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  • Martedì 9 aprile 2024

La scuola negli Stati Uniti non è come nei film

Il sistema educativo funziona diversamente rispetto all'Italia e ha diversi problemi: i più grossi sono il debito studentesco e le forti diseguaglianze

(Scott Olson/Getty Images)
(Scott Olson/Getty Images)

La scuola superiore di Benton Harbor, una piccola città statunitense sulla sponda est del lago Michigan, è da tempo in difficoltà: nel 2019 rischiò di chiudere a causa di problemi finanziari, in generale gli studenti raggiungono risultati mediocri e hanno quindi poche possibilità di entrare in università prestigiose e ottenere un lavoro ben retribuito. Il comune immediatamente più a sud, St. Joseph, è invece molto più ricco e le sue scuole offrono agli studenti tutti gli strumenti necessari per costruire una carriera brillante. Le due cittadine sono a sei minuti di distanza in auto, ma il divario tra i servizi offerti dai due distretti scolastici è evidente. C’è anche un’altra differenza importante: a Benton Harbor la maggior parte della popolazione è afroamericana, mentre a St. Joseph sono quasi tutti bianchi.

È una situazione comune a moltissime città e quartieri degli Stati Uniti, dalle grandi metropoli come New York e Los Angeles alle periferie del Midwest e degli stati del Sud.

Le scuole statunitensi sono state, e continuano a essere, l’ambientazione di moltissimi film e serie tv, ed è facile considerarle un mondo familiare. Il sistema scolastico però è molto più articolato rispetto alle sue rappresentazioni romanzate, e negli ultimi anni due temi in particolare si sono imposti nel dibattito pubblico e politico americano: le diseguaglianze causate dalla divisione del territorio in distretti scolastici, e l’enorme problema del debito studentesco.

Il sistema scolastico statunitense ha la stessa impostazione generale di quello italiano, quindi i cicli di istruzione sono divisi in scuole elementari, medie e superiori, per arrivare poi all’università. La scuola dell’obbligo può cominciare dai 5 ai 7 anni e arrivare fino a 18 anni, in base alle leggi statali. Gli anni di studio sono organizzati sulla base del sistema K-12: partono dal kindergarten, un anno che si fa prima dell’inizio delle elementari in cui i bambini imparano a leggere, scrivere e contare, e arrivano al grade 12, l’ultimo anno di scuole superiori. A differenza dell’Italia, la numerazione degli anni di studio prosegue in modo continuo dalle elementari alle superiori: la quinta elementare è il grade 5 e la prima media il grade 6, mentre la prima superiore è il grade 9. Le scuole superiori durano quattro anni, ognuno dei quali viene colloquialmente indicato con un nome che capita spesso di sentire nei film o nelle serie tv: il primo anno è noto come freshman year, seguito da sophomore, junior e senior year.

Le elementari funzionano in modo simile all’Italia, mentre il sistema cambia alle scuole medie e soprattutto alle superiori. Non esiste infatti la divisione tra licei, istituti tecnici e professionali: tutti gli studenti di una certa zona vanno nella stessa scuola, e lì potranno costruire un curriculum di studi basato sui propri interessi e aspirazioni future. Per questo alle superiori non ci sono dei veri e propri compagni di classe, bensì dei compagni di corso, dato che tutti gli studenti hanno orari diversi in base alle materie scelte. Di conseguenza nelle scuole sono gli insegnanti ad avere delle aule fisse, attrezzate per la materia che insegnano, mentre gli studenti si spostano ogni ora in base alle proprie lezioni.

Ci sono alcune materie obbligatorie, tra cui letteratura, matematica e scienze, e molte facoltative, da fotografia fino a falegnameria e meccanica. Per alcune materie poi sono previste classi diverse in base ai livelli di preparazione: per esempio gli studenti saranno divisi tra corsi di matematica basilari, intermedi e avanzati, con il sistema chiamato tracking. Si fanno molti lavori di gruppo e presentazioni orali, ma le verifiche vere e proprie sono quasi tutte scritte.

Oltre alle lezioni classiche sono molto partecipate anche le attività extrascolastiche, soprattutto sportive. Per tanti studenti e studentesse gli sport sono una parte fondamentale del percorso formativo, e alcuni studenti particolarmente talentuosi puntano proprio sui risultati sportivi per provare a ottenere una borsa di studio per il college, ossia l’università.

Una squadra di football alla scuola superiore di Kokomo, nello stato dell’Indiana (Michael Hickey/Getty Images)

Sebbene il sistema di base sia uguale in tutto il paese, le scuole pubbliche non funzionano sempre nello stesso modo. Alcune sono considerate ottime dal punto di vista didattico, organizzano molte attività extrascolastiche e offrono quindi buone possibilità di essere ammessi a università prestigiose. Altre invece sono scadenti, e gli studenti raggiungono in media risultati mediocri.

In parte il divario dipende dall’organizzazione del sistema scolastico e dal suo legame con le dinamiche abitative. Tutto il territorio degli Stati Uniti è suddiviso in distretti scolastici, e a tutti gli studenti che abitano in un certo distretto viene assegnata una scuola vicina alla propria casa. A meno di eccezioni, ci si aspetta che i bambini e poi i ragazzi frequentino la scuola che viene loro assegnata. Ogni distretto scolastico è governato da uno school board, una sorta di consiglio i cui membri non ricevono uno stipendio e sono quasi sempre eletti dai cittadini tramite delle vere campagne elettorali.

Il finanziamento dei distretti scolastici è di competenza degli stati e delle città, che possono decidere quali entrate destinare alle scuole pubbliche. Quella più comune è la property tax, la tassa sugli immobili: questo però crea delle grosse storture, dato che gli abitanti dei quartieri più ricchi pagano tasse più alte, e quindi le scuole di quella zona potranno beneficiare di più fondi. Al contrario gli abitanti dei quartieri più poveri, che magari vivono in case popolari o ricevono sussidi abitativi, hanno tasse più basse, e quindi le scuole avranno meno fondi. È una dinamica che aumenta le diseguaglianze, creando distretti scolastici molto ricchi, frequentati dai figli di persone già benestanti, e distretti poveri, frequentati da studenti che al contrario provengono da contesti svantaggiati.

Il sistema influisce molto anche sull’andamento del mercato immobiliare, dato che non è raro che una famiglia decida di trasferirsi in un certo quartiere proprio in base alle scuole che offre. Questo però contribuisce a far aumentare la richiesta per gli immobili di quella zona e quindi a far salire ulteriormente i prezzi e attrarre solo abitanti benestanti.

Negli anni il sistema dei distretti scolastici è stato al centro di varie cause legali. Una delle più influenti fu la “class action” (un’azione legale intrapresa collettivamente) avviata nel 1968 da Demetrio Rodriguez, il padre di un bambino che frequentava la scuola elementare di un distretto molto povero della città texana di San Antonio. Con altri sette genitori della scuola, Rodriguez fece causa allo stato del Texas sostenendo che il modo in cui le scuole venivano finanziate (ossia attraverso le tasse sulle proprietà) fosse incostituzionale, poiché non rispettava il principio di uguaglianza tra i cittadini: il distretto di Edgewood, dove abitava Rodriguez e con una forte presenza di persone latine, riceveva appena 37 dollari per studente, mentre il distretto di Alamo Heights, a 15 minuti di distanza e abitato principalmente da famiglie bianche, ne riceveva 413.

Il caso fece molto scalpore e arrivò fino alla Corte Suprema. I giudici decisero che la Costituzione americana non contenesse alcuna indicazione riguardo alle modalità con cui finanziare le scuole: il sistema in vigore era quindi del tutto legittimo. Di fatto, la causa San Antonio Independent School District v. Rodriguez giustificò l’esistenza di un sistema che produce chiare diseguaglianze e decise che non era necessario fare nulla per cambiarlo.

Un’insegnante tiene una lezione online durante la pandemia di Covid-19 in una scuola di Las Vegas, in Nevada (Ethan Miller/Getty Images)

La divisione in distretti scolastici e l’assegnazione di una scuola in base all’indirizzo di residenza hanno creato distretti scolastici molto omogenei dal punto di vista etnico: è facile infatti che nelle scuole più ricche, che si trovano in quartieri ricchi, ci siano in prevalenza studenti bianchi, e in quelle più povere studenti afroamericani o ispanici. Secondo un rapporto dello U.S. Government Accountability Office (GAO), nell’anno accademico 2021/2022 più di un terzo degli studenti statunitensi iscritti alla scuola dell’obbligo frequentava una scuola in cui la maggior parte della popolazione studentesca apparteneva alla stessa etnia.

La mancanza di diversità culturale nelle scuole è diventata un problema anche in zone note proprio per la loro eterogeneità demografica.

Un esempio è il Distretto 28 della città di New York, che include diversi quartieri nella zona centrale del Queens. Tra questi ci sono Forest Hills, a maggioranza bianca, e Jamaica, dove il 55 per cento degli abitanti è afroamericano e solo l’1,4 per cento bianco. La composizione dei quartieri si riflette sull’organizzazione delle scuole del territorio, con la conseguenza che le scuole di Forest Hills sono notevolmente migliori rispetto a quelle di Jamaica. Nel 2019 fu avviato un processo per creare un Piano per la diversità (Diversity Plan) che favorisse l’integrazione tra le scuole del distretto, ma qualcosa andò storto: molti genitori che abitavano nei quartieri più benestanti si opposero, temendo che qualsiasi cambiamento potesse compromettere la qualità delle scuole frequentate dai loro figli, e il progetto venne sospeso.

In alcuni casi è possibile iscrivere i propri figli a una scuola pubblica diversa rispetto a quella assegnata in base all’indirizzo di residenza, ma si tratta di eccezioni regolamentate da leggi statali o cittadine. Secondo il rapporto del GAO, circa il 70 per cento degli studenti va a scuola nel proprio quartiere. In alternativa, per evitare i vincoli imposti dai distretti scolastici, è possibile frequentare scuole private, a pagamento, oppure le charter schools, scuole gratuite che ricevono fondi pubblici ma sono gestite da enti privati. Proprio per il loro uso di risorse pubbliche le charter schools sono ritenute controverse, e negli ultimi anni si è creato un ampio dibattito riguardo alla possibilità o all’opportunità di aprirne di nuove.

Un discorso a parte va fatto per le università, che non seguono le logiche distrettuali ma subordinano l’ammissione a processi di selezione molto competitivi. Il percorso universitario è diviso tra studi undergraduate, che corrispondono più o meno alla laurea triennale italiana ma durano quattro anni, e postgraduate, ossia i master. In seguito si accede eventualmente ai dottorati, noti come PhD poiché conferiscono il titolo di doctor of Philosophy (la sigla riprende l’espressione latina «philosophiae doctor»).

Il campus dell’università di Yale a New Haven, in Connecticut (AP Photo/Ted Shaffrey)

Molte università hanno organizzato la vita accademica e studentesca all’interno dei propri campus, che somigliano a piccole città con studentati, biblioteche, campi sportivi e in alcuni casi negozi: la vita nei campus universitari americani è al centro di moltissimi film e serie tv ed è ormai entrata nella cultura universale. Uno degli aspetti più caratteristici è quello delle confraternite, associazioni studentesche frequentate generalmente dagli studenti più giovani (undergraduate) e note soprattutto per le grandi feste che organizzano regolarmente. Le confraternite hanno però vari aspetti problematici, tanto che alcune sono state accusate di incoraggiare una cultura misogina, prevaricatrice ed elitaria: ci si è spesso chiesti se non sarebbe meglio abolirle del tutto.

– Leggi anche: Manuale illustrato di una confraternita americana

Sono statunitensi alcune delle università più prestigiose del mondo. Otto di queste fanno parte della cosiddetta Ivy League: Harvard, Brown, Columbia, Cornell, Dartmouth, Princeton, University of Pennsylvania e Yale. Si trovano tutte vicine alla costa est, sono tra le più antiche degli Stati Uniti e ogni anno si posizionano ai primi posti di molte classifiche internazionali.

Il termine “Ivy” (edera) iniziò a essere associato all’ambito universitario nell’Ottocento, quando alcuni atenei cominciarono a piantare l’edera una volta all’anno per celebrare i successi accademici, un gesto che divenne presto una tradizione. Nel 1933 il giornalista del New York Tribune Stanley Woodward usò per la prima volta il termine “Ivy colleges” per riferirsi alle competizioni sportive che coinvolgevano le università più antiche e prestigiose del paese, ossia quelle sulla costa est. Due anni dopo, l’espressione “Ivy League” apparve sul giornale The Christian Science Monitor, sempre in merito alle competizioni sportive. La Ivy League fu fondata nel 1954 come un campionato sportivo a cui potevano partecipare le otto università della costa orientale, ma il termine era già ampiamente usato. Oggi non è più legato allo sport, ma è diventato un simbolo di prestigio ed eccellenza accademica.

Negli anni anche altre università si sono guadagnate un’ottima reputazione, da Berkeley e Stanford, in California, al Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Boston.

Proprio a causa della loro fama e del rigore accademico, le università statunitensi più note sono anche estremamente selettive: generalmente solo il 3 o il 4 per cento degli studenti che fanno domanda viene ammesso. Nel 2023 Yale ha ammesso 2.275 studenti, su oltre 52mila domande ricevute.

Per riuscire a entrare bisogna avere ottimi risultati scolastici, ma anche fare moltissime attività extracurriculari negli anni delle superiori, tra sport, dibattiti e volontariato, e conoscere le lingue. Non guasta provenire da una famiglia facoltosa, dato che le università private statunitensi hanno costi di gran lunga superiori rispetto alla media italiana. Nel 2023 la retta media annuale per un’università privata era di 40mila dollari, e l’importo può salire anche molto nel caso di scuole particolarmente prestigiose: ad Harvard la retta media per gli studenti dei corsi undergraduate era di 57.246 dollari all’anno, a cui ovviamente vanno aggiunte tutte le spese per vitto e alloggio.

La Columbia University di New York (AP Photo/Mark Lennihan)

Solo una minoranza degli studenti paga però autonomamente l’intero importo degli studi. Molti dipendono dalle borse di studio, che possono coprire del tutto o in parte i costi delle rette e della vita in campus, e altri chiedono prestiti a banche private oppure al governo, che offre programmi a tassi agevolati. In alcuni casi si tratta di prestiti molto ingenti, da decine o centinaia di migliaia di dollari, che vengono estinti dopo decenni oppure che non vengono mai ripagati: negli Stati Uniti il debito studentesco è un problema enorme, che nessuna amministrazione è finora riuscita a risolvere. La Federal Reserve (la banca centrale statunitense) stima che a settembre del 2023 il debito studentesco in attesa di essere ripagato ammontasse a 1.600 miliardi di dollari.

Alcuni storici ed esperti raccontano che il sistema dei prestiti federali agli studenti iniziò a causa di un satellite lanciato in orbita dalla Russia. Era il 1957 e gli Stati Uniti si trovavano nel pieno della Guerra Fredda e della “corsa allo spazio”, il periodo di competizione tecnologica che portò Stati Uniti e Unione Sovietica a raggiungere eccezionali successi nell’ambito dell’esplorazione spaziale. A ottobre la Russia lanciò in orbita il primo satellite artificiale, lo Sputnik 1, e meno di un anno dopo il Congresso statunitense approvò il National Defense Education Act, una legge studiata appositamente per permettere alle università di offrire agli studenti dei prestiti agevolati, finanziati dal governo, per incoraggiare lo studio di materie matematiche e scientifiche e permettere lo sviluppo dell’industria spaziale del paese.

Qualche anno dopo il programma fu esteso dal presidente democratico Lyndon Johnson, che proveniva da una famiglia umile del Texas e aveva dovuto fare sacrifici economici per potersi permettere gli studi universitari. Nel 1965 Johnson firmò l’Higher Education Act, con l’obiettivo di fornire più risorse alle università e rendere gli studi accessibili a tutti i cittadini statunitensi. Tra le altre cose la legge allargò notevolmente il sistema di prestiti per gli studenti, che poi iniziarono a essere gestiti dalle banche ma garantiti dal governo.

Il presidente Lyndon Johnson firma l’Higher Education Act, nel 1965 (AP Photo)

Negli anni successivi il numero di studenti iscritti all’università crebbe moltissimo, ma lo stesso fece l’inflazione: i prezzi iniziarono ad aumentare e molte persone si ritrovarono impossibilitate a ripagare i debiti contratti per studiare. Intanto le banche continuavano a offrire prestiti a sempre più persone, approfittando del fatto che le somme erano garantite dal governo e che quindi si trattava di operazioni praticamente a rischio zero. Inoltre quello per gli studi era visto – e in parte continua a esserlo – come un debito “positivo”, un investimento a lungo termine che dovrebbe permettere di ottenere un lavoro migliore e un più alto tenore di vita.

Con il passare del tempo e il peggiorare della situazione economica l’iniziativa di Johnson, partita con le migliori intenzioni, si trasformò in un guaio.

Finora nessuna amministrazione è riuscita e interrompere la spirale che lega l’aumento dell’inflazione a quello delle rette, e quindi del debito studentesco. Nel 2012 l’allora presidente democratico Barack Obama disse che anche lui e la moglie Michelle si erano dovuti indebitare per pagarsi gli studi universitari: «Pensateci, sono il presidente degli Stati Uniti e ho finito di ripagare i debiti studenteschi solo otto anni fa», disse in un discorso all’Università dell’Iowa. Oggi oltre 43 milioni di persone sono indebitate e devono ripagare in media 35mila dollari ciascuno.

Negli ultimi anni alcuni presidenti hanno provato a risolvere o perlomeno ridurre la portata del problema, senza grossi risultati. Nel 2019 per esempio il Repubblicano Donald Trump firmò un ordine esecutivo per cancellare i debiti studenteschi contratti dai veterani con disabilità, mentre nel 2022 il Democratico Joe Biden annunciò un piano per cancellare prestiti per 430 miliardi di dollari, che però fu bloccato dalla Corte Suprema. A ottobre del 2023 Biden, che è in carica dal 2020, ha detto che la sua amministrazione aveva approvato fino a quel momento la cancellazione di debiti per 127 miliardi di dollari, a carico di quasi 3,6 milioni di persone.