I dazi di Trump non sono poi così “reciproci”
Li ha presentati come necessari a compensare le penalizzazioni che le merci statunitensi subirebbero all'estero, ma non è così

Mercoledì il presidente statunitense Donald Trump ha detto di voler introdurre dazi che lui ha definito “reciproci”, per tassare e penalizzare le merci straniere importate negli Stati Uniti. Sono tra i più alti dell’ultimo secolo, ma hanno un funzionamento abbastanza anomalo: secondo Trump servirebbero a compensare la penalizzazione degli Stati Uniti nel commercio con gli altri paesi. Riguardano un ampio gruppo di paesi, tra cui anche quelli dell’Unione Europea (e quindi l’Italia), che riceveranno dazi del 20 per cento.
In realtà, per come sono stati fatti i calcoli, questi dazi non sono davvero “reciproci”, per come si intendono di solito. L’amministrazione Trump li ha peraltro presentati come basati su calcoli complessi, ma in realtà li ha stabiliti applicando una formula piuttosto semplice e criticata da molti economisti.
Come chiarito dall’amministrazione stessa, i dazi sono stati ottenuti dividendo il deficit commerciale verso un paese (cioè la differenza negativa tra importazioni statunitensi e le loro esportazioni) per il totale delle importazioni da quel paese. Il dazio che gli Stati Uniti poi imporranno si ottiene dividendo quanto ottenuto per due, con uno «sconto» che secondo Trump deriva dalla loro «gentilezza».
– Leggi anche: La formula molto, molto dubbia con cui gli Stati Uniti hanno calcolato i dazi
Questa formula parte da un assunto molto problematico: che gli Stati Uniti importino da un paese di più di quanto esportino a causa di pratiche commerciali sleali che questo avrebbe messo in atto. È un nesso di causalità senza basi e difficile da dimostrare. Il sistema degli scambi è molto più complesso di così: c’entrano le preferenze dei consumatori, la capacità della loro industria nazionale di soddisfarle, come reagiscono a differenze nei prezzi, e altro ancora. I dazi imposti in questo modo sono di fatto una tassa commisurata a quanto gli Stati Uniti sono esposti con quel paese sul piano commerciale e non invece sul danno subìto.
Se questo è il modo con cui sono stati calcolati i dazi, Trump li ha presentati come molto più complessi, dicendo che invece sono stati commisurati a tutti gli ostacoli che le merci statunitensi incontrano nei diversi paesi. Per Trump questo vuol dire prendere in considerazione non solo i dazi che ricevono, ma anche le normative particolarmente rigide, la burocrazia aggiuntiva, le tasse, e via così. Più tutto questo è oneroso per le aziende statunitensi e più il dazio “reciproco” dovrebbe essere elevato: in questo modo, secondo la narrazione di Trump, gli Stati Uniti verrebbero risarciti del protezionismo che subiscono all’estero.
I dazi “reciproci” dovrebbero essere quindi calcolati sulla base di due componenti, una più immediata e una più complicata. La prima, la più semplice, è la differenza tra i dazi attuali. Facciamo un esempio con l’Unione Europea: gli Stati Uniti applicano un dazio medio del 3,3 per cento sulle merci europee che entrano nel paese, mentre l’Unione Europea del 5 per cento sui prodotti statunitensi comprati dagli stati europei. Gli Stati Uniti potrebbero quindi compensare alzando al 5 per cento i dazi che applicano ai paesi europei. È una differenza che si ritrova in misure diverse con molti altri paesi.

Container al porto di Los Angeles, in California (AP Photo/Damian Dovarganes)
La parte più complicata consiste invece nel quantificare l’effetto che hanno sulle imprese le cosiddette “barriere commerciali non tariffarie”, cioè tutto ciò che ostacola il commercio che non sia un dazio. Un esempio sono tutte le regole legate alla burocrazia doganale, quindi le norme che un prodotto deve soddisfare per superare la dogana (per esempio quelle fitosanitarie per i prodotti alimentari, o certe caratteristiche tecniche per i prodotti meccanici). Tutte queste norme possono essere anche molto diverse tra i vari paesi.
A questo si aggiunge la tendenza comune in Unione Europea alla sovrapproduzione di norme nazionali e comunali per regolare qualunque cosa. Questo nel tempo ha creato un ammasso di burocrazia che non è stato mai semplificato o snellito. In un rapporto per esempio Mario Draghi aveva scritto che le regole sono talmente complicate e diversificate che è come se i paesi europei si fossero imposti da soli un dazio del 45 per cento sui prodotti che si scambiano tra loro. Trump fa dunque leva su un tema esistente quando dice che le aziende fuori dall’Unione Europea sono penalizzate sul mercato europeo. È però vero che il dazio non risolve evidentemente la questione, per cui servirebbe invece un tentativo di arrivare a regole più armoniche e condivise.
– Leggi anche: Che cosa vuole fare Trump con tutti questi dazi
Un altro tipo di ostacolo, non relativo all’Unione Europea ma che Trump cita spesso, è la cosiddetta manipolazione monetaria. Trump ne incolpa la Cina da sempre: consiste nel tenere artificiosamente basso il valore della propria moneta, per far sì che chi compra dall’estero con una valuta più forte trovi le loro merci più convenienti. Era piuttosto comune in passato, ma ora è considerata sleale nel sistema internazionale degli scambi.
Solitamente servono mesi e mesi per quantificare gli effetti economici di cose intangibili come quelle raccontate fin qui: basti pensare che la Commissione Europea ha condotto uno studio di quasi un anno per valutare l’entità del danno derivante dalla concorrenza sleale dei produttori di auto cinesi, e quindi arrivare alla quantificazione del dazio da applicare in compensazione.
I consiglieri di Trump avrebbero dovuto fare tutto questo in relativamente poco tempo, per tutti i settori e per tutti i paesi del mondo. Non è andata così, come si intende anche dalla formula molto basilare che il dipartimento del Commercio ha usato per calcolarli, di cui peraltro gli economisti mettono in dubbio la correttezza formale.
(AP Photo/Mark Schiefelbein)