghe, del Cristo, della Madonna, ci saranno di certo più calli de Mezo. Dare l’indicazione di svoltare al puffo e di proseguire per la frase di Gramsci è sempre stata istintiva, non ci ho mai riflettuto, fino a che non sono state cancellate. Al puffo hanno proprio dato una mano di vernice, Gramsci è stato sovrascritto, prima da un’invettiva sgrammaticata contro i vaccini, e poi da qualcos’altro. Qualche lettera della frase originale si intravede ancora, ma tant’è. Ho capito in quei momenti che a Venezia erano stati sottratti due punti importanti del tessuto urbano, come se avessero cancellato il nome di un campo, abbattuto una chiesa, in modalità Napoleone, chiuso un fornaio o, che dio ce ne scampi, una pasticceria. L’abbinamento puffo che odia i fascisti e Gramsci, che sarà stato di certo casuale, mi è sempre sembrato geniale, divertente, forse romantico e molto bello.

Ci sono murales – e di conseguenza – personaggi ritratti che diventano architettura più dei monumenti, accade per esempio per Diego Maradona o per Pier Paolo Pasolini. Il murale gigante di Maradona a via De Deo a Napoli è diventato molto più di un disegno, è diventato un santuario, una cattedrale, un posto in cui pregare. È di fatto uno dei luoghi più visitati d’Italia. La processione di persone che si reca a rendere omaggio è pressoché infinita. Ho spesso riflettuto, anche passando davanti a quel murale, che Maradona (a Napoli certo, ma anche a Buenos Aires) ha superato il concetto di calciatore più forte di sempre e perfino quello della divinità, è diventato un’altra cosa, una parte essenziale del tessuto urbano.

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(Gianni Montieri)

A Napoli e a Buenos Aires, Maradona è ovunque, la sua immagine è riprodotta all’infinito, si potrebbe fare una sorta di vecchio TuttoCittà indicando soltanto i murales, gli adesivi, le foto, le riproduzioni, le frasi a lui attribuite e replicate sui colonnati, sui muri, sui selciati. A Napoli è facilissimo sentire qualcuno che indica la direzione di piazza Trieste e Trento, o di via Chiaia, dicendo cose come «Lasciatevi Maradona sulla destra e proseguite diritto». C’è un bel murale di Maradona in azione, a San Telmo, quartiere di Buenos Aires; è disegnato tra le porte di due case, io e mia moglie dormivamo poco distanti.

La prima o la seconda sera ci eravamo persi e a un certo punto è apparso Diego o, meglio, il disegno, eravamo arrivati, Maradona ci aveva messo (come aveva fatto per tutta la vita) davanti alla porta. I murales di Pasolini sono ovunque, non solo a Roma, ma quello che per me rappresenta più di altri il paesaggio urbano è una delle opere di Ernest Pignon-Ernest, che nel 2015 ideò la Pietà di Pasolini, con lo scrittore che reggeva tra le braccia il suo stesso corpo morto. L’opera apparve in diversi punti della città e fu presto vandalizzata, ma quella davanti alla quale sono passato più volte, che ho usato come punto di riferimento per orientarmi si trovava in via di Sant’Anna. Il nome della strada l’ho imparato solo pochi mesi fa, per me era sempre stata la strada dove sta la Pietà di Pasolini, tra l’altro poco dopo via del Sudario.

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A Giugliano, dove sono nato, per diversi anni, in vari punti si leggeva una scritta grossolana che avrebbe voluto essere una pubblicità: «Asfaldisti per casa vostra» seguita da un numero di telefono. L’errore, oltre a far ridere naturalmente, rendeva più facile memorizzare la frase e, pur non trovandoci nella condizione di aver bisogno di asfalto, potevamo dare indicazioni del genere a chi, per esempio, doveva andare a un funerale o a un matrimonio: la chiesa di San Marco si trova poco più avanti, sulla fiancata, in grande, troverete una scritta «Asfaldisti per casa vostra», sarete arrivati. Con un po’ di tristezza, qualche mese fa ho scoperto che la frase ora campeggia in maniera corretta e più confidenziale: «Asfaltisti per casa tua».

Saranno queste frasi, disegni, adesivi, poesie a spiegarci le città come fanno i palazzi o i monumenti o i parchi? Di sicuro non si può attraversare un luogo senza tenere conto di queste aggiunte. Sogno di ritornare a San Paolo in Brasile per vedere se c’è ancora il murale con i due astronauti che si baciano, così come sogno di andare con una bomboletta spray e correggere un congiuntivo sbagliato, scritto da un innamorato in via Cialdini, a Milano. Mi piacerebbe ritrovare la frase letta in un mercato di Porto Recanati molti anni fa «Il rap te sfotte», degna dei migliori critici musicali. Oppure l’indecifrabile «Insieme alla pioggia», incrociata più volte nel centro storico di Pomigliano d’Arco. E la definitiva «Non ci cancellerete mai» a Padova. Fino alla confessione letta in via Bassi a Bologna: «L’ho sempre fatto per la poesia». Sì, ma cosa?

(Gianni Montieri)

Mi siedo su una panchina di campo Santo Stefano a Venezia, sul muro dei mattoni della chiesa ci sono due disegni di falce e martello, colorati, sbiaditi, riscritti, mi piace guardarli, mi ricordano che le cose stanno sempre tutte quante insieme e mi diverto quando mi domandano dove si trovi la chiesa. In fondo al campo, dietro all’edicola, dove ci sono la falce e il martello. Per dirla col poeta Charles Simic, le scritte sui muri rimandano a «un’ampia scelta di vite passate / dentro cui frugare» e da lì, forse, ci danno qualche indicazione sul futuro.

Molti anni fa a Berlino, alla East Side Gallery – uno dei primi monumenti a cielo aperto fatti di disegni che avessero a che fare con la storia – ho fotografato una frase «Son todas suposiciones», l’ho stampata e incorniciata. Mi segue in tutte le case, non perché mi ricordi Berlino, ma perché mi aiuta a non avere certezze, a non fidarmi del primo cartello stradale. In questo periodo la tengo in cima a uno scaffale, appoggiata ai libri che debbo ancora leggere, fa da quarta di copertina per tutti.

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STORIE/IDEE

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