La lunga crisi di Benetton
La storica azienda italiana ha chiuso già cento negozi nell'ultimo anno per cercare di risparmiare sui costi, e ne dovrebbe chiudere altri 300 entro la fine del 2025

Sulla vetrina di uno storico negozio Benetton in centro a Como negli scorsi giorni è stato appeso un cartello: «Grazie a tutti i nostri clienti per averci supportato e regalato parole, sorrisi e abbracci». La chiusura del negozio di Como non è un caso isolato: segue quella di decine di altri punti vendita Benetton in tutta Italia, dalla Liguria all’Emilia-Romagna, dalla Puglia alla Sicilia.
In un anno sono stati chiusi oltre 100 negozi dello storico gruppo italiano di abbigliamento, diventato famoso nel mondo per i suoi capi colorati ed economici e per le sue campagne pubblicitarie, sempre rimasto a conduzione familiare. Entro la fine del 2025 l’obiettivo sarebbe di arrivare a chiuderne complessivamente più di 400, di cui circa 200 solo in Italia, su 3.500 nel mondo: lo prevede il severo piano industriale dell’azienda reso noto dal Corriere a inizio gennaio. È un modo per affrontare la grave crisi industriale che ha colpito il gruppo, e che negli ultimi mesi ha innescato alcune vicende societarie che hanno portato la famiglia Benetton a uscire del tutto dalla gestione.
L’azienda ha fondato gran parte del suo successo sull’essere un marchio di fast fashion, che dunque vendeva prodotti accessibili per il consumo di massa, prima ancora che questa definizione esistesse. Ma quando sono arrivati i marchi per i quali è stato coniato il termine, come H&M e Zara, non ha retto la concorrenza.
Dal 2012 le vendite del marchio si sono dimezzate: da 2 miliardi di euro sono scese a poco più di un miliardo nel 2023, secondo l’ultimo bilancio approvato. Lo stesso anno l’azienda si è trovata in perdita per 230 milioni di euro. A novembre in un incontro coi sindacati l’attuale amministratore delegato Claudio Sforza – in carica dallo scorso giugno e a cui si deve l’ideazione del nuovo piano industriale – ha detto di puntare a ridurre l’ammanco a 50 milioni nel 2025, per poi arrivare al pareggio nel 2026.
Per certi versi le sue difficoltà sono le stesse di tutto il settore dell’abbigliamento, in crisi per i cambiamenti culturali e il contesto economico. Ma sono state aggravate dal modello di business di Benetton, che pur avendo garantito per anni la prosperità al gruppo, ora mostra diversi limiti.
L’azienda segue il prodotto dall’inizio – cioè dalla creazione fino alla produzione – alla fine, cioè alla vendita. Ha il controllo pressoché totale della filiera. La produzione, benché comunque esterna e perlopiù all’estero, risponde alla sede centrale; tutta la parte commerciale è affidata a una fitta rete vendita, costituita da negozi di diretta proprietà del gruppo e da quelli in franchising (ci torniamo). Le decisioni e la logistica passano comunque per le strutture centrali, con sede vicino Treviso, che impiegano oltre mille dipendenti.

Villa Minelli, a Ponzano Veneto in provincia di Treviso, una delle sedi del gruppo Benetton (Benetton)
Dal lato produttivo il modello di Benetton si è rivelato più inefficiente e costoso rispetto a quelli della concorrenza, che non si occupano direttamente di tutti i vari passaggi della filiera ma che si interfacciano solo con il produttore finale, che fornisce loro la merce già confezionata: è un sistema che ha il vantaggio di ridurre la gestione e i costi del prodotto finito, ma che non consente un controllo scrupoloso della catena di produzione, sia dal punto di vista etico che della qualità.
Sforza, secondo quanto condiviso coi sindacati, starebbe puntando a un modello simile per ridurre i costi e rendere la produzione più veloce anche per garantire la disponibilità del prodotto per le vendite online, più profittevoli di quelle dei punti vendita tradizionali: dall’ecommerce dipende solo il 12 per cento del fatturato, contro una media del settore di circa il 30.
Lo scarso successo delle vendite online non è però l’unico problema del modello commerciale di Benetton. Nel piano di consistente riduzione dei negozi Sforza punta soprattutto a chiudere quelli in franchising, una modalità con cui l’azienda ha affidato negli anni a imprenditori esterni la gestione e gli oneri dei punti vendita, sviluppando così una rete capillare sul territorio in parte cedendola a terzi: questi negozi comprano e vendono i prodotti di Benetton con il suo marchio, e a sua volta Benetton ricava dalla fornitura della merce.
Negli ultimi anni questi negozi hanno accumulato un consistente debito verso il gruppo per la merce che hanno ricevuto, ma non pagato. L’ammanco è di 160 milioni di euro, di cui oltre 30 relativi ai soli negozi di Puglia e Sicilia: in queste due regioni c’erano società a cui facevano capo diversi punti vendita Benetton, società con cui il gruppo è in causa.
Dalla fine dell’estate Sforza ha imposto il rientro veloce di queste somme, e la chiusura dei negozi qualora i gestori non riuscissero a pagare. Solo in alcuni casi i negozi con più potenziale commerciale sono stati fatti rientrare sotto il pieno controllo dell’azienda: è avvenuto per esempio a Bologna, dove di quattro negozi in franchising chiusi lo scorso anno uno è stato recuperato e fatto diventare punto vendita diretto.

Il negozio Benetton di Milano, in Corso Vittorio Emanuele (Alessandro Bremec/LaPresse)
Il piano ha però un evidente costo sociale: la semplificazione del lato produttivo rende superflui molti posti di lavoro in azienda, e la chiusura dei negozi implica il conseguente licenziamento di chi ci lavora. Sono in corso da tempo trattative coi rispettivi sindacati di riferimento, quelli del tessile e quelli del commercio, che procedono su due livelli distinti. Dal gruppo Benetton dipendono 6mila posti di lavoro in tutto il mondo, di cui più di 1.300 solo in Italia.
Massimo Messina, segretario generale della FILCTEM CGIL Treviso, sta seguendo le negoziazioni per i lavoratori del settore del tessile, cioè gli impiegati e gli operai dell’azienda. Ha detto che l’azienda non ha mai dato un numero complessivo di esuberi, ma che comunque puntava a ridurre in modo consistente il personale, fortemente squilibrato dal lato degli impiegati: rappresentano circa i due terzi dei dipendenti. Messina ha detto che ridurre questa parte di organico era in realtà già in discussione dal 2020. Dallo scorso anno sono stati attivati diversi sistemi di incentivi alle dimissioni, a cui hanno aderito finora circa un centinaio di dipendenti. Da fine agosto è poi attivo un contratto di “solidarietà”, cioè un accordo per la riduzione dell’orario di lavoro dei dipendenti per evitare la riduzione complessiva del personale.
Marianna Flauto, segretaria nazionale della UILTuCS, segue invece tutte le negoziazioni dei lavoratori della rete commerciale, assai più complicate perché coinvolgono anche persone non direttamente assunte da Benetton ma dalle società dei franchising: il loro obiettivo, dice Flauto, è di convincere l’azienda a riassorbire questi punti vendita e di conseguenza i lavoratori. Anche perché i lavoratori dei negozi destinati alla chiusura definitiva sono difficilmente gestibili con i tradizionali sistemi di ammortizzatori sociali, visto che fanno capo a società anche piccolissime, talvolta.

Luciano Benetton, nel 2000 (ANSA)
Sebbene alcuni siano evidentemente problemi di lungo corso, in un’intervista data al Corriere lo scorso maggio Luciano Benetton imputò gran parte di questa situazione alla dirigenza di allora, cioè l’amministratore Massimo Renon, che entrò in azienda nel 2020: disse di essere stato «tradito», e che i problemi economici non sarebbero stati comunicati in modo trasparente dalla dirigenza.
Dell’intervista si parlò molto, anche perché Benetton disse di volersi dimettere da presidente del gruppo, incarico che aveva avuto fino al 2012 e aveva poi lasciato riprendendolo nel 2018. Era rimasto l’unico membro della famiglia ad avere una posizione dirigenziale nell’azienda, e a giugno venne poi sostituito dal manager Christian Coco. Alla guida dell’azienda sono rimasti dunque solo manager esterni, e se ne parlò molto perché l’azienda divenne celebre nel mondo in virtù della sua dimensione “familiare”. I Benetton restano comunque proprietari tramite Edizione, la holding che comprende tutte le società della famiglia compreso il gruppo Benetton. Si occupa di molte altre attività oltre all’abbigliamento, che rappresenta solo il 2 per cento delle attività totali del gruppo.