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  • Venerdì 2 febbraio 2024

Negli Stati Uniti un giornalista è diventato parte della storia che raccontava

E questo ha posto una serie di questioni etiche e di credibilità al suo giornale, il Boston Globe

Lynda Bluestein (AP Photo/Rodrique Ngowi, File)
Lynda Bluestein (AP Photo/Rodrique Ngowi, File)
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Negli Stati Uniti un articolo pubblicato la settimana scorsa dal Boston Globe, lo storico quotidiano di Boston, ha fatto nascere tra esperti e testate del settore un peculiare dibattito sull’etica giornalistica. L’articolo riguarda il suicidio assistito di una donna del Connecticut, Lynda Bluestein, che a causa dei divieti in vigore nel suo stato ha dovuto trasferirsi nel Vermont, dove la pratica è consentita. La storia è particolare e rappresentativa, ma l’articolo è stato discusso anche perché l’autore, il giornalista Kevin Cullen, ha attivamente aiutato Bluestein a ricorrere al suicidio assistito firmando un documento per facilitare la pratica, intervenendo quindi in modo attivo e diretto sulla storia che stava raccontando, influenzandone lo svolgimento e diventando, di fatto, parte della storia che stava scrivendo.

L’articolo è stato ugualmente pubblicato, accompagnato da una nota in cui la direttrice del giornale, Nancy Barnes, ha motivato la decisione pur ammettendo che il comportamento dell’autore è stato inappropriato. Barnes ha spiegato che l’intervento di Cullen ha effettivamente violato gli standard di imparzialità e non interferenza richiesti ai giornalisti del Boston Globe, ma che non è stato tale da influenzare in modo significativo il corso della vicenda, dato che Bluestein avrebbe con tutta probabilità ottenuto quella firma anche da altre persone, determinata com’era a morire nel modo in cui aveva scelto. Per questo, ha aggiunto Barnes, la qualità e accuratezza dell’articolo e l’interesse della storia hanno convinto la redazione a pubblicarla comunque, e a condividere questo aspetto della sua stesura per trasparenza. Non senza criticare la scelta dell’autore.

L’articolo si intitola “Morire alle condizioni di Lynda” ed è stato pubblicato lo scorso 26 gennaio. È un reportage lungo, ricco di dettagli e molto efficace nel tenere insieme i vari aspetti della storia: quelli politici e legali, i divieti sul fine vita e le sue conseguenze, e quelli legati alla vicenda umana e individuale di Bluestein, una donna attiva da anni in associazioni e movimenti impegnati per la libertà di scelta sul fine vita. Il reportage è corredato da un servizio della fotografa Jessica Rinaldi e segue con molta delicatezza tutta la vicenda fino alla fine, agli ultimi gesti e alla morte di Bluestein, avvenuta la mattina del 4 gennaio.

Cullen, l’autore dell’articolo, è un giornalista piuttosto noto e stimato: faceva parte del gruppo di giornalisti del Boston Globe che nel 2003 vinse il Pulitzer per un’inchiesta sugli abusi sessuali nella Chiesa cattolica (era dunque uno dei giornalisti del team Spotlight, reso famoso in tutto il mondo dal film Il caso Spotlight), e di quello che nel 2014 ne vinse un altro per la copertura degli attentati alla maratona di Boston. Cullen era anche già stato oggetto di discussioni sull’etica giornalistica: nel 2018 fu sospeso per tre mesi dal Boston Globe quando si seppe che aveva inventato dei dettagli in alcuni interventi fatti in radio e in pubblico in cui parlava proprio della maratona di Boston.

Cullen aveva seguito la storia di Bluestein per mesi. La donna viveva in Connecticut, stato in cui il ricorso alla morte assistita è vietato: nel 2021 le fu diagnosticato un tumore metastatico e ormai terminale alle ovaie, e decise quindi di ricorrere alla pratica in Vermont. La legge locale permetteva però di accedere all’assistenza sanitaria solo ai residenti: nel 2022 fece quindi una causa al Vermont sostenendo che il divieto di accedere alla morte assistita per i non residenti violasse la Costituzione. Vinta la causa, la scorsa primavera Bluestein aveva infine ottenuto di poter accedere legalmente alla morte assistita in Vermont anche da non residente.

Il documento firmato da Cullen era una dichiarazione che attestava che Bluestein fosse in pieno possesso delle proprie capacità mentali. Era richiesto dalla legge del Vermont, richiedeva due firme e non poteva essere firmato né da familiari né da persone associate alla clinica in cui stava andando Bluestein. Cullen, che seguiva molto da vicino la storia e che il giorno in cui era stata richiesta la firma era con Bluestein, aveva quindi accettato di fare lui stesso da firmatario insieme a un’altra persona.

Nell’articolo questo dettaglio non viene esplicitato e si scrive che la firma è stata fatta da «un columnist del Globe» (“columnist” nei giornali americani è il titolare di una rubrica o di una collaborazione regolare): che quel columnist fosse proprio Cullen viene detto nella nota con cui Barnes, la direttrice del giornale, ha accompagnato la pubblicazione dell’articolo. Barnes ha scritto che Cullen «si è pentito» di aver messo quella firma e che il fatto che quel gesto fosse inteso «principalmente come un gesto di considerazione e cortesia non cambia» il fatto che sia stata una violazione di alcuni princìpi basilari dell’etica giornalistica.

Il problema riguarda il fatto che, intervenendo in modo diretto nella storia che stava raccontando, Cullen ne ha in effetti condizionato lo svolgimento, rendendola meno credibile sul piano giornalistico e indebolendo la sua lettura dei fatti, oltre a influenzare i fatti stessi. Cullen avrebbe dovuto documentare gli sforzi di una malata terminale per morire nel modo in cui aveva scelto, descrivendo nel modo più accurato e preciso possibile tutte le sue difficoltà e facendolo da spettatore esterno e imparziale, per dare un quadro di una condizione reale e indipendente dal suo scriverne o no. Nella situazione in cui si trovava Bluestein, le difficoltà implicavano anche il reperimento di due firmatari che attestassero che era nel pieno possesso delle proprie capacità e che avessero tutti i requisiti richiesti dalla legge del Vermont: agendo da firmatario Cullen ha privato la storia di un elemento, e ne è divenuto personalmente coinvolto.

Secondo Kelly McBride, vicepresidente del Poynter Institute, un centro di istruzione e ricerca che si occupa di giornalismo, l’articolo di Cullen «sarebbe stato molto più ricco se avesse mantenuto le distanze e documentato gli sforzi [di Bluestein] per trovare un firmatario», anche se questo lo avesse messo a disagio. McBride sostiene che la neutralità del giornalista non deve arrivare al punto da trasformarsi in «crudeltà»: ci sono casi in cui un giornalista o una giornalista può sentirsi direttamente coinvolto nelle vicende di cui si occupa e può decidere di aiutare chi ha davanti, per esempio fornendo acqua o cibo a persone in difficoltà: in casi del genere però l’intervento del giornalista o della giornalista non influenza il corso della storia che racconta e il suo significato, come invece è avvenuto nel caso di Cullen.

Secondo McBride infatti in questo caso c’è stato un «conflitto d’interessi»: come giornalista, Cullen aveva tutto l’interesse a far progredire la storia che stava raccontando verso il suo esito finale, cioè il ricorso alla morte assistita in Vermont. Mettendo la firma su quel documento è di fatto intervenuto per indirizzarla in quel senso, esponendosi anche a critiche sulle sue motivazioni personali. Il risultato è stato che, di fatto, Cullen ha indebolito il valore della storia che stava raccontando.

Tom Jones, giornalista del Poynter Report, ha commentato il caso con qualche ulteriore considerazione, soprattutto sul complesso insieme di motivi che potrebbero aver spinto la redazione del Boston Globe a pubblicare comunque l’articolo, oltre a quelli già espressi dalla direttrice Barnes. Anzitutto i tempi: Cullen ha firmato il documento per Bluestein a luglio, e a quanto pare ha informato i caporedattori del suo intervento nella vicenda solo dopo aver consegnato l’articolo, dopo la morte di lei il 4 gennaio. A quel punto il lavoro, durato mesi, era già stato completato: se la redazione fosse stata informata prima, magari avrebbe deciso di interrompere il lavoro e di non pubblicare l’articolo o affidarlo a qualcun altro.

Un’altra ragione per cui il Boston Globe potrebbe aver deciso di pubblicare l’articolo, citata dalla stessa Barnes, riguarda l’ampio accesso che la famiglia di Bluestein aveva dato al giornale al proprio spazio privato, in un momento così complesso e delicato, proprio con l’intento di far raccontare la storia. In un’intervista dello scorso martedì, Barnes ha detto: «Abbiamo considerato il fatto che Lynda e la sua famiglia ci hanno aperto la loro casa, la loro vita, si sono concessi a noi per mesi e mesi e ci hanno dato fiducia permettendoci un accesso [alla vicenda] incredibilmente ampio. Anche questo ha pesato sulla nostra decisione: si è fidata di noi per raccontare la sua storia».