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  • Domenica 14 aprile 2024

Come risponderà Israele all’attacco dell’Iran?

Dopo la prima riunione del “gabinetto di guerra” del governo sembra probabile che ci sarà una reazione militare: le sue eventuali conseguenze dipenderanno soprattutto da quanto sarà intensa

(Xin Hua/Xinhua via ZUMA Press)
(Xin Hua/Xinhua via ZUMA Press)
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Dopo l’attacco con cui sabato sera l’Iran ha lanciato più di 300 tra droni e missili contro obiettivi israeliani, non è ancora chiaro cosa Israele abbia intenzione di fare: innanzitutto se risponderà, attaccando a sua volta obiettivi iraniani, ed eventualmente come attaccherà e con che forza. Se lo stanno chiedendo media e analisti di tutto il mondo, soprattutto quelli israeliani, perché il modo in cui Israele deciderà di agire dopo quest’attacco potrebbe avere grosse conseguenze anche sulla guerra in corso nella Striscia di Gaza contro Hamas, gruppo radicale palestinese sostenuto dall’Iran.

Domenica nel tardo pomeriggio si è riunito per decidere sul da farsi il cosiddetto “gabinetto di guerra”, l’organo creato dal governo di unità nazionale di Israele dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre: per il momento non è stata presa alcuna decisione e dopo diverse ore i membri del gabinetto hanno deciso di sospendere le discussioni e fissare un nuovo incontro nei prossimi giorni. Secondo le fonti di diversi media israeliani e internazionali, comunque, i membri del gabinetto sarebbero tutti abbastanza d’accordo sul rispondere militarmente all’attacco dell’Iran, ma ci sarebbero posizioni diverse su quando farlo e con che intensità attaccare.

L’attacco di sabato da parte dell’Iran non ha precedenti recenti, e nonostante fosse molto consistente è stato quasi del tutto neutralizzato dai sistemi di difesa israeliani, anche grazie alla collaborazione di diversi alleati internazionali: soprattutto Stati Uniti e Regno Unito, ma anche alcuni paesi arabi dell’area che soprattutto negli ultimi anni stanno mantenendo buoni rapporti con Israele, come la Giordania. Secondo quanto ha riferito l’esercito israeliano, droni e missili iraniani sono stati al 99 per cento intercettati prima di arrivare in territorio israeliano. Non sono state uccise persone, ma una bambina di 10 anni è stata colpita dai resti di un missile intercettato ed è in gravi condizioni.

Anche per via delle conseguenze moderate dell’attacco, gli altri paesi della zona e gli alleati internazionali di Israele sperano che la risposta possa essere moderata, per evitare che la guerra si intensifichi o si estenda. Sono in corso anche varie forme di pressione nei confronti del governo israeliano: gli Stati Uniti, il maggior alleato di Israele, hanno per esempio fatto sapere che non daranno alcun sostegno a Israele in qualsiasi attacco di rappresaglia deciderà di fare. Il portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale statunitense, John Kirby, domenica ha detto in modo molto netto: «Non vogliamo che ci sia una guerra più ampia contro l’Iran».

Per “risposta moderata” da parte di Israele si intende una risposta che non provochi un ulteriore attacco iraniano.

L’attacco iraniano era una ritorsione contro Israele per l’omicidio nell’ambasciata iraniana in Siria di Mohammad Reza Zahedi, importante generale delle Guardie rivoluzionarie, una potente forza militare iraniana. Era atteso da giorni ed era stato annunciato dall’Iran stesso, perciò Israele aveva avuto tempo per prepararsi. Il modo in cui lo ha neutralizzato però è stato comunque un’imponente dimostrazione di forza, e oltre a proteggere efficacemente il territorio israeliano ha avuto come importante conseguenza quella di dare a Israele il tempo per decidere senza particolare fretta come rispondere.

Jonathan Conricus, che è stato per diverso tempo portavoce dell’esercito israeliano (anche nei primi mesi della guerra in corso nella Striscia di Gaza) e ora lavora per il think tank statunitense Foundation for Defense of Democracies, ha detto al Washington Post che il successo dell’azione difensiva israeliana dà il tempo al governo per organizzare «una strategia intelligente e a lungo termine», invece di lasciarsi andare in una reazione costretta da «rabbia e pressione».

Finora il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, è stato assai più misurato del solito nel commentare pubblicamente l’attacco, limitandosi a un brevissimo comunicato in cui ha detto: «Lo abbiamo intercettato. Lo abbiamo sventato. Insieme vinceremo». Non è chiaro se a questo atteggiamento corrisponda un’effettiva volontà di Netanyahu di evitare che la guerra contro Hamas si allarghi e si aggravi ulteriormente.

Nelle ultime ore però diversi analisti hanno fatto notare che la situazione che si è creata dopo l’attacco dell’Iran ha fatto di nuovo guadagnare a Israele una certo grado di solidarietà da parte di altri paesi, dopo che negli ultimi mesi era stato progressivamente isolato a causa della durissima invasione della Striscia di Gaza, durante la quale sono stati uccisi almeno 33mila palestinesi. Per questo gli analisti sono piuttosto concordi nel ritenere che prima di prendere qualsiasi decisione definitiva Israele dovrà cercare l’approvazione degli Stati Uniti, e quindi potrebbe anche decidere per una risposta moderata.

Haaretz, il principale giornale progressista israeliano, in un’analisi pubblicata domenica ha descritto l’attacco iraniano come «un’opportunità strategica per Israele», soprattutto per rinsaldare i rapporti con i paesi arabi dell’area che hanno collaborato a difenderlo e ampliare così il fronte ostile all’Iran. Gran parte delle possibilità di sfruttare questa occasione dipendono da quanto Netanyahu saprà resistere alle pressioni dei membri più estremisti del suo governo, che chiedono una risposta violentissima contro l’Iran: il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir, per esempio, ha detto che Israele deve «scatenarsi» per garantire un effetto di deterrenza in Medio Oriente.

L’Iran ha detto che la questione dell’uccisione di Mohammad Reza Zahedi da parte di Israele «può considerarsi conclusa» con l’attacco di sabato. D’altra parte però sembra difficile che Israele rinunci del tutto a rispondere: non subiva un attacco diretto di questo genere dalla guerra del Golfo del 1991 (in quel caso fu l’Iraq), e lasciarlo passare senza conseguenze potrebbe creare un precedente che il governo israeliano con ogni probabilità vuole evitare.