La pandemia “latente” nella produzione culturale

La scarsa voglia del pubblico di leggerne o di vederla rappresentata ha influenzato in vari modi le scelte delle grandi produzioni e degli editori

Una scena della serie in cui due personaggi a bordo di un vagone di un treno indossano una mascherina
Una scena della serie tv The Morning Show, trasmessa nel 2021 (Apple TV/Courtesy Everett Collection/Contrasto)
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La serie tv statunitense Your Honor, girata tra il 2020 e il 2023, è ambientata in parte in un tribunale in cui da un certo punto della prima stagione in poi i giurati indossano una mascherina e l’aula del processo appare inspiegabilmente semideserta. È un dettaglio non presente nella sceneggiatura originale: fu incluso al momento di ricominciare le riprese, interrotte per sette mesi a causa della pandemia da coronavirus. Nell’ottavo episodio il giudice protagonista, interpretato dall’attore Bryan Cranston, spiega l’anomalia parlando di una «minaccia esistenziale» e del bisogno di chiudere l’aula al pubblico e sanificarla ogni giorno.

Esclusi quelli che la mostrano sullo sfondo o la citano marginalmente, sono pochi i prodotti culturali di massa che raccontano la pandemia. La principale ragione è che fin da subito le grandi produzioni, temendo insuccessi commerciali, evitarono di correre il rischio di concentrarsi su un argomento che la maggior parte delle persone non vedeva l’ora di dimenticare. Anche nel tempo trascorso da allora la pandemia è stata elaborata perlopiù sul piano della commemorazione, ma meno estesamente nella cultura pop.

Your Honor è uno dei pochi esempi di serie tv che, condizionata dalla pandemia, ne mostra anche tracce esplicite nella trama, seppure il soggetto fosse stato scritto e pensato prima. Un’altra è Shameless, la cui undicesima e ultima stagione racconta eventi che si svolgono poco dopo il lockdown, presente anche in alcune puntate delle serie Dear White People e The Morning Show, ma non solo. Tra gli esempi italiani, tutta la seconda stagione della popolare serie tv Doc è ambientata in un futuro condizionato dalla pandemia da coronavirus.

I film dedicati esplicitamente alla pandemia da coronavirus sono stati ancora di meno: Locked Down di Doug Liman, Songbird di Michael Bay e 8 Rue de l’Humanité di Dany Boon, i più noti. Nessuno ottenne il successo dei film dello stesso genere che in precedenza avevano raccontato pandemie immaginarie, tra cui Contagion di Steven Soderbergh nel 2011 e Virus letale di Wolfgang Petersen nel 1995, peraltro rivisti da molte persone all’inizio della pandemia.

Una scena in cui tre personaggi, due dei quali con una tuta da isolamento, attraversano una serra

Una scena della serie tv del 2021 Station Eleven, basata sul romanzo del 2014 della scrittrice canadese Emily St. John Mandel (HBO Max/Courtesy Everett Collection/Contrasto)

Per molte produzioni cinematografiche, tra il 2020 e il 2021 mostrare tracce della pandemia non fu una scelta ma una conseguenza della necessità di rispettare inderogabilmente protocolli e misure di sicurezza nel mezzo della pandemia, anche durante le riprese. Gran parte di quei film e di quelle serie è riconoscibile, facendoci attenzione, perché le inquadrature comprendono pochi attori o attrici alla volta, e ci sono molte scene girate in spazi interni.

Ancora oggi la maggior parte dei film continua a evitare di rappresentare personaggi che indossano le mascherine, preferendo nelle trame far finta che non ci sia mai stata una pandemia. Le persone «non vogliono più pensarci, hanno chiuso con la pandemia», scrisse nel 2023 lo scrittore e giornalista statunitense Will Leitch. Per fare un esempio della repulsione del pubblico, raccontò che mentre stava guardando al cinema il film del 2022 Tár, diretto da Todd Field, la sala aveva cominciato improvvisamente a rumoreggiare durante una scena in cui una platea indossa una mascherina mentre ascolta la direttrice d’orchestra protagonista del film. A contribuire è sicuramente anche il fatto che le mascherine sono notoriamente un accessorio punitivo, dal punto di vista estetico: è difficile rappresentarle in un modo che non sembri subito brutto.

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Nella letteratura i tentativi di trattare la pandemia sono stati invece più numerosi. Per certi versi non è sorprendente, scrisse nel 2022 sul New York Times la critica Alexandra Alter. La narrativa è considerata in effetti un genere più adatto all’elaborazione di traumi individuali e collettivi rispetto a prodotti orientati all’intrattenimento, che perlopiù evitarono di occuparsi della pandemia, e rispetto all’informazione e alla saggistica, che se ne occuparono a lungo ma senza prospettiva. A includerla fin da subito nei loro libri furono perlopiù scrittori e scrittrici che già da prima dedicavano un’attenzione particolare ai temi della contemporaneità per scrivere storie drammatiche.

Tra le autrici che ci sono riuscite c’è Ali Smith, una delle più apprezzate e originali del Regno Unito. La pandemia è il contesto in cui vivono i personaggi del suo romanzo del 2021 Estate, il quarto libro di una tetralogia dedicata a grandi eventi e crisi del presente, inclusa Brexit. C’è la pandemia anche nel suo libro successivo, Coda, come anche nel libro dello scrittore di successo Ian McEwan Lezioni, uscito nel 2022, e in Day di Michael Cunningham, del 2023.

Un gruppo di persone indossa una mascherina all'aperto, in piedi sulle scalinate dell'edificio

Le comparse durante le riprese del film The Batman indossano le mascherine tra una ripresa e l’altra davanti al St. George’s Hall, a Liverpool, in Inghilterra, il 12 ottobre 2020 (Christopher Furlong/Getty Images)

In Violeta di Isabel Allende ce ne sono addirittura due, di pandemie: l’influenza spagnola e il coronavirus, che segnano rispettivamente la nascita e la morte della protagonista della storia. Altri romanzi che trattano le ripercussioni emotive e psicologiche della pandemia sulle persone sono, tra gli altri, L’arte di bruciare dell’inglese Sarah Hall, Come il mare in un bicchiere di Chiara Gamberale, La vita senza i figli dell’irlandese Roddy Doyle e 56 giorni dell’autrice di gialli irlandese Catherine Ryan Howard.

In generale anche nella letteratura, come nei film e nelle serie, occuparsi della pandemia è stato ed è tuttora comunque rischioso, perché significa in una certa misura andare controcorrente e non soddisfare il desiderio di molte persone di leggere d’altro. È anche difficile farlo bene, scrisse Alter, perché richiede ad autori e autrici di trovare il modo di rendere avvincente il racconto di un evento collettivo che per lunghi tratti fu invece estremamente noioso.

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In un articolo pubblicato sul Los Angeles Times, in cui consigliava a scrittori e scrittrici di stare alla larga dal tema della pandemia, il critico statunitense Tom Bissell alla fine del 2021 si chiese retoricamente: «quando si vive un’esperienza mondiale orribile in cui sono morti milioni di persone, cosa c’è da esplorare artisticamente se non il fatto che è stata orribile?». Più o meno dello stesso avviso era anche la scrittrice Lara Feigel, che si chiese sul Guardian quanti libri sulla pandemia si potessero pubblicare prima che gli scenari delle storie cominciassero a diventare ripetitivi.

Una netturbina passa davanti alla scultura di una damigella che ha come abito i volti disegnati di medici, infermieri e altre figure del personale sanitario

Una netturbina al lavoro davanti alla scultura dell’artista spagnolo Jorge Arévalo intitolata Gracias sanitarios, parte di una mostra all’aperto di sculture ispirate alle damigelle del celebre dipinto del Seicento Las meninas di Diego Velázquez, a Madrid, il 22 ottobre 2020 (AP Photo/Paul White)

Epidemie e pestilenze sono state un elemento fondamentale di molte trame nella storia della letteratura, dall’Iliade di Omero al Decamerone di Giovanni Boccaccio, dai Promessi sposi di Alessandro Manzoni a La peste di Albert Camus. Ma nella contemporaneità è capitato raramente che le pandemie ispirassero prodotti culturali di grande successo. L’influenza spagnola del 1918 lasciò pochi segni nella letteratura: la maggior parte delle autrici e degli autori dell’epoca non ne scrisse, o ne scrisse in modo obliquo, preferendo concentrarsi sui risvolti drammatici della Prima guerra mondiale.

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Anche nelle arti figurative, con l’eccezione notevole del norvegese Edvard Munch e dell’austriaco Egon Schiele (morto di influenza, tre giorni dopo sua moglie), i dipinti che mostrano la pandemia del 1918 sono relativamente pochi. Le epidemie, in confronto, erano state un tema di ispirazione più condiviso sia nella pittura fiamminga del Cinquecento che nel simbolismo dell’Ottocento.

La spagnola è quasi del tutto assente anche nelle rappresentazioni cinematografiche. Un giornalista di un’influente rivista statunitense di settore, Moving Picture World, scrisse nel 1918 che l’opinione pubblica stava «rapidamente dimenticando del tutto che ci fosse stata un’epidemia di influenza». Nessuna produzione dedicata alla pandemia trovò spazio nella memoria culturale collettiva, scrisse nel 2021 lo storico israeliano Guy Beiner, e un esteso interesse per le possibili tracce di quell’evento emerse di fatto soltanto un secolo dopo, per effetto di una nuova pandemia.

È possibile che anche in futuro un interesse generale, non soltanto accademico, per la ricerca di rappresentazioni culturali della pandemia da coronavirus emergerà in funzione degli eventi. Per questo motivo, piuttosto che parlare di pandemie rimosse o dimenticate, diversi autori di studi di semiotica e memoria culturale considerano più appropriato parlare di pandemie «in latenza», perché se ne trovano tracce in diversi prodotti culturali, sebbene perlopiù periferici. Le informazioni che quei prodotti contengono sono però come «surgelate», in attesa di essere scoperte e riattualizzate a seconda delle analogie possibili con il presente.

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