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  • Giovedì 28 marzo 2024

Storia di Valentino

Da dove viene il marchio di moda italiano noto in tutto il mondo e di cui si parla molto negli ultimi giorni

di Arianna Cavallo

Valentino dopo la sfilata Haute Couture Spring-Summer 2008 a Parigi (AP Photo/Jacques Brinon)
Valentino dopo la sfilata Haute Couture Spring-Summer 2008 a Parigi (AP Photo/Jacques Brinon)
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Negli ultimi giorni si sta parlando molto dell’azienda di moda italiana Valentino che, nel giro di una settimana, ha sostituito il suo apprezzato direttore creativo Pierpaolo Piccioli con Alessandro Michele, altrettanto apprezzato ex direttore creativo di Gucci, che entrerà in carica il 2 aprile. Michele ha detto di ammirare la storia e lo stile fatto di «ricercatezza ed estrema grazia» del marchio e di volergli «rendere omaggio» «attraverso la mia visione creativa». L’operazione è decisamente riuscita a Piccioli, a detta dello stesso fondatore dell’azienda, Valentino Garavani: «sei l’unico designer che conosco che non ha provato a distorcere i codici di un grande marchio imponendone degli altri e la megalomania di un ego ridicolo».

Piccioli, ovviamente, ha cambiato e aggiornato lo stile di Valentino ma ha mantenuto alcune delle caratteristiche per cui il marchio è sempre stato famoso: l’eleganza, il glamour, la centralità della haute couture (l’alta moda, cioè i vestiti fatti su misura, caratterizzati da materiali preziosi e lavorazioni di alto artigianato) e la vicinanza con il mondo favoloso delle celebrità. Con lui l’azienda ha conosciuto un secondo periodo di rilevanza culturale e di successo economico, dopo i 45 anni in cui venne guidata da Garavani: stando a dati del 2022, Valentino gestiva direttamente 211 negozi in più di 25 paesi, con ricavi di 1,4 miliardi di euro e un margine di ricavo di 350 milioni di euro.

Per capire come abbia fatto Valentino a restare significativa in tutto il mondo per più di 60 anni è importante conoscere la storia del suo fondatore, che l’ha modellata sul suo gusto e sulla sua personalità.

Valentino Clemente Ludovico Garavani nacque a Voghera, in provincia di Pavia, l’11 maggio del 1932; suo padre Mauro commerciava articoli elettrici all’ingrosso, garantendo così una certa agiatezza alla moglie Teresa, alla figlia Wanda e al secondogenito, che aveva lo stesso nome del nonno paterno.

Garavani si interessò alla moda fin da piccolo, seguì un corso da figurinista a Milano, imparò il francese e a 17 anni si trasferì a Parigi per studiare all’École des Beaux-Arts e alla Chambre Syndicale de la Couture Parisienne. Anni dopo lui stesso raccontò che i «miei concorrenti erano due ragazzini sconosciuti come me: Yves Saint-Laurent e Karl Lagerfeld», che una volta usciti dalla scuola vennero mandati a fare gli apprendisti da Dior e Balmain, mentre Garavani finì nell’azienda di alta moda Jacques Dessès, dove rimase per cinque anni; poi per altri due lavorò da Guy Laroche, l’atelier aperto da uno degli stilisti di Dessès. Nel 1959 tornò in Italia per aprire un’attività in proprio.

Grazie all’aiuto finanziario del padre e di un amico di lui, aprì un atelier in via Condotti, a Roma, e realizzò la sua prima collezione, in cui era già presente quello che sarebbe diventato il suo prodotto più iconico: il vestito rosso. Lo chiamò “Fiesta”, era in tulle rosso brillante, senza spalline e di media lunghezza, e molti anni dopo, nel 2004, venne indossato dall’attrice Jennifer Aniston alla prima del film …e alla fine arriva Polly.

“Fiesta”, il primo abito rosso disegnato da Valentino Garavani per Valentino nel 1959, in mostra alla Somerset House, Londra, Regno Unito, novembre 2012 (Peter Macdiarmid/Getty Images for Somerset House)

Da allora ogni collezione di Valentino disegnata da Garavani aveva almeno un abito rosso, una sfumatura che è stata persino registrata dalla famosa azienda statunitense Pantone (il Pantone 2035 UP).

Garavani ha raccontato più volte che la fascinazione per gli abiti rossi risale a quando, da ragazzo, andò una sera all’Opera a Barcellona e intravide tra gli spalti una donna dai capelli grigi che indossava un abito in velluto rosso: sembrava «unica, isolata nel suo splendore», disse a Vogue. E aggiunse, in un’altra intervista, che il rosso «è il mio portafortuna. Una donna vestita di rosso non sbaglia mai: è un colore che dona, sta bene a tutte. […] Penso che una donna vestita di rosso, soprattutto di sera, sia meravigliosa. È, tra la folla, la perfetta immagine dell’eroina».

Gli abiti di quella collezione, però, erano molto costosi e difficili da vendere e l’azienda rischiò la bancarotta quando il socio di suo padre ritirò il suo appoggio. Quella fu la prima e ultima volta che l’azienda si trovò in difficoltà economiche, e parte del merito del successo va alla persona che da lì a poco sarebbe diventato il suo socio in affari e, per alcuni anni, il suo compagno di vita: Giancarlo Giammetti.

Giammetti era romano, studiava architettura e aveva sei anni in meno di Garavani. Si incontrarono il 31 luglio del 1960 al Café de Paris in via Veneto, il centro della vita mondana romana: Garavani era lì con degli amici, Giammetti era a un tavolo da solo e, visto che il locale era affollato, gli chiesero di sedersi con lui. Pochi giorni dopo si incontrarono di nuovo a Capri e iniziarono a frequentarsi.

Valentino Garavani e Giancarlo Giammetti a una partita di polo in Connecticut, Stati Uniti, settembre 2011 (Chelsea Lauren/Getty Images for Starwood)

Giammetti si interessò al lavoro di Garavani finché decisero di fondare una nuova azienda insieme, Maison Valentino: Giammetti si sarebbe occupato di tutti gli aspetti pratici e commerciali, permettendo a Garavani di concentrarsi esclusivamente sulla parte creativa. Come hanno raccontato in molti, negli anni Giammetti ha costruito una sorta di scudo protettivo attorno Garavani, oltre il quale entravano soltanto alcune persone selezionate e amici leali. «Non faccio caso a questa vita. Mi sono sempre rinchiuso nel mio studio – raccontò Garavani a Vanity Fair nel 2004 – Sono molto grato a Giancarlo, perché mi nasconde le cose per mantenermi di buon umore. Io so fare solo tre cose: disegnare un vestito, decorare una casa, intrattenere le persone».

La fama di Valentino iniziò a diffondersi a Roma e un giorno del 1961 entrò nel suo negozio l’attrice statunitense Liz Taylor, che si trovava in città per le riprese del film Cleopatra. Comprò un vestito bianco – il più costoso di tutti, raccontò Garavani – per la prima del film Spartacus: le foto fecero il giro del mondo e il giovane stilista si fece conoscere anche tra le celebrità, molte delle quali, in quegli anni, erano di passaggio a Roma per girare film o per godersi un pezzo della cosiddetta Dolce Vita.

Liz Taylor, con un abito di Valentino, balla con Kirk Douglas alla prima del film Spartacus a Roma (Keystone/Getty Images)

Nel 1962 venne presentata la prima sfilata di haute couture, a palazzo Pitti a Firenze, allora il centro della moda italiana. Tra il pubblico c’erano soprattutto buyers stranieri (cioè le persone che scelgono quali vestiti comprare per rivenderli nei negozi) incuriositi dal giovane stilista di cui si parlava e non vennero delusi: tutti vollero comprare gli eleganti abiti da sera e i vestiti stretti in vita, con le spalle larghe e la gonna a tubino, e Giammetti passò la notte a prendere ordini. Come disse l’allora critica di moda del New York Times: «per loro Valentino fu un’enorme scoperta. L’ampia copertura che la stampa diede alle sue sfilate portò il suo nome sullo stesso piano delle figure della couture».

Nel 1964 la collezione di haute couture fu presentata a New York e una cliente fece a Garavani «il più grande regalo della mia vita», come disse lui: Jacqueline Kennedy, rimasta vedova l’anno prima, comprò sei vestiti in bianco e nero, da indossare durante quell’anno di lutto dopo l’assassinio del marito John Fitzgerald Kennedy. I due diventarono amici, per anni lei si vestì quasi solo in Valentino, compreso l’abito in pizzo color avorio per il secondo matrimonio con l’imprenditore greco Aristotele Onassis, nel 1968. Allora in tanti telefonarono a Garavani per chiedergli se l’abito fosse suo, e lui si rese conto che lei l’aveva semplicemente tirato fuori dal suo armadio, scegliendolo tra quelli che aveva già comprato.

Jacqueline Kennedy con un vestito di Valentino per il suo secondo matrimonio, con l’imprenditore greco Aristotele Onassis, Skorpios, Grecia, 20 ottobre 1968 (AP Photo/Jim Pringle)

L’abito proveniva da una delle collezioni più famose di Valentino, presentata a Roma (dove aveva ripreso a sfilare dal 1966) nel 1968: comprendeva solo abiti bianchi, avorio e beige, in controtendenza con le stampe psichedeliche e i colori accesi dell’epoca. Come ricorda Consuelo Crespi, corrispondente per Vogue America da Roma negli anni Sessanta: «fu sensazionale, utilizzava tessuti che costavano 2.000 dollari al metro. Tutti in bianco». Quella sfilata, ricorda lo stesso Garavani, «mi portò all’apice». Sempre nel 1969 presentò anche il famoso logo con le iniziali, mentre nel 1969 aprì il primo negozio a Milano e l’anno successivo a New York e Roma.

Alcuni abiti della collezione di soli abiti bianchi, tra cui quello indossato da Jacqueline Kennedy Onassis per il suo secondo matrimonio, in mostra a Londra, 28 novembre 2012 (Peter Macdiarmid/Getty Images for Somerset House)

La clientela di Valentino, intanto, si andava definendo: erano donne dell’alta società, aristocratiche, star di Hollywood come Audrey Hepburn e Jacqueline Kennedy, principesse del mondo arabo come Farah Diba (che scappò dalla Persia con un cappotto bordato di ermellino di Valentino), gente che si cambiava anche tre o quattro volte al giorno per prendere un cocktail o andare alle feste.

Negli anni Settanta e Ottanta l’azienda si aprì alle masse: nel 1970 uscì la prima linea prêt-à-porter (cioè i vestiti, confezionati, che si trovano nei negozi), nel 1978 il primo profumo, Valentino, nel 1979 la prima linea in denim chiamata Valentino Viva e poi Valentino Jeans, nel 1986 la linea giovanile Oliver by Valentino, che prendeva il nome dal cane carlino di Garavani, Oliver. Intanto un ritratto di Garavani realizzato nel 1971 dall’artista statunitense Andy Warhol sancì anche la sua fama di icona pop.

La modella Naomi Campbell con un vestito della linea Oliver di Valentino, ottobre 1993 (Reuters – Eric Gaillard)

Giammetti fu tra i primi nel mondo della moda a intravedere le potenzialità economiche delle licenze, cioè la pratica di concedere l’utilizzo del marchio sugli accessori più disparati, prodotti da altri in cambio di soldi. Come ha confermato lo stesso Giammetti a Matt Tyrnauer di Vanity Fair, le licenze valsero «milioni», in Giappone c’erano persino delle tavolette per il water con sopra il logo che però «non distrussero il nome di Valentino», che restò sempre legato all’idea di raffinatezza e buon gusto. A fine anni Ottanta le licenze erano 50 ma dopo una riorganizzazione aziendale negli anni Novanta si ridussero a tre: per i profumi, gli occhiali da sole e i jeans.

Vista la natura degli abiti, i red carpet sono sempre stati tra i momenti di maggiore visibilità per Valentino. Per esempio nel 1981 l’attrice Jane Fonda ritirò il premio Oscar per il miglior attore protagonista al posto del padre Henry con un vestito di haute couture, precedentemente indossato dalla modella e attrice Brooke Shields e l’attrice Jessica Lange era in Valentino quando ricevette l’Oscar per migliore attrice non protagonista per Tootsie, nel 1983. Agli Oscar indossarono Valentino anche le attrici Mercedes Ruehl, Elizabeth Taylor, Susan Sarandon, Jennifer Garner, Nicole Kidman, Kate Winslet. Nel 1991 Sophia Loren ritirò il premio alla carriera in Valentino e nel 2001 Julia Roberts vinse un Oscar indossando un vestito d’archivio di Valentino del 1992.

Julia Roberts vince l’Oscar indossando un abito di Valentino del 1992, Los Angeles, 25 marzo 2001 (Kevin Winter/Getty Images)

Nel 2011 lo stesso Garavani accompagnò agli Oscar l’attrice Anne Hathaway, che lui considerava «come una figlia» e che indossava un suo vestito del 2002.

Anne Hathaway e Valentino Garavani agli Oscar, Hollywood, 27 febbraio 2011 (John Shearer/Getty Images)

Nel 1998 Valentino e Giammetti vendettero l’azienda per circa 300 milioni di dollari al gruppo HdP, controllato in parte da Gianni Agnelli; poi nel 2002 Valentino S.p.A., che aveva ricavi per 180 milioni di dollari, fu venduta al gruppo Marzotto Apparel per 210 milioni di dollari. Pare che Agnelli fosse scontento dello stile di vita a dir poco dispendioso di Garavani e Giammetti e che per questo decise di venderla. Per dare un’idea, Trynauer raccontò nel 2004 che per prendere un aereo si spostavano con tre corriere: «una per Valentino, Giammetti e lo staff, una per le valigie e la terza per trasportare cinque dei sei carlini di Valentino: Milton, Maude, Monty, Margot, e Molly». All’epoca quasi 50 persone erano occupate nella manutenzione dello yacht da 46 metri e nelle 5 case di Garavani: una villa a Roma, una casa a Londra, lo chalet Gifferhorn a Gstaad, un castello alla Luigi XIII vicino a Parigi e un appartamento a Manhattan».

Nel 2006 il presidente francese Jacques Chirac consegnò a Garavani la Legion d’onore, il più alto riconoscimento francese, e a luglio si festeggiarono i 45 anni dell’azienda con una sfilata a Roma e l’inaugurazione di una mostra all’Ara Pacis, seguita da una cena al tempio di Venere. Quell’anno Garavani disse che a gennaio 2007 avrebbe lasciato la direzione creativa dell’azienda e il suo posto fu preso da Alessandra Facchinetti, che prima lavorava da Gucci. L’ultima sfilata di Garavani si tenne nel gennaio del 2008 nel Museo Rodin di Parigi: presentava la collezione haute couture per la primavera/estate 2008 e tutte le modelle indossavano un abito rosso. In quello stesso anno uscì il documentario Valentino: The Last Emperor, girato dal già citato Matt Tyrnauer tra giugno 2005 e luglio 2007: raccontava l’ultimo periodo della sua carriera in modo fresco e senza troppi filtri ed è tuttora considerato uno dei migliori documentari dedicati alla moda.

Dopo aver disegnato due stagioni, Facchinetti venne sostituita da Maria Grazia Chiuri e Pierpaolo Piccioli. I due si erano conosciuti nell’azienda romana Fendi ed erano passati a Valentino per disegnare insieme gli accessori e poi la linea giovanile RED, aperta nel 2003. Con la prima collezione dell’autunno/inverno 2010 presentarono il prodotto dal più grande successo commerciale della storia recente del marchio: la scarpa Rockstud, impreziosita da borchie quadrate e appuntite. Sei anni dopo seguì la borsa, la Rockstud Bag, con le stesse borchiette.

Gli attori Ben Stiller e Owen Wilson alla sfilata autunno/inverno 2015/16 di Valentino per promuovere il film Zoolander 2

Nel 2016 Chiuri lasciò Valentino per diventare direttrice creativa di Dior e Piccioli restò da solo alla direzione creativa. In molti si chiedevano se avrebbe retto il ruolo e la prima sfilata, per l’autunno/inverno 2017, non lasciò molti dubbi sul suo talento. Come scrive Booth Moore su WWD, Piccioli «abbandonò molti degli ornamenti eccessivi di quando disegnava con Chiuri e stabilì una semplicità moderna che metteva al centro l’abbigliamento da giorno». Per esempio uno dei «pezzi più memorabili», scrive, era un cappotto rosa con l’orlo tagliato a vivo indossato su morbidi pantaloni in raso rosa e sandali bassi: «una boccata d’aria fresca».

Piccioli ha ravvivato il marchio anche avvicinandosi allo streetwear e facendo sfilare modelle e modelli con le sneakers, pur restando fedele al «design puro e alla bellezza senza sforzo» tipica di Valentino, scrive sempre Moore. In particolare ha promosso«la grandeur nel quotidiano, portando pezzi casual nella couture e un senso di couture nei pezzi casual, per esempio dando a delle semplici camicie bianche con pantaloncini lo stesso glamour che a un abito da sera».

Le sue collezioni sono sempre presentate con sfilate che puntano a emozionare, per esempio attraverso le ambientazioni e le esibizioni dal vivo. Tra le più apprezzate degli ultimi anni ci sono quella interamente dedicata alla camicia bianca nel 2019, quella a Cinecittà nel 2020, quella al Piccolo Teatro di Milano nel 2021 (anziché a Parigi, come fa sempre Valentino, per dare un sostegno agli artisti danneggiati dalla pandemia), quella sulla scalinata di Trinità dei Monti a Roma nel 2022 e quella in cui introdusse il colore “rosa Valentino”.

Un altro punto di forza della Valentino di Piccioli è stata l’importanza data alla diversity, che l’ha posizionata come un’azienda attenta ai valori contemporanei, avvicinandole anche celebrità interessate a promuoverli, come le attrici Zendaya e Florence Pugh, e modelle come Naomi Campbell e Adut Akech, nata in una famiglia di rifugiati in Sud-Sudan.

Zendaya agli Oscar in Valentino, Hollywood, 27 marzo 2022 (Mike Coppola/Getty Images)

Per esempio nella collezione primavera/estate del 2019 Piccioli scelse 43 modelle nere su 65; in quella di haute couture per la primavera 2022 incluse modelle di tutte le taglie e in quella per l’autunno del 2022 diede molto risalto alle modelle di età diverse; tra l’altro fu tra i primi a farlo, facendo sfilare nella haute couture per l’autunno 2019 Lauren Hutton, che all’epoca aveva 75 anni.

La modella Adut Akech alla sfilata haute couture di Valentino primavera/estate 2019, Parigi, 23 gennaio 2019 (Pascal Le Segretain/Getty Images)

Valentino non è ovviamente l’unico marchio a rispecchiare questi valori, ma è tra i pochi a far sembrare questo interesse autentico, anche attraverso la comunicazione, l’immagine di Piccioli e i testimonial con cui collabora.

Lauren Hutton alla sfilata autunno/inverno 2019/20 di Valentino, Parigi, 3 luglio 2019 (Pascal Le Segretain/Getty Images)

L’importanza dei red carpet è continuata anche con Piccioli e i vestiti di Valentino sono sempre presenti al Met Gala (una serata di beneficenza che è l’evento più importante nel mondo della moda), agli Oscar, ai Golden Globes, al festival del cinema di Venezia e al festival di Cannes. Anche qui Piccioli ha dimostrato una notevole sensibilità nel vestire donne non soltanto giovani, bianche, magre e corrispondenti ai canoni estetici dominanti. Tra loro ci sono per esempio l’attrice Frances McDormand al Met Gala del 2018, quando aveva 60 anni (disse che l’abito le piaceva così tanto che ci si sarebbe fatta seppellire insieme) e di nuovo agli Oscar del 2019, e poi ancora Glenn Close, che a 75 anni andò al suo primo Met Gala.

L’attrice Glenn Close e Pierpaolo Piccioli al Met Gala, New York, 2 maggio 2022 (Dimitrios Kambouris/Getty Images for The Met Museum/Vogue)

Piccioli è anche noto per valorizzare il lavoro delle sarte e dei sarti del suo atelier, le cosiddette petites-mains che lo accompagnano spesso in passerella dopo le sfilate di haute couture; la tradizione deriva da Garavani, che diceva che «le mie signore non sono capaci di fare abiti imperfetti. Hanno imparato con me».

Pierpaolo Piccioli con Frances McDormand e Anne Hathaway al Met Gala, New York, 7 maggio 2018 (Jamie McCarthy/Getty Images)

Nel frattempo nel luglio del 2012 Valentino era stata acquisita dalla società di investimento del Qatar Mayhoola, che nel luglio del 2023 ne ha rivenduto il 30 per cento al gruppo di lusso francese Kering, che controlla anche Gucci e Balenciaga; l’acquisizione prevede anche che Kering possa ottenere il pieno controllo del capitale sociale di Valentino entro il 2028.

Il 25 marzo, intanto, Piccioli è stato salutato dallo staff di Valentino in piazza Mignanelli a Roma; era presente anche Giammetti, che lo ha abbracciato.

Dal profilo Instagram di Pierpaolo Piccioli