La scelta più difficile per chi vive nelle zone alluvionate

In Emilia-Romagna molte persone devono decidere se ricostruire le loro case e rimanere, oppure lasciare tutto e spostarsi

di Isaia Invernizzi, foto di Valentina Lovato

Una delle case di via Torri a Traversara, dove lo scorso settembre il fiume Lamone ha rotto l’argine (Valentina Lovato/Il Post)
Una delle case di via Torri a Traversara, dove lo scorso settembre il fiume Lamone ha rotto l’argine (Valentina Lovato/Il Post)
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Quando venerdì scorso il livello del fiume Lamone ha iniziato a salire, Piera Alboni sapeva già tutto. Ha preso le sue cose e si è allontanata da Traversara insieme al marito e al suo cane. Ha raggiunto una parente a Marina di Ravenna e si è messa ad aspettare.

Non è stata presa dal panico, e non perché fosse in qualche modo indifferente all’allarme diffuso nei comuni della Bassa Romagna, ma perché aveva già vissuto quei momenti. È la seconda casa da cui si allontana in pochi mesi. Lo scorso settembre riuscì a salvarsi appena in tempo, poche ore prima che il Lamone sfondasse l’argine accanto a Traversara, una frazione di Bagnacavallo, e distruggesse tutte le villette di via Torri. La sua era al numero 36, azzurrina, due piani, una taverna, una grande cucina nuova, un giardino pieno di fiori. Di quella casa sono rimaste solo macerie.

Fosse per Alboni ci tornerebbe appena possibile. Invece non si può nemmeno avvicinare perché tutta l’area è chiusa da una recinzione di metallo. L’hanno chiamata «zona rossa». Chi abitava in via Torri sa che ora verrà la decisione più difficile: demolire, ricostruire e rimanere, oppure andare via, ricominciare in una casa nuova, in un altro paese. «Sono nata qui, ho sempre vissuto qui. In quella casa ho lasciato il mio cuore, non voglio andarmene», dice Alboni.

Una delle case di via Torri a Traversara (Valentina Lovato/Il Post)

Questa scelta è l’essenza del piano di delocalizzazioni, l’insieme di regole e incentivi economici pensati per dare alle persone la possibilità di lasciare le zone più a rischio. Riguarda più la collina che la pianura. E riguarda anche chi, dopo le ultime alluvioni, non ha più una casa. A Traversara se ne discute da mesi, come in altri paesi dove molte persone sono sfollate. Non c’è ancora nulla di certo, ma l’allerta e le evacuazioni della scorsa settimana sono state un segnale chiaro per la Regione e soprattutto la struttura commissariale: serve un piano, servono i soldi.

Mercoledì scorso, nelle ore in cui veniva diffusa una nuova allerta meteo, sull’argine del Lamone a Traversara c’erano due operai al lavoro sotto la pioggia, protetti da impermeabili. Mancava poco alla fine del cantiere, giusto qualche prova per valutare il consolidamento della nuova protezione. La piena di venerdì notte è stato un test non voluto, eccessivo e rischioso. L’argine però ha retto e Traversara non si è allagata.

La nuova porzione di argine, senza vegetazione, costruita negli ultimi mesi (Valentina Lovato/Il Post)

Sei mesi fa era andata molto diversamente. Molte case erano state devastate dalla forza dell’acqua, nel migliore dei casi si erano allagate. Gli abitanti erano dovuti fuggire in fretta, di notte, lasciando tutto. Molti erano saliti sui tetti, l’ultimo posto sicuro. Erano intervenuti gli elicotteri per portarli via.

Delle villette di via Torri è rimasto poco. Dalla strada si vedono gli specchi e i quadri ancora appesi, come se le pareti fossero trasparenti. In realtà non ci sono più. Ai primi piani non c’è nemmeno il pavimento. Porte e finestre, dove hanno resistito, sono coperte da un intreccio di rami e detriti, e i termosifoni penzolano nel vuoto. L’unico segno di vita sono i narcisi spuntati dal fango, come se là dove fino a settembre c’erano i giardini non fosse successo nulla.

Le alluvioni del maggio del 2023 potevano anche essere considerate un’anomalia, un evento eccezionale, con conseguenze gravi, ma comunque irripetibili. Nel settembre del 2024 però è accaduto di nuovo, e la scorsa settimana la pioggia è tornata a far paura. Michele de Pascale, il presidente della Regione, la chiama «la nuova normalità»: le precipitazioni sono più abbondanti rispetto al passato e più frequenti. Anche con centinaia di milioni di euro spesi per costruire nuovi argini, vasche di laminazione, canali e protezioni, questo territorio non potrà mai essere del tutto al sicuro. «Non è bello vivere in questo stato di precarietà, ma non possiamo mentire alle persone», dice de Pascale.

È anche per questo motivo che un anno fa, prima dell’alluvione di settembre, si iniziò a parlare di delocalizzazioni. Nel “piano speciale preliminare” studiato dalla struttura commissariale nominata dal governo erano citate come ultima possibilità, quasi una postilla. A questo punto però, anche se non è semplice consigliare alle persone di lasciare la propria casa, la possibilità si è fatta meno remota.

De Pascale spiega che le eventuali delocalizzazioni riguarderebbero le aree collinari o pedecollinari, dove è evidente che in passato siano stati fatti errori nella pianificazione urbanistica: alcune case sono troppo vicine ai corsi d’acqua, altre furono costruite perfino dentro gli argini, in zone che per natura appartengono ai fiumi. In pianura, dove i fiumi sono protetti dagli argini, la priorità invece è metterli in sicurezza. «Lì devono rimanere su gli argini, basta», dice il presidente. «Anche perché altrimenti dovremmo delocalizzare interi paesi o città come Faenza, dove abitano quasi 60mila persone. È impensabile».

– Leggi anche: «È come vivere in una zona sismica»

Diverso è il caso di chi dovrebbe ricostruire casa da zero dopo le alluvioni degli ultimi due anni. Se le persone vogliono allontanarsi è legittimo e comprensibile, dice de Pascale. A loro deve essere data la possibilità di scegliere di ricostruire e rimanere, oppure spostarsi.

Di possibili indennizzi e incentivi economici però non si sa ancora nulla. È attesa un’ordinanza che dovrebbe chiarire le regole. «Fino a quando non sarà nominato il commissario alla ricostruzione non sapremo nulla: aspettiamo l’intervento del ministro Nello Musumeci e di Giorgia Meloni», dice Alboni con rassegnazione. Fabrizio Curcio, che lo scorso dicembre ha preso il posto di Francesco Figliuolo, è responsabile delle alluvioni del 2023, non del settembre 2024. Per questo non si sa nulla dei rimborsi, né del piano di delocalizzazioni. Finora le persone sfollate hanno ricevuto cinquemila euro per il sostegno all’affitto, niente di più.

Ora Mattia Berti ci scherza su: dice che potrebbe aprire uno stabilimento balneare nel giardino di casa. Dallo scorso settembre, quando il fiume Marzeno esondò, la forza dell’acqua ha trasformato il giardino in una piccola spiaggia. Berti abitava nella frazione di Brisighella che ha preso il nome dal fiume. La sua villetta è accanto a un vecchio ponte. Non può più viverci perché è troppo rischioso.

Mattia Berti davanti a casa sua (Valentina Lovato/Il Post)

Appassionato di meteorologia, intuì che doveva lasciare tutto il giorno prima dell’alluvione. Portò tutti i mobili al primo piano, poi si allontanò. I vicini erano increduli. Quando un amico vigile del fuoco gli mandò le foto dei danni capì di aver fatto la scelta giusta. Sei mesi dopo c’è muffa dappertutto. L’acqua è arrivata a oltre un metro al pianterreno, dopo aver completamente allagato la taverna.

Berti ora vive in affitto a Faenza. Ci ha pensato a lungo: dice che non tornerebbe a Marzeno nemmeno per cinque milioni di euro: «Lì ho vissuto una parte importante della mia vita. Non ho il tempo, la pazienza e la forza emotiva per riparare tutto. Tornare e vivere con l’angoscia ogni volta che fanno quattro gocce d’acqua sarebbe volersi un po’ male».

Già lo scorso anno la sua villetta – troppo vicina al fiume – era considerata un caso esemplare per spiegare chi avrà diritto agli incentivi per le delocalizzazioni. «Non vedo l’ora che esca l’ordinanza», dice. «I soldi arriveranno quando arriveranno, non è un problema: a questa casa non voglio più pensare». Anche secondo Massimiliano Pederzoli, il sindaco di Brisighella, per alcuni abitanti di Marzeno e di altre frazioni non ci sono alternative. Spiega che sono comunque casi limitati, otto o nove case, e che gli abitanti sono consapevoli dei rischi.

La casa di Mattia Berti è quella a destra del ponte: l’argine ha ceduto sotto al cortile, fino alle mura (Valentina Lovato/Il Post)

Più a nord, vicino a Bologna, in una zona di San Lazzaro di Savena chiamata Farneto, venerdì scorso molti abitanti erano al sicuro perché già dallo scorso settembre erano stati costretti a lasciare le loro case, dopo l’alluvione. Anche loro sono ancora in attesa di capire cosa succederà, ma prima di aspettare i soldi vogliono capire come verrà messo in sicurezza tutto il territorio della Val di Zena, dove scorre il torrente Zena.

«Le uniche cose che ci siamo sentiti dire è che tutto quello che finora poteva essere fatto è stato fatto», dice Luca Gozzetti. I suoi genitori si sono dovuti spostare perché la villetta dove abitavano è ancora inagibile. A ottobre fu travolta dall’acqua e dal fango che raggiunsero un’altezza di otto metri. Era stata già allagata nel maggio del 2023 e nel settembre del 2024. Sono stati stimati danni per 500mila euro. Gozzetti dice che in qualsiasi caso spostarsi sarebbe dura, un po’ perché nessuno comprerebbe quella villa e un po’ perché i suoi genitori considerano il Farneto la loro casa.

Claudio Pasini, portavoce del comitato Val di Zena, accetterà di parlare di delocalizzazioni soltanto quando verrà dimostrata l’inutilità di tutte le opere di sicurezza e prevenzione. Devono essere una soluzione estrema, dice. Già dallo scorso anno insieme agli altri abitanti che fanno parte del comitato ha sollecitato lavori per «dare portata al fiume», cioè allargarlo e abbassarne il livello dove possibile, rafforzare le sponde e realizzare una vasca di laminazione nella vallata. È un bacino che funziona un po’ da serbatoio dell’acqua in eccesso, utilizzato quando c’è rischio alluvione e i fiumi si ingrossano.

Di tutto questo è consapevole il presidente de Pascale: in Emilia come in Romagna va adeguato il sistema idraulico per gestire eventi di piena gravi e ricorrenti come quelli degli ultimi due anni. I lavori fatti finora hanno permesso di evitare conseguenze disastrose, lo scorso fine settimana, ma per dare più sicurezza alle persone ne servono molti altri, progettati, portati avanti e conclusi più velocemente.