Il caso di Alessia Pifferi, dall’inizio

Il processo contro la donna accusata di aver lasciato morire di stenti la figlia nel 2022 si sta complicando per una perizia psichiatrica e per un «contrasto insanabile» tra i pubblici ministeri

Alessia Pifferi durante il processo: è accusata di aver lasciato morire di stenti la figlia di 18 mesi
Alessia Pifferi durante il processo: è accusata di aver lasciato morire di stenti la figlia di 18 mesi (Claudio Furlan/LaPresse)
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Lunedì 4 marzo è prevista una nuova udienza del processo nei confronti di Alessia Pifferi, 39 anni, accusata di aver lasciato morire di stenti la figlia di 18 mesi nel luglio del 2022. In aula si discuterà dei risultati della perizia psichiatrica commissionata dalla Corte d’Assise di Milano dopo la richiesta presentata dalla difesa della donna. Anche se all’apparenza non è un processo complesso, negli ultimi mesi il confronto tra accusa e difesa si è fatto più teso e intricato: la procura infatti ha aperto un’indagine parallela che ha coinvolto due psicologhe del carcere di San Vittore, dove Pifferi è detenuta, e l’avvocata della donna, Alessia Pontenani. È una situazione anomala, che rischia di influenzare anche il processo principale.

Alessia Pifferi abitava a Milano in via Carlo Parea, nella zona di Ponte Lambro, un quartiere vicino all’aeroporto di Linate, nella zona sud-orientale della città. Giovedì 14 luglio uscì di casa poco prima delle 18 per raggiungere il compagno nella sua casa di Leffe, un comune in provincia di Bergamo. Lasciò a casa la figlia di 18 mesi da sola, senza avvertire nessuno. Pifferi raccontò al compagno che la bambina era al mare con la sorella. Ai magistrati disse che pensava di tornare a casa il giorno dopo, invece rimase quasi una settimana lontano da casa. Tornò soltanto mercoledì 20 luglio, poco dopo le 10 di mattina.

Come raccontò durante un’udienza, Pifferi disse di essersi subito accorta che la figlia non si muoveva. Tentò di rianimarla con il massaggio cardiaco, la portò in bagno per bagnarle i piedi, la faccia e la testa nel tentativo di farla rinvenire. Poi la mise nel lettino, le spruzzò dell’acqua in bocca. Solo allora si rese davvero conto che la bambina era morta, uscì di casa e chiese aiuto a una vicina che chiamò i soccorsi.

Pifferi è accusata di omidicio volontario pluriaggravato: significa che le sono contestate diverse aggravanti come la premeditazione, l’aver agito in ambito famigliare e per motivi «futili e abietti». È un reato per cui – in caso di condanna – è prevista la pena massima dell’ergastolo.

L’autopsia sul corpo di Diana Pifferi confermò che la bambina morì per la disidratazione. Inizialmente i consulenti della procura dissero, sulla base dell’esame del capello, che alla bambina erano state somministrate benzodiazepine, cioè psicofarmaci che normalmente vengono usati per gestire gli stati di ansia, per controllare le convulsioni e come sedativi. L’accusa ipotizzò che la bambina fosse stata indotta dai farmaci in una sorta di torpore per evitare che chiedesse aiuto piangendo. Sul comodino del letto dove fu trovata c’era una boccetta di En, un medicinale che contiene delorazepam, un principio attivo che appartiene al gruppo delle benzodiazepine.

Tuttavia gli esami fatti durante il cosiddetto incidente probatorio, cioè il procedimento con cui si anticipa e si acquisisce la formazione di una prova emersa durante le indagini prima del processo vero e proprio, rivelarono che nella bottiglietta d’acqua e nel biberon lasciato a Diana Pifferi non c’erano «composti di interesse tossicologico». L’esame del capello della consulenza iniziale aveva individuato solo una potenziale contaminazione dovuta ai prodotti utilizzati dalla madre.

Alessia Pifferi aveva sempre negato di aver somministrato sostanze alla figlia, salvo il paracetamolo (il principio attivo della tachipirina). Gli avvocati di Pifferi sostengono che «l’assenza di benzodiazepine nel biberon e nella bottiglietta dimostra che Alessia è sempre stata genuina nel suo racconto e, sul piano giuridico, che la premeditazione manca di elementi concreti».

Lo scorso settembre, durante un’udienza, Alessia Pifferi ha raccontato che la figlia nacque all’improvviso il 29 gennaio del 2021 nel bagno della casa del compagno, in provincia di Bergamo. Pifferi ha detto che non sapeva di essere incinta. La bambina, nata prematura, fu ricoverata per un mese e mezzo all’ospedale Papa Giovanni di Bergamo. «Non sapevo chi fosse il padre, ancora oggi non so chi sia», ha detto Pifferi, secondo cui per il nuovo compagno la bambina «era un intralcio: diceva che le voleva bene ma non era vero». Durante il primo interrogatorio aveva detto ai magistrati che le era già capitato di lasciare a casa la bambina da sola per tutto il fine settimana, dal venerdì al lunedì. Un’amica ha raccontato agli investigatori che una sera si fermò a dormire insieme ad Alessia Pifferi a casa del compagno: «Alessia aveva tenuto Diana nel passeggino. Non l’aveva portata a letto con lei, ma l’ha lasciata lì tutta la notte», ha detto.

Nell’ultimo anno il giudice per le indagini preliminari (gip) aveva respinto per due volte la richiesta di una consulenza neuroscientifica presentata dalla difesa, cioè di un esame per accertare se Alessia Pifferi fosse capace di intendere e di volere e quindi processabile.

La terza richiesta è stata presentata dalla nuova avvocata della donna, Alessia Pontenani, sulla base di una consulenza di parte. La consulenza era basata anche sulle osservazioni di due psicologhe del carcere di San Vittore, che tra le altre cose avevano riconosciuto in Pifferi una «scarsa comprensione delle relazioni di causa ed effetto e delle conseguenze delle proprie azioni». Le psicologhe erano arrivate a questa conclusione grazie al cosiddetto test di WAIS (Wechsler adult intelligence scale) che permette di calcolare il quoziente intellettivo.

Secondo le relazioni delle due psicologhe Pifferi avrebbe un quoziente intellettivo molto basso, di 40 punti, che non le consentirebbe di accorgersi della sofferenza né di collocare nel tempo le conseguenze delle proprie azioni.

Lo scorso ottobre, durante un’udienza del processo, il pubblico ministero Francesco De Tommasi (quindi l’accusa) si è opposto alla richiesta della perizia accusando le due psicologhe di aver manipolato Alessia Pifferi. «A San Vittore è successo un fatto gravissimo: la rivisitazione dei fatti dal punto di vista del personale della struttura carceraria», ha detto De Tommasi. «L’effetto è stato quello di metterle in testa [all’imputata, ndr] di non avere alcun tipo di responsabilità. Alessia Pifferi entra in carcere in una situazione in cui non esistono pregressi psichiatrici di nessuna natura che l’hanno mai riguardata nel corso della sua esistenza. A un certo punto diventa una persona che ha un quoziente intellettivo pari a 40».

Nonostante il parere contrario dell’accusa, lo scorso novembre la Corte d’Assise di Milano ha infine commissionato a un esperto una perizia psichiatrica che è stata consegnata alla fine di febbraio. La perizia psichiatrica fatta da Elvezio Pirfo, perito del tribunale, ha accertato che il complicato quadro psichiatrico «non è tale da far scemare in maniera significativa la capacità di intendere e volere né da minarne la capacità di stare consapevolmente in giudizio»: insomma, secondo il perito Pifferi sarebbe capace di intendere e di volere. Durante l’udienza di lunedì 4 marzo si discuterà nel merito di questa perizia.

Le consulenze psichiatriche sono anche al centro di un procedimento parallelo aperto dal pubblico ministero Francesco De Tommasi, che rappresenta l’accusa nel processo principale.

De Tommasi ha chiesto e ottenuto dal giudice per le indagini preliminari (gip) Fabrizio Filice di intercettare per due mesi le conversazioni in carcere tra Pifferi e le psicologhe, indagate per falso ideologico insieme all’avvocata Alessia Pontenani. Secondo De Tommasi l’assistenza psicologica nei confronti della donna era ingiustificata e sarebbe stata «una vera e propria attività di consulenza difensiva volta esclusivamente a creare, mediante false attestazioni circa lo stato mentale della detenuta e l’andamento e i contenuti dei colloqui, le condizioni per tentare di giustificare la somministrazione del test psicodiagnostico».

Rosaria Stagnaro, la pubblico ministero che insieme a De Tommasi era titolare del processo principale contro Pifferi, ha scoperto dell’indagine parallela soltanto a gennaio, quando la notizia è stata pubblicata da diversi quotidiani. Anche le due procuratrici aggiunte – Alessandra Dolci della Direzione distrettuale antimafia di cui fa parte De Tommasi e Letizia Mannella – non erano state informate dell’indagine. Stagnaro ha poi fatto richiesta di rinuncia al caso Pifferi perché era stata tenuta all’oscuro dell’iniziativa del collega: chiedere la rinuncia in un processo già così avviato è assai inusuale per un pubblico ministero. Il procuratore Marcello Viola ha autorizzato la rinuncia per “contrasto insanabile” tra i due pubblici ministeri.

L’iniziativa del pubblico ministero De Tommasi è stata molto criticata dalla camera penale di Milano, l’associazione degli avvocati penalisti che discute con la magistratura e con altre istituzioni dei problemi della giustizia. Proprio per il 4 marzo, la camera penale ha annunciato una giornata di astensione dall’attività giudiziaria, che anche se non è un vero e proprio sciopero produce effetti simili: avvocati e avvocate non lavoreranno per protesta. L’unica eccezione riguarda i processi con detenuti, come quello in cui è coinvolta Alessia Pifferi, che si terranno regolarmente.

Secondo la camera penale l’indagine parallela vìola diverse norme e avrà conseguenze che vanno oltre il caso in questione perché non solo compromette l’assistenza alle persone detenute, ma è un attacco diretto e illegittimo al ruolo della difesa. La camera penale ha approvato una delibera per chiedere al procuratore Viola di riassegnare ad altri pubblici ministeri sia il processo in corso, sia l’indagine parallela.