Cosa è stato e cosa sarà l’Albergo dei poveri a Napoli
Venne creato dai Borbone per gli indigenti del Regno, e servì anche a chi lo gestiva: oggi il comune ci sta investendo molti soldi per renderlo una cosa diversa
di Francesco Gaeta

Il cosiddetto Albergo dei poveri di Napoli ha smesso di ospitare “poveri” da quasi mezzo secolo, eppure per tutto questo tempo è rimasto lì, sotto la collina di Capodimonte nella zona est della città, ostico e massiccio. È un rettangolo di marmo e tufo, cadente in molte sue parti. Un monolite con una facciata di 360 metri che spicca in mezzo a palazzi nani e si affaccia sulla piazza Carlo III, il re che nel 1751 volle costruirlo.
Ancora oggi i napoletani chiamano questa costruzione «serraglio», perché è stato un luogo di cura e insieme di reclusione. Nelle intenzioni doveva servire a sfamare i poveri del Regno delle due Sicilie, dare loro un’istruzione, insegnare un lavoro ma anche nascondere la povertà e allontanarla dal resto della città. È un luogo gigantesco, originariamente di 100mila metri quadri, cioè circa il doppio dell’edificio della reggia di Caserta. Nel corso di circa 250 anni ha ospitato fino a 8mila persone al giorno: poveri, ma anche orfani, persone con disabilità, prostitute o ragazzi con disturbi psicologici – definiti «indiavolati» – e reclusi qui per volontà delle stesse famiglie. È stato un progetto con cui, almeno per qualcuno, i Borbone anticiparono quel che avremmo poi chiamato welfare state; secondo qualcun altro è stato un metodo sistematico per sorvegliare e punire. In ogni caso è una storia durata tra molti ritardi quasi fino a ieri, visto che si concluse solo nel 1980. Il terremoto che colpì Napoli quell’anno fece crollare alcuni solai, causò la morte di otto delle persone che ancora abitavano nella struttura e ne decretò la chiusura. Adesso, dopo anni di abbandono, l’Albergo è un cantiere aperto.

Il portale della chiesa dell’Albergo: doveva sorgere nella corte centrale ma non fu completata (Francesco Gaeta/il Post)
Il comune ha oggi più di 220 milioni per convertire la costruzione a nuovi usi entro il 2026, la scadenza fissata dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) da cui arrivano i fondi. Questa cifra fa di questo cantiere il progetto più costoso e ambizioso della città, visto che assorbe più di due terzi dei fondi attualmente destinati alla manutenzione urbanistica del centro storico.
Nelle intenzioni del comune sarà un centro di arte e cultura. Il progetto è firmato dallo studio architettonico ABDR, che in passato ristrutturò tra l’altro il Palazzo delle esposizioni di Roma e la stazione Tiburtina. Prevede di rigenerare 50mila metri quadrati sugli 85mila ancora agibili, che saranno destinati a tre usi diversi: una sezione del Museo archeologico nazionale, dedicata a Pompei; una biblioteca pubblica gestita dalla Biblioteca nazionale di Napoli; e la sede della Scuola superiore meridionale, l’istituto universitario di alta formazione che replicherà per l’Università Federico II di Napoli il modello della Scuola Normale superiore di Pisa, con 160 posti letto.

L’ingresso della chiesa visto dalla navata centrale (Francesco Gaeta/il Post)
Dentro il cantiere
La prima cosa che colpisce entrando nel cantiere è la vastità. Le mura, spiegano i tecnici, sono spesse in alcuni tratti fino a 2 metri, e i soffitti sono alti otto. I corridoi delle camerate hanno finestre collocate a due metri da terra per evitare atti autolesionistici, ed è impossibile affacciarsi. Per via di questa vastità, i piani alti sono inondati di luce, e contrastano con il buio dei sotterranei da cui le ruspe hanno portato via nei primi mesi di lavoro mille tonnellate di terra e di oggetti usati da chi ha vissuto qui: sono materiali che diventeranno un piccolo museo sulla storia di questo luogo.

Uno dei corridoi al primo piano, originariamente usato come refettorio (Francesco Gaeta/il Post)
L’Albergo dei poveri era fatto per ospitare e dividere. L’architetto fiorentino Ferdinando Fuga lo concepì alla metà del XVIII secolo composto da tre grandi corti quadrate, ciascuna con lati da 120 metri. La corte orientale era destinata a donne e ragazze, quella occidentale a uomini e ragazzi, quella centrale doveva essere interamente occupata da una enorme chiesa con pianta a navate incrociate, sormontata da una cupola visibile da tutta la città. La chiesa, però, non fu mai costruita, probabilmente per mancanza di risorse. In compenso ne resta lo scheletro, dietro un altissimo portale di accesso, e pur essendo a cielo aperto tanto basta a dare l’idea delle ambizioni costruttive e delle intenzioni pedagogiche.

La sede dei sorveglianti, che ha poi ospitato una parte dell’archivio del tribunale di Napoli (Francesco Gaeta/il Post)
Lungo i lati delle quattro navate, una per ogni categoria di ospiti, sono ancora visibili e in parte intatti 96 confessionali in pietra. Chi doveva confessarsi avrebbe avuto accesso dall’esterno, e un corridoio sul lato interno della chiesa avrebbe consentito ai sacerdoti di spostarsi dall’uno all’altro, come in una specie di catena di montaggio della penitenza. I fedeli, divisi per sesso ed età, non si sarebbero mai incrociati neanche in quell’occasione, come avveniva del resto durante tutta la giornata: all’interno della struttura non esistevano spazi comuni ai quattro gruppi, né erano previsti momenti di condivisione. I sistemi di scale e i collegamenti interni erano stati studiati in modo da tenere tutti separati per aree di appartenenza, dai sotterranei dove si trovavano le officine fino ai refettori del primo piano, alle aule di studio del secondo piano e alle camerate del terzo.

Una delle navate della chiesa a pianta incrociata: ai lati, i 96 confessionali in pietra (Francesco Gaeta/il Post)

Il corridoio dei confessionali: i sacerdoti si spostavano dall’uno all’altro, mentre i fedeli restavano in attesa (Francesco Gaeta/il Post)
Produrre e rieducare
Dagli annali dell’Albergo si ricava che nel 1835, quando questo sistema “fordista” della benevolenza di Stato era entrato a pieno regime, nei sotterranei avevano sede diverse officine: una stamperia con sei torchi e una litografia; fabbriche di spilli, di chiodi, di piastre da fucile e di lime; laboratori per il corallo, il vetro e il cristallo; un lanificio con 120 operai e una manifattura di tele con 100 uomini e 50 donne. Era lavoro retribuito ma sottopagato. Impiantare una fabbrica qui era un guadagno per chi lo faceva e una potenziale via di fuga verso un lavoro all’esterno per chi vi era occupato.
Nel 1908 c’erano 21 officine e tra queste una grossa fonderia, riconvertita a usi bellici durante la Seconda guerra mondiale: gli operai furono deportati in Germania dopo la rottura dell’alleanza con i tedeschi. Ancora negli anni del Dopoguerra, la fabbrica napoletana che inventò i tacchi a spillo e aveva sede principale nel vicino rione Sanità faceva fabbricare qui una parte delle sue calzature da operai, che costavano evidentemente molto meno rispetto che all’esterno.

L’ingresso monumentale dell’Albergo: vi si accedeva da una scalinata a due rampe (Francesco Gaeta/il Post)
Nelle intenzioni del sovrano che lo creò, l’Albergo prevedeva anche un percorso di istruzione: scuole di grammatica e lingua italiana, ma anche di pittura e di musica, e una scuola per gli ospiti sordi. Tuttavia si trasformò nel tempo in un ente di cui beneficiava soprattutto chi lo amministrava. Dopo l’Unità, il nuovo Stato italiano sembrava volersi occupare della povertà in modo più strutturato e meno basato sulla compassione. Eppure nel 1877 la giornalista di origine inglese Jessie White Mario, che fu anche un’attivista politica, scrisse nel suo libro La miseria in Napoli che nell’Albergo malgrado le «rendite e i lasciti crescano, i poveri mantenuti scemano, il trattamento peggiora sempre e le scuole a poco a poco vengono sopprimendosi». Così «ad ogni tre poveri si mantiene un impiegato per sopravvedere o ammaestrare o curare l’anima o il corpo».
White concludeva che alcuni dei posti riservati nelle scuole interne fossero occupati da chi non ne aveva diritto: «Vorrei una diligente statistica degli allievi; e apparirebbe quanti veri orfani ci sono e quanti godono ingiustamente i beni dei poveri». Un’inchiesta parlamentare dello stesso periodo rese noto che ai dipendenti dell’Albergo spettava l’abitazione all’interno dell’edificio e che gli impiegati e le loro famiglie occupavano stanze spaziose, esposte al sole, mentre molti ospiti avevano posto nei sotterranei e nei solai.
Gli usi successivi
A dire il vero, anche dopo la sua fine ufficiale, l’Albergo non ha mai smesso di ospitare persone a cui non era in origine destinato. Negli anni del Dopoguerra qui ebbe sede il tribunale dei minori, forse per associazione di idee con l’uso originario. E a distanza di 45 anni dalla chiusura, circa 80 persone occupano ancora alcuni alloggi dell’ala orientale: alcune sono persone sfollate qui da altre zone della città dopo il terremoto del 1980, lo stesso che decretò la chiusura e lo sgombero dell’Albergo, altre sono eredi dei dipendenti di un tempo.

Uno dei refettori, che negli anni del secondo Dopoguerra divenne l’aula del Tribunale dei minori (Francesco Gaeta/il Post)
Ci sono stati comunque usi contemporanei più in linea con lo spirito del posto. Nell’ala orientale c’è un centro di accoglienza del comune che gestisce un servizio di bagni pubblici e distribuisce vestiti alle persone senzatetto. Nell’ala opposta ha sede dagli anni Settanta un centro sportivo, nato come palestra di judo su iniziativa di ex ragazzi ospiti dell’Albergo, che hanno ristrutturato circa 15mila metri quadrati e hanno formato alcuni campioni nazionali. Dice Peppe Marmo, che è stato il fondatore del centro: «Oggi accoglie ogni giorno circa 600 ragazze e ragazzi da tutta la città, e alcuni di loro arrivano dal circuito della “messa alla prova”», cioè una forma di rieducazione o riparazione del danno che il giudice può concedere a un minore in caso abbia commesso un reato non grave.
Riserve e problemi
Rigenerare una struttura così imponente deve tenere conto di differenti esigenze.
Alcuni comitati cittadini lamentano il fatto che l’amministrazione comunale non ha consultato gli abitanti del quartiere, Sant’Antonio Abate, per concordare una destinazione d’uso condivisa. L’unica occasione, dicono, è stata una consultazione online nel periodo della pandemia su iniziativa dell’allora ministra per il Sud, Mara Carfagna.
L’associazione Siti Reali, che si occupa di valorizzare i beni del periodo dei Borbone, sostiene che non si sia tenuto in considerazione la «memoria e l’identità del sito stesso». Spiega Alessandro Manna, che ne è il presidente: «L’Albergo è stato storicamente centrato su attività sociali che sembrano assenti dal progetto di riutilizzo».

Una delle corti interne dell’Albergo, utilizzata oggi dal centro sportivo che sorge nell’ala ovest (Francesco Gaeta/il Post)
Nel 2022 il comune avviò una consultazione per raccogliere idee, ma relative ai cosiddetti “usi temporanei” della struttura, cioè quelli concessi per singole manifestazioni o per limitati periodi anche durante i lavori di ristrutturazione. Dal 2023 sono state ospitate così un centinaio di iniziative di organizzazioni o associazioni. Da alcuni mesi sempre nella zona degli usi temporanei hanno sede nell’Albergo i laboratori del teatro Mercadante, oltre che alcune imprese del settore informatico che collaborano con l’università Federico II.
C’è poi un problema ambientale, visto che spazi così ampi richiedono sistemi di raffreddamento e riscaldamento degli ambienti a basso impatto energetico. Insieme ai tre enti pubblici che gestiranno le singole sezioni – Biblioteca nazionale, università Federico II, ministero della Cultura – la direzione del cantiere sta studiando i flussi di visitatori che si possono prevedere, in modo da graduare la climatizzazione localizzandola nelle aree di maggiore sosta ed evitando sprechi energetici.