Nel carcere di San Vittore a Milano l’assistenza psicologica è quasi ferma

Una contestata indagine su due psicologhe ha generato un clima di timore tra i pochi operatori rimasti, con conseguenze sulla salute mentale di centinaia di persone detenute

di Isaia Invernizzi

Una cella del carcere di San Vittore
Una cella del carcere di San Vittore (Piero Cruciatti / LaPresse)

Negli ultimi due mesi nel carcere di San Vittore, a Milano, gli psicologi e le psicologhe a disposizione degli oltre mille detenuti sono quasi dimezzati: erano in nove, sono rimasti in cinque, e in alcuni giorni capita che gli operatori in servizio siano soltanto due.

A San Vittore sono detenute oltre 200 persone con diagnosi di disturbi psichici, e diverse altre centinaia di persone hanno disturbi mentali legati alla dipendenza da sostanze stupefacenti. È tra le carceri più sovraffollate in Italia: nelle celle pensate per due persone ce ne sono spesso cinque. Il tasso di detenuti stranieri è molto alto e i ricorsi contro «trattamenti inumani e degradanti» in violazione dell’articolo 3 della convenzione europea dei diritti umani sulle condizioni dei detenuti sono aumentati in modo significativo dall’inizio dell’anno. Nonostante tutti questi problemi, l’assistenza psicologica è quasi ferma.

Secondo gli stessi psicologi e diverse associazioni che tutelano i diritti delle persone detenute, questa grave mancanza – che già ora compromette la salute di centinaia di persone – è conseguenza della paura e dell’incertezza generate da una recente indagine avviata dal magistrato Francesco De Tommasi. L’indagine riguarda quattro psicologhe che hanno assistito in diversi modi Alessia Pifferi, accusata di aver lasciato morire di stenti la figlia di 18 mesi nel luglio del 2022.

De Tommasi è pubblico ministero nel processo principale nei confronti di Pifferi, ma ha aperto un’inchiesta parallela sulle quattro psicologhe e sull’avvocata della donna, Alessia Pontenani, accusandole di aver manipolato Pifferi con l’obiettivo di accertare la sua incapacità di intendere e di volere e quindi evitarle la detenzione in carcere. È un’indagine anomala soprattutto per le modalità, contestate dalla camera penale di Milano, l’associazione degli avvocati penalisti che lo scorso 4 marzo ha organizzato un giorno di astensione dal lavoro per protesta.

– Leggi anche: Il caso di Alessia Pifferi e la protesta degli avvocati di Milano contro la procura

Due delle psicologhe indagate hanno chiesto il trasferimento, una terza si alternava tra il carcere e l’azienda socio sanitaria Santi Paolo e Carlo, la quarta psicologa indagata lavora esclusivamente per l’azienda socio sanitaria e non ha mai incontrato Pifferi. Sia l’avvocata di Pifferi che le due psicologhe in servizio a San Vittore sostengono di aver fatto semplicemente il loro lavoro applicando le prassi corrette, senza alcun tipo di manipolazione.

È una tesi sostenuta anche da altri psicologi. All’inizio di febbraio hanno scritto una lettera alla procuratrice generale di Milano Francesca Nanni e alla presidente del tribunale di sorveglianza Giovanna Di Rosa per denunciare le modalità di indagine e il conseguente clima di tensione in cui sono costretti a lavorare: il pubblico ministero De Tommasi, infatti, ha chiesto e ottenuto intercettazioni ambientali in carcere e la perquisizione degli uffici. «Oltre a essere quasi dimezzati rispetto a prima, noi che siamo rimasti lavoriamo con paura», dice Alberto Astesano, psicologo e psicoterapeuta che lavora a San Vittore. «Lavoro con il timore di evidenziare una vulnerabilità psichica, per paura che la segnalazione sia etichettata come una forma di manipolazione. Anche per questo è tutto più lento e faticoso».

A San Vittore, come nelle altre carceri italiane, l’assistenza psicologica si divide grosso modo in tre ambiti: il colloquio all’ingresso, le situazioni di emergenza, la prevenzione costante del rischio di suicidi. Il colloquio all’ingresso è molto importante, soprattutto per le persone che non sono mai state in carcere: a San Vittore sono molte perché lì vengono portate le persone in attesa di giudizio. Durante il colloquio viene chiesto quale tipo di reato hanno commesso, se in passato avevano avuto psicopatologie, se avevano avuto ricoveri e se si erano trovate nella condizione di pensare di farsi del male o suicidarsi. Le risposte servono per identificare il possibile rischio di suicidio a cui segue una prima indicazione di terapia, che sarà poi valutata da uno dei cinque psichiatri che si alternano in carcere.

La prevenzione dei suicidi dovrebbe essere fatta costantemente durante la detenzione, attraverso l’osservazione dei segnali di rischio. «Siamo rimasti in quattro e con così tante persone da assistere è impossibile fare prevenzione», continua Astesano. «Non riusciamo a far fronte alla domanda di assistenza psicologica, che è enorme. Siamo in totale emergenza e per di più lavoriamo in un clima di intimidazione pesante».

Antonella Calcaterra, esperta di diritto penitenziario e della gestione dei pazienti psichiatrici in carcere, usa l’aggettivo “paralizzata” per definire la situazione dell’assistenza psicologica a San Vittore. «Dopo un’inchiesta che è entrata in modo così deciso nel merito dell’assistenza, molti operatori si chiedono cosa possono fare e cosa no», dice Calcaterra. «Già in condizioni normali ci sarebbe stato bisogno di aumentare gli interventi sanitari e psichiatrici, che invece sono diminuiti».

Secondo i dati del ministero della Giustizia aggiornati al 29 febbraio, a San Vittore sono detenute 1.146 persone, il 151 per cento della capienza consentita che è di 754 persone. Oltre 200 hanno avuto una diagnosi di disturbi psichici, mentre moltissimi altri hanno problemi di salute mentale dovuti ai loro trascorsi: dipendenza da sostanze stupefacenti, percorsi migratori traumatici, situazioni familiari compromesse, periodi passati per strada. «La situazione è grave anche perché il numero degli operatori sanitari viene stabilito sulla base della capienza regolamentare, non del numero di detenuti effettivi: lo denuncio da anni», dice Francesco Maisto, garante dei detenuti del comune di Milano. «L’inchiesta ha alterato l’ambiente e ha un impatto notevole. Gli operatori si chiedono in continuazione se le loro azioni siano legittime. Nella paura di poter far qualcosa di sbagliato limitano il loro lavoro. Le conseguenze le pagano i detenuti: c’è il rischio di sottovalutare i problemi psichiatrici».

Dall’inizio dell’anno il tribunale di sorveglianza di Milano ha ricevuto 555 ricorsi contro «trattamenti inumani e degradanti» presentati dai detenuti di tutte le carceri della Lombardia, compreso San Vittore. In tutti i dodici mesi del 2023 erano stati 477. Molti di questi ricorsi sono conseguenza delle nuove regole che hanno limitato la cosiddetta custodia aperta, cioè la possibilità per i detenuti di muoversi all’interno della sezione – tra i corridoi, nelle altre celle e nelle sale di socialità, dove ci sono – per più di otto ore al giorno.

In seguito alla circolare firmata nel 2022 dall’allora capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP) Carlo Renoldi, questa possibilità è stata fortemente limitata: dall’ottobre scorso, quando la circolare è diventata operativa, le celle sono molto più chiuse rispetto agli ultimi anni e i detenuti hanno meno possibilità di muoversi. Quando i ricorsi vengono accolti, cioè nella maggior parte dei casi, i detenuti hanno diritto a ottenere una riduzione della pena da scontare pari a un giorno per ogni dieci di detenzione. Se nel frattempo i detenuti hanno scontato la pena hanno diritto a un risarcimento di 8 euro per ogni giorno di detenzione in condizioni degradanti.

La chiusura delle celle e la convivenza in spazi stretti hanno conseguenze sulla salute mentale dei detenuti, con prevedibili rischi anche per la sicurezza. «La più grande casa circondariale della Lombardia si trova scoperta sull’assistenza psicologica nel momento in cui ha la popolazione più fragile di tutta la sua storia, in una situazione di sovraffollamento, dopo molti suicidi compiuti negli ultimi anni», dice Valeria Verdolini, presidente della sezione lombarda dell’associazione Antigone, che si occupa della tutela delle persone detenute.

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In questo momento San Vittore è il carcere dove l’assistenza psicologica è più carente, ma anche nelle altre strutture italiane la tutela della salute mentale dei detenuti ha i suoi problemi e in alcuni casi è piuttosto scarsa. Secondo i dati diffusi da Antigone, nel 2022 nelle carceri italiane il 9,2 per cento dei detenuti aveva una diagnosi psichiatrica grave. Il 20 per cento dei detenuti assumeva stabilizzanti dell’umore, antipsicotici o antidepressivi, e il 40,3 per cento sedativi o ipnotici. Le ore di servizio degli psichiatri erano in media 8,75 ogni 100 detenuti, quelle degli psicologi 18,5 ogni 100 detenuti. Solo 247 persone – 232 uomini e 15 donne – erano ospitate nelle ATSM (Articolazione per la tutela della salute mentale), sezioni del carcere pensate per accogliere pazienti con problemi psichici.

Dall’inizio dell’anno in Italia 28 persone si sono suicidate in carcere. Altre 38 sono morte per altre cause: malattia, overdose, omicidio. In tutto il 2023 si erano suicidate 69 persone e ne erano morte 88 per altre cause.

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Dove chiedere aiuto
Se sei in una situazione di emergenza, chiama il numero 112. Se tu o qualcuno che conosci ha dei pensieri suicidi, puoi chiamare il Telefono Amico allo 02 2327 2327 oppure via internet da qui, tutti i giorni dalle 10 alle 24.
Puoi anche chiamare l’associazione Samaritans al numero 06 77208977, tutti i giorni dalle 13 alle 22.