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  • Giovedì 3 aprile 2025

Com’è cambiata una comunità brasiliana per colpa del carbone vegetale

Le monocolture di eucalipto che servono all'azienda siderurgica Aperam hanno sostituito la vegetazione autoctona, prosciugando le falde acquifere

di Simone Fant, Emmanuelle Picaud e Daniel Camargos

Il sito dove Aperam produce 450.000 tonnellate di carbone all’anno. (Tamás Bodolay)
Il sito dove Aperam produce 450.000 tonnellate di carbone all’anno. (Tamás Bodolay)
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Non ci sono fotografie del paese di João Gomes de Azevedo prima che le piantagioni di eucalipto lo cambiassero radicalmente. Alcune immagini sono descritte in una canzone che João compose per non dimenticare com’era la vita a Poço de Água, un piccolo villaggio rurale a circa 11 ore di macchina da Belo Horizonte, capitale del Minas Gerais, in Brasile. Cinquant’anni fa Gomes e altre centinaia di famiglie contadine ci vivevano allevando il bestiame e sfruttando un ambiente ricco di vegetazione e risorse idriche.

Poi a metà degli anni Settanta la dittatura militare che governava in Brasile mise in atto un massiccio piano di industrializzazione per lo sviluppo economico delle aree più povere, tra cui la valle dell’Alto Jequitinhonha. Centinaia di chilometri quadrati di terreno – alcuni dei quali occupati da piccoli agricoltori ma legalmente di proprietà dello stato – furono ceduti alla società siderurgica statale Companhia Aços Especiais Itabira (Acesita), che sostituì gradualmente gran parte della vegetazione autoctona con milioni di alberi di eucalipto per la produzione di carbone vegetale, un combustibile ottenuto attraverso il processo di carbonizzazione della legna e utilizzato nel complesso processo di fabbricazione dell’acciaio.

Le piantagioni di eucalipto nell’altopiano Chapada das Veredas, Turmalina, Minas Gerais. (Tamás Bodolay)

Nel 2007 Acesita fu acquistata da ArcelorMittal, attualmente secondo produttore mondiale di acciaio, che nel 2011 la incorporò in una delle filiali di Aperam, oggi tra le più grandi aziende siderurgiche europee con cinque impianti di produzione in Europa e uno in Brasile. Questi decenni di storia industriale hanno trasformato profondamente Poço de Àgua, che significa letteralmente “pozzo d’acqua”: ma di acqua qui ce n’è molta meno di un tempo. In inverno il paesaggio è arido, e le auto e i camion pieni di carbone che passano sulle strade non asfaltate sollevano nuvole di terra e polvere. «Quasi tutte le sorgenti si sono seccate e il Rio Fanado, l’unico corso d’acqua rimasto, è inquinato», dice Seu João che ha 85 anni e 17 figli.

Una delle figlie si chiama Maria José Pereira dos Santos: si emoziona nel ricordare i tempi in cui assieme al padre attraversava a cavallo i corsi d’acqua e non ne vuole sapere di lasciare il luogo in cui è nata. «Da Aperam non vogliamo soldi, chiediamo la terra e l’acqua che avevamo prima» spiega dos Santos, che durante le stagioni di secca è spesso costretta a comprare taniche di acqua per bere e lavarsi.

La casa di famiglia si trova alle pendici di quella che da queste parti viene chiamata Chapada das Veredas, un altopiano di circa 150 chilometri quadrati dove prima della privatizzazione i contadini si guadagnavano da vivere pascolando bovini e coltivando manioca. Questo altopiano, Chapada appunto, era interamente coperto dalla vegetazione tipica del bioma Cerrado, una sorta di savana brasiliana che conta migliaia di specie di piante, animali e funghi: ricchissima di biodiversità, cioè di forme di diversità biologica che rendono la vita in un ambiente naturale più resiliente, anche per gli esseri umani.

Il Cerrado è importante anche perché funziona come serbatoio naturale d’acqua: è denominato “culla delle sorgenti d’acqua”, in quanto è tipicamente attraversato da un ecosistema (Veredas) di aree umide e torrenti che contribuiscono alla ricarica delle falde acquifere e a stabilizzare il flusso dei corsi d’acqua durante la stagione in cui piove meno, da giugno a settembre.

La canzone composta da João Gomes de Azevedo, registrata da Reporter Brasil, testata brasiliana che ha collaborato alla realizzazione di questo reportage.

Nell’altopiano però gli equilibri che regolavano il ciclo idrologico naturale si sono rotti. Secondo uno studio condotto da ricercatori dell’Università federale del Minas Gerais, oggi oltre il 60 per cento della Chapada è ricoperto da foreste di eucalipto che hanno gradualmente prosciugato gran parte delle sorgenti d’acqua.

«Un tempo le Veredas erano ricche d’acqua, oggi si sono seccate tutte», dice João Batista, agricoltore di Veredinha, piccolo insediamento a 30 minuti dalla città più popolosa, Turmalina. La proprietà di Batista è circondata da alberi di eucalipto alti 20 metri. Secondo lui Aperam BioEnergia, la filiale di Aperam che gestisce più di mille chilometri quadrati di foresta nella valle, ha portato solo rovina, soprattutto alle comunità rurali più povere ed emarginate. «Hanno distrutto la vegetazione autoctona per ricavare carbone che dà benefici solo all’industria», spiega Batista. «A noi non resta più nulla».

Nelle comunità rurali che circondano l’altopiano vivono circa 2mila persone: una dozzina delle quali, intervistate dal Post, dice che Aperam non ha generato molti posti di lavoro, soprattutto dopo la meccanizzazione di alcune attività forestali che non richiedono più lavoro manuale.

Sempre secondo i calcoli dei ricercatori dell’Università del Minas Gerais neanche il comune di Turmalina ci guadagna dalla presenza di Aperam: anzi, spende per mitigarne i danni. Nel 2018 il contributo fiscale generato dalle piantagioni è stato pari a 5,85 Reis ogni 10mila metri quadrati di foresta, circa 90 centesimi di euro, meno della metà rispetto al reddito prodotto quando nell’altopiano c’era solo vegetazione nativa​. Nello stesso anno per il rifornimento di acqua delle comunità rurali il comune di Turmalina ha speso circa 56mila euro.

Il letto prosciugato del fiume Ribeirão de Santo Antônio. (Tamás Bodolay)

L’eucalipto è una specie di pianta originaria dell’Australia e delle isole vicine, cresce molto velocemente ed è noto soprattutto per la produzione di polpa di cellulosa che viene successivamente trasformata in carta. Oggi è l’albero più produttivo del Brasile: occupa una superficie di circa 56mila chilometri quadrati, un’area grande quanto la Croazia, di cui il 24 per cento si trova nel Minas Gerais, lo stato con più foreste di eucalipto del paese.

Nell’immaginario collettivo piantumare alberi è spesso considerata un’attività positiva per l’ambiente, a prescindere dall’habitat naturale in cui crescono. Le piante rilasciano ossigeno e assorbono anidride carbonica (CO2), il principale gas serra responsabile del riscaldamento globale. Tuttavia i benefici climatici non sempre si traducono in vantaggi ecologici. Infatti, come accade con altre monocolture intensive, l’introduzione su larga scala dell’eucalipto in aree dove non è originario, come il Brasile, tende a ridurre la biodiversità e a creare altri problemi.

Sulla questione Daniel Montesinos, ricercatore dell’australiana James Cook University, ha condotto uno studio internazionale che definisce l’eucalipto “altamente dannoso” per le specie vegetali autoctone. «All’apparenza le piantagioni possono sembrare delle belle foreste verdi, ma in termini ecologici sono come deserti», ha detto Montesinos.

Una piantagione di eucalipto fotografata da un drone. (Tamás Bodolay)

L’altro grosso problema della coltivazione intensiva dell’eucalipto è che tende a modificare il bilancio idrico di un terreno, ovvero la differenza tra la quantità di acqua che filtra nel sottosuolo – tramite la pioggia o l’irrigazione – e la perdita idrica (evapotraspirazione) del suolo per evaporazione e delle piante per traspirazione, processo mediante il quale l’acqua assorbita dalle radici torna nell’atmosfera.

Il bilancio idrico è importante perché determina il volume di acqua presente nella falda acquifera, un serbatoio sotterraneo di acqua dolce che può essere bevuta se di buona qualità, oppure utilizzata per scopi domestici o agricoli.

Secondo i calcoli dello scienziato del suolo Vico Mendes Pereira Lima, le piantagioni di eucalipto causano una riduzione della ricarica della falda acquifera dell’altopiano di circa 31 miliardi di litri d’acqua all’anno, approssimativamente un milione e mezzo di tir pieni d’acqua, rispetto alle aree con vegetazione autoctona.

Questo accade perché il tasso medio di perdita idrica o di evapotraspirazione dell’eucalipto raggiunge i 6 litri per metro quadro all’anno, mentre quello della vegetazione del Cerrado è di 2,6 litri per metro quadro. Insomma con l’eucalipto la capacità del terreno di far infiltrare l’acqua verso la falda si riduce significativamente.

Insieme a un gruppo di ricercatori dell’università federale del Minas Gerais, Lima ha inoltre calcolato che in 45 anni di monitoraggio della Chapada das Veredas si è verificata una riduzione di circa 4,5 metri del livello della falda freatica, un tipo di falda acquifera più superficiale e permeabile. «Il fatto che negli ultimi 70 anni la quantità annuale di precipitazioni non sia variata significativamente dimostra che la crisi idrica che sta colpendo le comunità rurali è causata principalmente dalle piantagioni di eucalipto», spiega Lima respingendo la tesi secondo cui siano state le siccità stagionali a prosciugare le falde acquifere.

Maria José Pereira dos Santos, figlia di Seu João. (Tamás Bodolay)

Anche altri studi scientifici descrivono le monocolture di eucalipto come fattore di riduzione della disponibilità d’acqua e di aumento dell’erosione del suolo. Siccità più intense e prolungate – esacerbate dal riscaldamento globale e da fenomeni atmosferici come quello di “El Niño”, che tra le altre cose ha diminuito le precipitazioni in tutto il Brasile nel 2023 – peggioreranno ulteriormente la situazione. Se poi l’aumento della temperatura media globale rispetto ai livelli preindustriali dovesse raggiungere i 2 °C, nei guai finirebbe pure l’industria forestale, perché oltre metà del territorio sudamericano diventerebbe così arida da essere potenzialmente inadatta alla coltivazione di eucalipto.

Dalla sua fondazione nel 1994 l’associazione Centro de Agricultura Alternativa Vicente Nica (CAV) rappresenta le istanze di circa 2500 agricoltori nella valle dell’Alto Jequitinhonha. Secondo il coordinatore dell’associazione Valmir Soares de Macedo, molte persone – ma non esistono stime precise – hanno dovuto emigrare verso le città per cercare lavoro, e quelle rimaste hanno dovuto ridurre o abbandonare totalmente le loro principali attività di sostentamento: allevamento e agricoltura. La ragione è che non c’è abbastanza acqua.

Con l’aiuto del CAV alcuni agricoltori cercano di adattarsi, per esempio perforando il suolo per costruire pozzi artigianali, oppure realizzando dighe e installando cisterne per la raccolta di acqua piovana.

Da oltre 10 anni l’associazione chiede ad Aperam di riconoscere e mitigare l’impatto delle piantagioni di eucalipto, ma la società lo ha sempre negato, sostenendo al contrario di «proteggere la biodiversità, l’ecosistema locale e di non depauperare le risorse idriche». Aperam, che intende espandere le sue piantagioni del 24 per cento entro il 2030, si difende ricordando che tutte le sue foreste sono certificate dalla Forest Stewardship Council (FSC), un’organizzazione internazionale che tramite enti di certificazione indipendenti garantisce la sostenibilità di attività e prodotti forestali come legno e carta. FSC è un marchio di qualità prestigioso e per ottenerlo le aziende devono soddisfare una serie di standard, tra cui il mantenimento dei corsi d’acqua, la conservazione della biodiversità e il rispetto dei bisogni basilari delle comunità locali e indigene.

Tronchi di eucalipto tagliati da Aperam. (Tamás Bodolay)

Valmir Macedo non ci poté credere quando nel 2020 l’azienda di ispezioni francese Bureau Veritas rinnovò la certificazione FSC a favore di Aperam. «Mentre viola un diritto umano fondamentale come l’accesso all’acqua, Aperam continua a ricevere un attestato di gestione forestale sostenibile: è l’emblema del greenwashing», commenta Macedo criticando quello che ritiene essere un ambientalismo soltanto di facciata dell’azienda.

Poco dopo il CAV e altre 40 organizzazioni presenti in Brasile, Italia e Svizzera inviarono una lettera di reclamo alla Forest Stewardship Council, chiedendo di sospendere la certificazione. Nel suo report Bureau Veritas trovò una “non conformità minore” relativa all’approvvigionamento idrico delle comunità locali, ma chiese semplicemente ad Aperam di valutare il problema con uno studio più approfondito.

Tuttavia, secondo i controlli sul campo di Assurance Services International (ASI), l’organo con sede in Germania che per conto di FSC verifica annualmente l’operato di enti come Bureau Veritas, gli studi forniti da Aperam sono vaghi e insufficienti: non affrontano il problema idrico e non analizzano adeguatamente i bisogni di comunità come i Quilombolas, gruppi di discendenti africani, ora riconosciuti dal governo brasiliano, che si stabilirono in aree isolate per sfuggire alla schiavitù.

Inoltre ASI cita numerosi errori commessi da Bureau Veritas, tra cui il non aver indagato sufficientemente se le accuse mosse dal CAV costituissero in realtà un problema serio (“non conformità maggiore”) che, se non risolto da Aperam in tempo, avrebbe dovuto portare alla sospensione della certificazione. Ad agosto Aperam ha sostituito Bureau Veritas con l’ente di certificazione brasiliano Imaflora e avrà tempo fino a maggio per documentare meglio il proprio impatto ambientale.

Aperam non ha risposto puntualmente a una serie di domande poste dal Post riguardo all’impatto della coltivazione di eucalipto sulle riserve acquifere della valle dell’Alto Jequitinhonha e sulle comunità di persone che ci vivono. Ha elencato genericamente una serie di programmi sociali e ambientali come Água nossa de cada dia, un’iniziativa che dice di «promuovere l’uso sostenibile dell’acqua a beneficio di circa 3mila persone in 11 comunità della valle». Secondo il CAV si tratta di un’operazione di facciata per mostrare che Aperam si sta impegnando ad aiutare le comunità, senza però specificare i risultati ottenuti.

Le persone intervistate dal Post che vivono nelle comunità di Gentio, Campo Alegre, Poço de Água e nei dintorni di Veredinha dicono di non esser mai state sostenute da Aperam negli sforzi per preservare le risorse idriche.

Tir che trasportano carbone vegetale a Turmalina, Minas Gerais, Brasile. (Tamás Bodolay)

Fabbricare acciaio impiegando carbone vegetale in Brasile è un metodo che risale agli anni Venti del Novecento. Qui non sono mai stati trovati grandi giacimenti di carbone fossile adatto a produrre carbone metallurgico, o “coke”, così il settore siderurgico si è arrangiato con quello che aveva: molta terra a disposizione e un clima adatto a far crescere rapidamente l’eucalipto.

Sebbene consumino molta acqua durante la coltivazione e richiedano un uso intensivo di pesticidi, talvolta tossici, gli alberi di eucalipto assorbono anidride carbonica prima di essere tagliati e poi trasformati in carbone vegetale. Questo, secondo Aperam, rende l’intero processo più sostenibile – o per usare un’espressione colloquiale, “green” – rispetto al tradizionale uso di carbone metallurgico estratto dal sottosuolo, e le emissioni di gas serra totali risultano inferiori.

In un’industria inquinante come quella siderurgica, responsabile di circa il 7 per cento delle emissioni di gas serra globali e che ambisce alla neutralità carbonica entro il 2050, la produzione di acciaio a basso impatto ambientale potrebbe portare vantaggi economici, soprattutto in Europa, dove i sistemi di tassazione delle emissioni di anidride carbonica diventeranno sempre più stringenti.

Per esempio, se un’azienda esporta acciaio in Europa, dovrà pagare un dazio ambientale imposto dal Carbon Border Adjustment Mechanism (CBAM), un meccanismo che stabilisce un prezzo per la CO2 emessa dai prodotti importati: è un modo per proteggere le aziende europee gravate dai costi di stringenti requisiti ambientali dalla concorrenza di aziende che operano in paesi dove i requisiti sono più laschi.

A questo proposito la filiale sudamericana di Aperam ha chiesto alla Commissione europea di riconoscere l’assorbimento di CO2 da parte delle foreste di eucalipto come parte integrante del processo produttivo dell’acciaio e includerlo nel meccanismo CBAM, la cui entrata in vigore è prevista tra il 2026 e il 2034. Per Aperam farsi riconoscere l’attività di assorbimento significherebbe ridurre le emissioni e i costi dei dazi ambientali; e probabilmente esportare acciaio in Europa a un prezzo più competitivo.

Piantagione di eucalipto a pochi chilometri dal centro abitato di Turmalina, Minas Gerais. (Tamás Bodolay)

I problemi e le contraddizioni dell’approccio dell’industria siderurgica alla coltivazione dell’eucalipto però non finiscono qui. Oltre alla produzione di acciaio, Aperam guadagna anche convertendo gli scarti prodotti durante la crescita o dopo l’abbattimento degli alberi in “biochar”, un carbone vegetale ottenuto dalla loro decomposizione ad alta temperatura, e in assenza di ossigeno per impedire la combustione del materiale organico.

Tra le varie applicazioni, il biochar può essere impiegato in agricoltura come ammendante, materiale in grado di migliorare le rese agricole e la ritenzione idrica del suolo, e di incrementare gli elementi nutritivi. Inoltre il biochar riesce a sequestrare la CO2 al suo interno per periodi prolungati, stimati tra i 100 e 1.000 anni; ragione per cui Aperam vende crediti di carbonio che attestano la rimozione permanente di CO2, acquistabili da altre aziende o individui sulla piattaforma Puro.earth. È uno dei numerosissimi mercati volontari di crediti di carbonio esistenti, attraverso cui le aziende per varie ragioni decidono di compensare le loro emissioni di gas serra. Nel 2024 Nasdaq, una delle principali borse valori al mondo, ha per esempio acquistato crediti per compensare oltre 7mila tonnellate di CO2, ciò che emettono in un anno circa 5mila appartamenti in Europa.

Tra gli acquirenti dei crediti generati da Aperam figurano anche il gruppo finanziario svedese Skandinaviska Enskilda Banken, il gruppo bancario svizzero Pictet e Sorma, azienda italiana specializzata nella distribuzione di utensili da taglio.

Attualmente nei mercati dei crediti di carbonio volontari ciascuna azienda, come Aperam in questo caso, ha la libertà di adottare standard di rendicontazione e certificazione a proprio piacimento. Negli ultimi anni questo approccio si è però rivelato inadeguato, sia dal punto di vista sociale che ambientale, come denunciato da una serie di indagini scientifiche e giornalistiche che hanno avuto delle conseguenze.

Alla ventinovesima conferenza sul clima che si è tenuta a Baku lo scorso novembre, in Azerbaijan, è stato infatti creato un sistema – chiamato Meccanismo per i crediti dell’accordo di Parigi (PACM, in acronimo) – di metodi rigorosi per sviluppare progetti di crediti di carbonio e accertarne la qualità. Sviluppati da un organo supervisore delle Nazioni Unite, i metodi del PACM prevedono il rispetto degli obiettivi per lo sviluppo sostenibile, non solo economico ma anche sociale, quindi facendo attenzione anche ai diritti delle popolazioni indigene.

L’Unione Europea a febbraio del 2024 ha approvato un regolamento sulla rimozione permanente di anidride carbonica che contiene una serie di criteri che vanno al di là del mero assorbimento dall’aria. Per essere certificate con le nuove regole, le pratiche di assorbimento di CO2 dovranno dimostrare di proteggere o ripristinare la biodiversità ed evitare di danneggiare le comunità rurali.

Questo articolo è stato realizzato con il supporto di Journalismfund Europe