Le posizioni dei paesi arabi sugli attacchi di Hamas non sono state molto equidistanti
Nessuno ha condannato apertamente il gruppo radicale, nonostante la normalizzazione dei rapporti avviata con Israele dal 2020
Negli scorsi giorni le reazioni ufficiali dei paesi arabi in seguito all’attacco di Hamas contro Israele sono state osservate con particolare attenzione. Mentre per decenni i paesi arabi avevano difeso incondizionatamente le ragioni dei palestinesi e addossato tutte le colpe a Israele, paese non riconosciuto e considerato nemico da quasi tutto il mondo arabo, da alcuni anni i rapporti tra Israele e alcuni paesi arabi stanno attraversando un periodo di transizione e cosiddetta “normalizzazione”.
In seguito ai cosiddetti “Accordi di Abramo” del 2020 tre paesi arabi hanno riconosciuto Israele e hanno intrapreso rapporti diplomatici: Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Marocco. Gli accordi, mediati dagli Stati Uniti, prevedevano tra le altre cose l’avvio di relazioni diplomatiche stabili e il riconoscimento di Israele da parte dei paesi arabi firmatari. Da tempo inoltre i negoziati si sono estesi all’Arabia Saudita, il paese arabo più importante del Golfo Persico, che secondo molte analisi era vicina a raggiungere un accordo per il riconoscimento di Israele.
Gli effetti di questo processo di normalizzazione nelle reazioni ufficiali all’attacco di Hamas sono state però limitate: in nessun caso dai paesi arabi è arrivata una condanna dell’azione di Hamas; un gruppo ridotto di paesi ha scelto reazioni equidistanti, con soli auspici di una generica cessazione della violenza; mentre la maggior parte dei paesi dell’area ha indicato in Israele e nelle sue politiche oppressive verso i palestinesi la causa del feroce attacco compiuto da Hamas.
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In alcuni casi, anche questi piuttosto prevedibili, l’attacco è invece stato difeso ed esaltato. Lo ha fatto l’Iran, paese peraltro sospettato da alcuni osservatori internazionali di avere avuto un ruolo nell’attacco (l’Iran però non è un paese arabo): «Siamo al fianco dei guerrieri palestinesi fino alla liberazione di Palestina e Gerusalemme». Anche il gruppo armato libanese Hezbollah, sciita come l’Iran, ha dichiarato di essere in «continuo contatto con i leader della resistenza palestinese» e ha definito l’azione non solo una risposta all’occupazione israeliana, ma anche «un messaggio per quei paesi che stanno cercando una normalizzazione dei propri rapporti con Israele».
Le reazioni più moderate sono state quelle dei paesi che hanno rapporti di lunga data con Israele: Egitto e Giordania, che riconobbero Israele rispettivamente nel 1978 e nel 1994. Entrambi si sono limitati a denunciare i «gravi rischi» di una possibile “escalation militare”, anche se il ministro degli Esteri giordano Ayman Safadi ha citato «gli attacchi e le violazioni dei diritti dei palestinesi in Cisgiordania». Il Marocco ha condannato «gli attacchi contro i civili ovunque accadano», gli Emirati Arabi Uniti hanno «espresso sincere condoglianze a tutte le vittime della recente crisi». Qatar, Kuwait e Lega Araba (organizzazione che riunisce alcuni paesi del Nordafrica e quelli della Penisola araba) hanno più risolutamente indicato nelle politiche israeliane nei confronti dei palestinesi le cause dell’attuale situazione e della violenza.
Particolarmente attesa per le implicazioni politiche era la reazione ufficiale dell’Arabia Saudita, paese che da oltre tre anni viene indicato come prossimo a normalizzare i propri rapporti con Israele, sotto una spinta costante dell’amministrazione statunitense. Il principe ereditario Mohammed bin Salman ha recentemente detto in un’intervista a Fox News che «ogni giorno ci avvicina a questo obiettivo». L’Arabia Saudita in un comunicato dopo gli attacchi ha chiesto «un’immediata fine delle violenze fra un certo numero di fazioni palestinesi e le forze di occupazione israeliane».
Gli attacchi di Hamas e la probabile reazione di Israele nei confronti della Striscia di Gaza probabilmente renderanno più complesso il riavvicinamento tra le due parti. Secondo alcuni osservatori, anzi, impedire l’avvicinamento tra l’Arabia Saudita e Israele era uno degli obiettivi dell’attacco di Hamas, anche se certamente non il principale. Le ragioni sono due: anzitutto ci sono buone possibilità che l’attacco sia stato sostenuto dall’Iran, paese nemico dell’Arabia Saudita e di Israele, che vedeva nel loro avvicinamento una minaccia. In secondo luogo i palestinesi sono sempre stati allarmati dalla possibilità che gli Accordi di Abramo e l’avvicinamento tra Israele e i paesi arabi li lascino isolati e senza risorse.
La questione palestinese era di fatto rimasta fuori dagli Accordi di Abramo del 2020, favoriti dall’amministrazione di Donald Trump, che si intestò i meriti di quello che definì «un momento storico». Israele si limitò a rinunciare all’annessione di alcuni territori occupati della Cisgiordania, a cui aveva di fatto già rinunciato per ragioni politiche interne ed esterne. I paesi arabi acconsentirono a considerare questa come una “concessione”.
Alcuni mesi prima lo stesso Donald Trump aveva presentato un piano per «risolvere la questione israelo-palestinese» che non aveva portato a nulla, anche perché ritenuto molto sbilanciato a favore di Israele. Hamas ha più volte accusato i paesi che hanno ristabilito relazioni con Israele o che intendono farlo di aver dimenticato o abbandonato la causa palestinese, giustificando i recenti attacchi anche come una necessità di fronte a un isolamento crescente. Non è però possibile stabilire quanto queste rivendicazioni siano parte della propaganda dell’organizzazione radicale o quanto la situazione politica dell’area abbia davvero influenzato la scelta.
Il governo israeliano peraltro dopo la firma degli Accordi di Abramo non ha cambiato il suo approccio nei confronti dei palestinesi: negli ultimi mesi il governo di Benjamin Netanyahu aveva intensificato gli attacchi militari in Cisgiordania e favorito l’installazione di colonie nei territori occupati.