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  • Mercoledì 26 febbraio 2025

Stiamo privatizzando la sanità?

Negli ultimi anni la spesa privata non è aumentata, ma è un dato che non basta a spiegare una questione grande e complessa

di Isaia Invernizzi

Una donna seduta sul letto di un ospedale
(Getty Images)
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Negli ultimi anni, soprattutto dall’inizio dell’epidemia, sono aumentate le richieste di assistenza sanitaria che il servizio sanitario nazionale non riesce a soddisfare: le liste di attesa per esami e visite specialistiche si sono allungate e gli appuntamenti vengono fissati mesi – anni, in alcuni casi – dopo la prenotazione, quasi sempre troppo tardi, oltre i tempi massimi previsti dalle ricette. L’impossibilità di avere una diagnosi in tempi brevi o di sottoporsi alle terapie ha aumentato le disuguaglianze sociali e regionali, e ha alimentato il preoccupante fenomeno della rinuncia alle cure.

È opinione piuttosto diffusa che questa situazione sia il segnale di una crescita notevole dei servizi sanitari privati, a cui molte persone sono costrette a rivolgersi per via dell’indisponibilità del servizio sanitario nazionale. I dati dicono invece che negli ultimi dieci anni il rapporto spesa privata e spesa pubblica è rimasto costante: se si considera la spesa sanitaria totale come l’insieme dei soldi pubblici e privati spesi per la sanità, la spesa pubblica è sempre rimasta intorno al 74 per cento del totale, e quella privata intorno al 26 per cento, senza cambiare in modo significativo. Dall’analisi delle sole spese, insomma, si direbbe che la sanità italiana non si stia privatizzando.

Tuttavia a fronte di un aumento dei bisogni di visite, esami e ricoveri non c’è stato nemmeno un aumento della spesa complessiva rispetto al prodotto interno lordo, l’indicatore più considerato dagli studi sullo stato di salute del sistema sanitario, e che tiene conto dell’inflazione e dell’aumento delle tasse pagate per sostenere le spese. Dopo la crescita avvenuta tra il 2020 e il 2022 per far fronte all’epidemia si è già tornati all’andamento degli anni precedenti. A detta di molti esperti è questo il dato più preoccupante, perché solo con un aumento della spesa sanitaria si potranno soddisfare le maggiori richieste di assistenza attese nei prossimi anni, dovute al progressivo invecchiamento della popolazione.

Se non si analizza e governa fin da subito questa tendenza, dicono diversi studi, c’è il rischio di depotenziare ulteriormente il servizio sanitario nazionale avviandosi verso una privatizzazione non coerente con le necessità pubbliche, votata solo al mercato, disordinata e soprattutto iniqua.

Qualche dato demografico aiuta a inquadrare il contesto in cui si trova il sistema sanitario. L’Italia è il secondo paese più anziano al mondo dopo il Giappone: il 24 per cento della popolazione ha più di 65 anni e questa percentuale continua ad aumentare. Le persone anziane sono il doppio dei bambini (14 milioni contro 7) perché la natalità è tra le più basse al mondo e la speranza di vita tra le più alte. Le persone con più di 80 anni sono 4,5 milioni, più dei bambini con meno di 10 anni. Nel 1970 il rapporto era 1 a 9 a favore dei bambini, nel 2000 era di 1 a 2,5.

Le persone con un lavoro sono circa 24 milioni, mentre i pensionati sono circa 16 milioni. I contributi pagati dai lavoratori non bastano a pagare le pensioni e per questo ogni anno lo Stato deve metterci circa 165 miliardi di euro. L’invecchiamento della popolazione, dovuto in parte all’efficacia dello stesso servizio sanitario nazionale, causa un costante aumento dei pensionati a cui diventa sempre più complicato pagare le pensioni. In queste condizioni, senza un bilancio solido, negli ultimi 20 anni nessun governo ha avuto la forza o il coraggio di aumentare la spesa sanitaria pubblica in percentuale al prodotto interno lordo.

In Italia la spesa sanitaria in rapporto al PIL è cresciuta dall’inizio degli anni Duemila e dopo aver raggiunto il 6,7 per cento è scesa fino al 6,4 per cento, nel 2014. Nel 2020 è salita al 7,3 per cento per via degli sforzi dovuti alla pandemia e per il contestuale calo del PIL.

Con l’attuale governo il rapporto tra spesa e PIL è infine sceso al 6,2 per cento nel 2023. Si prevede che rimarrà fermo nel 2025 e raggiungerà al massimo il 6,4 per cento tra il 2026 e il 2027, anche se alcune stime sono più pessimistiche. Il confronto con gli altri paesi europei mostra che l’Italia ha un livello di spesa molto basso. Nel 2023 la Germania ha destinato alla sanità il 10,1 per cento del PIL, la Spagna il 7,2 per cento, la Francia l’8,9, come il Regno Unito.

Negli ultimi mesi la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha sottolineato più volte il dato relativo alla spesa complessiva, che nel 2024 ha raggiunto i 137,9 miliardi di euro. Nella legge di bilancio approvata alla fine dello scorso anno sono stati previsti 142,9 miliardi nel 2025, 149,4 miliardi nel 2026 e 152,2 miliardi nel 2027. Si tratta in effetti della spesa più alta mai raggiunta, ma è appunto un parametro poco indicativo perché non tiene conto della crescita generale dell’economia.

I privati hanno un ruolo importante in questa spesa. Quando si parla di privati in sanità, bisogna distinguere tra le diverse modalità di servizi offerti: ci sono i privati accreditati, cioè ospedali e ambulatori a cui il servizio sanitario nazionale affida alcune prestazioni che non riesce a garantire, c’è poi la spesa chiamata out of pocket, cioè il pagamento totalmente privato delle prestazioni, e infine la spesa privata intermediata che fa riferimento a esami e visite private rimborsate da polizze assicurative sottoscritte personalmente, oppure da categorie e aziende.

La spesa per esami e visite in strutture accreditate rientra nella spesa sanitaria pubblica, cioè nel 6,2 per cento del PIL, mentre la spesa privata o intermediata viene considerata a parte, perché è una quota di sanità sostenuta dai soldi delle persone e non dalle tasse. In entrambi i casi non c’è stato un aumento notevole, come si potrebbe pensare: nel 2023 la spesa per l’assistenza sanitaria accreditata è stata pari al 17,5 per cento della spesa complessiva, stabile rispetto al 2022 e al 2021, e anzi inferiore rispetto al 2019 quando era del 17,8 per cento.

Allo stesso modo anche la spesa sanitaria privata è aumentata, ma non di molto rispetto al PIL: è passata da 34,3 a 45,9 miliardi di euro, mentre il suo peso sul PIL è passato dal 2,1 al 2,3 per cento.

I dati dell’ISTAT e dell’Agenzia delle Entrate permettono di analizzare più nel dettaglio dove i soldi vengono spesi nel privato. Il 52 per cento è dedicato a servizi ambulatoriali, di cui il 19 per cento per dentisti, il 15 per cento per visite mediche e specialistiche, il 10,6 per cento per servizi paramedici (infermieri, psicologi, fisioterapisti) e l’8 per cento per servizi diagnostici. Il 13 per cento viene speso per ricoveri privati in ospedale, il 32 per cento per farmaci, protesi e attrezzature mediche.

A parità di spesa privata in rapporto al PIL, si può notare che le componenti che formano la spesa privata sono cambiate nel tempo: tra il 2012 e il 2023 è molto aumentata (del 57%) la spesa per i servizi ambulatoriali come le visite specialistiche, mentre il ricorso ai più costosi ricoveri privati è diminuito del 6 per cento.

Questo cambiamento – oltre al fatto che ormai la metà delle visite specialistiche viene fatta in privato – spiega in parte l’enfasi data negli ultimi anni alla cosiddetta privatizzazione della sanità. «Le stime indicano che circa il 40 per cento della spesa delle famiglie è a basso valore, ovvero non apporta reali benefici alla salute», dice Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione GIMBE. «Si tratta di prodotti e servizi il cui acquisto è indotto dal consumismo sanitario o da preferenze individuali quali ad esempio esami diagnostici e visite specialistiche o terapie inappropriate».

Va da sé che con una spesa rispetto al PIL ferma, con uno spostamento verso il privato delle visite specialistiche e soprattutto con un invecchiamento della popolazione, non è possibile garantire un servizio sanitario universale.

In questa situazione i servizi sanitari sono più selettivi, escludenti, e le priorità non vengono decise dal ministero della Salute o più in generale dalla politica. «In assenza di una qualsiasi discussione sulle logiche e sui criteri di definizione delle priorità, queste ultime risultano implicite e casuali», si legge nel rapporto OASI realizzato dall’università Bocconi di Milano che ogni anno analizza la spesa sanitaria italiana.

Lo studio spiega con alcuni esempi efficaci le conseguenze di affidare le priorità al caso. Nel 2022 in Italia circa 8,5 milioni di persone hanno ricevuto farmaci antipsicotici e antidepressivi, molti di più rispetto ai 776mila pazienti assistiti dai dipartimenti di salute mentale. Significa che una quota consistente di persone con disagi psichici non è presa in carico dai servizi di salute mentale: dipende dal fatto che i dipartimenti di salute mentale faticano ad accogliere nuovi pazienti perché esauriscono lo spazio per le visite con i pazienti già in carico. Quindi moltissime persone che avrebbero bisogno di assistenza sono escluse dal servizio pubblico e devono rivolgersi ai privati.

Un altro esempio riguarda i posti letto in residenze sanitarie assistenziali (RSA): nelle strutture del servizio sanitario nazionale i posti letto sono solo 300mila e coprono solo l’8 per cento dei 4 milioni di anziani non autosufficienti che vivono in Italia. Anche rivolgendosi a strutture private, le famiglie devono quasi sempre sostenere i costi relativi all’ospitalità alberghiera mentre quelli relativi all’assistenza sanitaria sono a carico dello Stato. Anche con questo sostegno economico le rette sono comunque molto alte (almeno 20mila euro all’anno) e non sostenibili da pazienti in difficoltà economiche. Ad eccezione di poche regioni che pagano l’intera retta, il mercato e l’incapacità del servizio sanitario di rispondere a queste priorità limita l’accesso alle RSA alle persone abbienti, escludendo chi non può permetterselo.

Come già detto, il divario tra aspettative e offerta è molto evidente anche per esami e visite: è dovuto al fatto che negli ultimi sei anni le visite sono calate del 10 per cento, mentre le ricette prescritte da medici di medicina generale e specialisti ospedalieri sono aumentate del 31 per cento. Di conseguenza il servizio sanitario, a parità di spesa, non riesce a rispondere a tutte le richieste.

Il rapporto OASI individua cinque categorie in cui finiscono le persone che devono fare una visita: chi si trova in una categoria ad elevata priorità, almeno sul piano formale, grazie alla quale ottiene la prestazione nei tempi indicati; chi, di fronte a tempi di attesa rilevanti o altre difficoltà di accesso, ritorna dal medico e ottiene una nuova ricetta con classe di priorità a maggiore urgenza; chi aspetta oltre i tempi indicati dal prescrittore come massimi accettabili per i suoi bisogni; chi si rivolge ai privati; chi rinuncia. Nel 2023 circa 4,5 milioni di persone hanno dovuto rinunciare a visite o esami diagnostici: 2,5 milioni hanno rinunciato per motivi economici, con un incremento di quasi 600mila persone rispetto al 2022.

Tutti questi problemi peggioreranno con il passare degli anni perché con l’invecchiamento della popolazione cresceranno le richieste di assistenza e senza un aumento della spesa sanitaria – pubblica o privata che sia – aumenteranno le disuguaglianze.

«L’Italia dovrebbe aumentare la spesa sanitaria di almeno un punto percentuale in rapporto al PIL», dice Mario Del Vecchio, professore dell’osservatorio consumi privati in sanità dell’università Bocconi. «Bisogna però domandarsi chi ce lo mette quel punto percentuale in più. Equivale a 20 miliardi di euro all’anno. La sanità deve essere sorretta da un robusto sistema di aziende pubbliche, ma è impensabile che qualsiasi governo riduca altre spese per metterle sulla sanità, quindi bisognerebbe migliorare l’incrocio tra pubblico e privato».

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Secondo Del Vecchio alla politica non resta che governare e indirizzare meglio la spesa privata, destinata ad aumentare. «Dobbiamo aiutare le persone a spendere meglio i soldi», è la sua sintesi. Ci sono molti modi per farlo. Per esempio, i dati dicono che ogni anno si spendono 1,5 miliardi di euro per pagare farmaci di marca, più costosi rispetto ai generici. Di questi, 500 milioni li mette lo Stato per coprire la quota che si pagherebbe per i generici e per garantire un accesso alle cure. Le persone pagano invece la differenza – 1 miliardo di euro – per avere il farmaco di marca che ha lo stesso principio attivo del generico.

Un altro caso riguarda le assicurazioni che offrono servizi privati di screening oncologici. I risultati di questi esami non vengono registrati dal servizio sanitario nazionale. In questo modo sfuggono moltissimi esami utili per la prevenzione. «Ma ci sono moltissime altre applicazioni: l’ibridazione tra pubblico e privato è complessa, ma non si può ignorare con la spesa sanitaria a questi livelli», conclude Del Vecchio.

Un’alternativa più dolorosa consiste nel cancellare alcuni servizi, cosa che in parte è già stata fatta negli ultimi anni: verrebbero chiusi ospedali e ambulatori lontano dalle città, dove abitano meno persone. Allo stesso modo, dicono tutti gli studi sul tema, andrebbero ridotte le richieste di esami e visite non appropriate. In questo modo il servizio pubblico dovrebbe esplicitare chiaramente cosa è in grado di offrire e cosa no, dove è in grado di offrirlo e dove no, allineando le aspettative delle persone alla realtà.

Sia nell’orientamento dei consumi privati che nella razionalizzazione della spesa serve quello che Giuseppe Remuzzi chiama «governo del sistema».

Remuzzi è direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, e negli ultimi anni si è esposto più volte sull’importanza di far crescere il servizio sanitario pubblico. In un intervento pubblicato dal Corriere della Sera all’inizio di gennaio ha spiegato che l’unico modo per spendere meglio i soldi è migliorare la collaborazione tra aziende sanitarie, assessorati regionali e ministeri.

Tutto questo si può fare anche insieme alla sanità privata: «Il privato-privato (in strutture private) va benissimo», ha scritto Remuzzi. «Vuol dire che chiunque, pagando di tasca sua, può avere tutto quello che vuole dove vuole. Non solo, ma le organizzazioni private dovrebbero venire in aiuto al pubblico dove il pubblico è carente, a condizione però che ci sia una regia: ospedali pubblici e privati che a pochi chilometri di distanza fanno le stesse cose non ce ne dovrebbero essere più e nemmeno ammalati che per avere una prestazione in tempo utile devono rivolgersi al privato».

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