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  • Venerdì 2 febbraio 2024

H&M non se la passa benissimo

L'amministratrice delegata si è dimessa e le vendite sono sotto le aspettative: c'entra la crisi della “fast fashion” ma anche l'incapacità dell'azienda di riposizionarsi

(AP Photo/Mark Schiefelbein)
(AP Photo/Mark Schiefelbein)

Mercoledì sono stati pubblicati i dati sui risultati economici di H&M, il marchio svedese di abbigliamento “fast fashion” che ha negozi in tutto il mondo. I dati sono stati piuttosto deludenti per il mercato e sono stati annunciati contestualmente alle dimissioni dell’amministratrice delegata Helena Helmersson: l’anno scorso le vendite sono leggermente cresciute ma sono rimaste sotto le aspettative degli analisti; negli ultimi due mesi si sono addirittura ridotte del 4 per cento rispetto a un anno fa.

I risultati deludenti di H&M non sono una novità: nel 2018 ebbe il suo primo momento di crisi delle vendite. Da allora non si è mai ripresa del tutto: in parte a causa della graduale perdita di interesse delle persone per la “fast fashion” (cioè i capi di abbigliamento di tendenza, a basso costo e di scarsa qualità), in parte a causa dell’incapacità di H&M di reinventarsi e riposizionarsi.

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H&M fu fondata nel 1947 in Svezia, quando Erling Persson aprì il suo primo negozio a Västerås. Si chiamava Hennes, che in svedese significa “le cose di lei”, e proponeva abiti economici e alla moda. La “M” del nome di H&M deriva da quello di un rivenditore di abiti da uomo che fu acquisito da Persson nel 1968, Mauritz Widforss. Negli anni successivi Persson aprì negozi anche fuori dalla Svezia: il primo nel 1964 in Norvegia, poi nel 1976 a Londra (il primo a non trovarsi nella penisola scandinava) e nel 2000  negli Stati Uniti. Dal 1974 l’azienda è quotata alla borsa di Amsterdam.

Oggi H&M ha circa 150mila dipendenti in tutto il mondo e possiede vari marchi. Tra gli altri è proprietaria di COS – che propone abbigliamento dalle linee molto basiche, severe e un po’ concettuali, sia per uomini sia per donne – di & Other Stories – che ha un gusto un po’ più eccentrico – e di ARKET, dal taglio più classico. La linea comune tra i vari brand del gruppo è legata ai prezzi piuttosto bassi: sebbene con alcune differenze sono tutti marchi di “fast fashion”.

Nata negli anni Novanta, la “fast fashion” si riferisce in generale al modello di business che converte rapidamente design e tendenze in capi di abbigliamento economici e facilmente reperibili, con un flusso continuo e costante di nuovi pezzi sul mercato.

Questo modello ha il merito di aver reso la moda più accessibile, ma è anche accusato di aver promosso nel tempo il consumo eccessivo dei capi di abbigliamento, causando notevoli sprechi: secondo uno studio della Fondazione Ellen MacArthur, che si occupa di analisi di economia circolare, la produzione di vestiti è raddoppiata tra il 2000 e il 2015. Contemporaneamente è diminuito del 36 per cento il numero di volte in cui un capo è stato indossato prima di essere buttato via, magari finendo per essere gettato in una grande discarica in un paese in via di sviluppo.

L’altra critica rivolta alle aziende della “fast fashion” riguarda la sostenibilità delle filiere, ossia di tutto il processo di produzione dal filato al capo finito: molte appaltano parte della produzione ad altre società che fabbricano tessuti o indumenti in paesi dove la manodopera costa pochissimo e le condizioni di sicurezza dei lavoratori non vengono rispettate.

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Da qualche anno, e soprattutto dalla pandemia in poi, le persone si sono disaffezionate alle catene di “fast fashion”, interessandosi invece a temi come la sostenibilità e il rispetto della filiere e avvicinandosi al lusso e al vintage. Questo ha avuto conseguenze non solo su H&M, ma anche sui suoi competitor come Zara e – con alcune differenze – Shein, il marchio cinese di abbigliamento a prezzi bassissimi accusato di incentivare lo shopping sfrenato e la moda a breve termine, con un impatto ambientale presumibilmente enorme.

Nel rapporto annuale del 2021 H&M per la prima volta aveva fatto riferimento al fatto che ci sarebbe potuto essere un impatto negativo sui suoi risultati se i consumatori avessero iniziato a preferire sempre più «prodotti e servizi a basso impatto climatico di aziende di cui si fidano e considerate leader nella sostenibilità». Da anni H&M cerca di limitare il rischio reputazionale di essere un’azienda di “fast fashion” con iniziative volte per esempio al riciclo dei capi nei suoi negozi.

Al di là delle tendenze generali di mercato H&M risente però anche di alcune dinamiche tutte sue. Secondo il sito specialistico Business of Fashion l’azienda, che pur è stata tra le protagoniste della nascita della “fast fashion”, non è stata capace di adattarsi ai cambiamenti del mercato. Un analista citato da Business of Fashion ha detto che il problema di H&M risiede nel fatto che ha «i prodotti sbagliati a prezzi sbagliati nei canali di vendita sbagliati».

Sul prodotto ha subìto molto la concorrenza di Zara, che ha conquistato la parte alta del mercato della moda a basso prezzo, e sui prezzi quella di Shein, che ha invece conquistato la parte bassa, in cui si vendono capi anche a pochi euro. H&M è rimasta a metà strada: non può contare su una qualità migliore dei suoi prodotti, come Zara, e non può contare sui prezzi bassissimi, come Shein. In più H&M aveva molti più negozi rispetto ai marchi concorrenti e rispetto a quanto riusciva davvero a vendere: per questo ne ha chiusi molti negli ultimi anni.