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  • Lunedì 29 gennaio 2024

Uno dei casi editoriali più discussi di sempre

Quando uscì nel 1974 "La Storia" di Elsa Morante fu un bestseller e suscitò grandi dibattiti letterari e politici che durarono mesi

di Ludovica Lugli

Una copia di La Storia di Elsa Morante nell'edizione economica nella collana Gli Struzzi di Einaudi (il Post)
Una copia di La Storia di Elsa Morante nell'edizione economica nella collana Gli Struzzi di Einaudi (il Post)
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La miniserie televisiva La Storia, diretta da Francesca Archibugi e trasmessa nelle ultime settimane da Rai 1, ha fatto crescere le vendite del romanzo di Elsa Morante da cui è tratta: per la seconda settimana di seguito è risultato primo nella classifica dei libri tascabili più venduti. E nei prossimi mesi questo interesse potrebbe continuare, perché il 20 giugno saranno passati cinquant’anni dalla sua pubblicazione, una di quelle ricorrenze che stimolano articoli di giornale e altre forme di commemorazione.

È raro che i romanzi abbiano forte impatto sull’immaginario collettivo, al punto da restare fortemente associati all’anno di uscita come succede con film e canzoni e serie tv, che hanno pubblici più ampi. La Storia è un’eccezione, non solo perché stando ai numeri diffusi dall’editore Einaudi se ne vendettero 600mila copie in soli cinque mesi (per confronto: il libro più venduto del 2023, Spare del principe Harry, ne ha vendute circa la metà in un anno), ma anche perché suscitò un acceso dibattito culturale e politico che per quasi un anno coinvolse critici, giornalisti, scrittori e lettori. Angela Borghesi, studiosa di letteratura e docente dell’Università di Milano Bicocca, ha raccolto in un libro, L’anno della Storia 1974-1975, la stragrande maggioranza degli articoli di giornale che furono dedicati al romanzo in 14 mesi: occupano più di 450 pagine.

Quelle discussioni furono dovute al grande spazio che la critica letteraria aveva sulle numerose testate giornalistiche e riviste di quel periodo e al contesto politico degli anni Settanta. Ma c’entravano anche le ambizioni della Storia, un romanzo di 657 pagine che fin dal titolo dichiara l’intento di parlare dell’intera Storia con la S maiuscola e darne un’interpretazione, e peraltro si rivolgeva esplicitamente a chi di solito non legge libri, dato che è dedicato agli analfabeti. La lettura della realtà del romanzo è molto pessimista e per questo in grande contrasto con le speranze di rivoluzione e progresso sociale di politici e intellettuali di sinistra del tempo, molti dei quali criticarono il romanzo, e probabilmente si sentirono chiamati in causa dalla dichiarazione del romanzo di voler parlare alle persone meno istruite e quindi meno benestanti.

Secondo Borghesi, poi, il dibattito fu legato anche a tre pregiudizi: nei confronti delle donne, nei confronti della narrativa che fa piangere, che all’epoca era considerata frivola per definizione da molti, e nei confronti dei libri che hanno grande successo commerciale, considerato indice di scarsa qualità letteraria.

Elsa Morante durante la cerimonia di assegnazione del Premio Strega, il 4 luglio 1957

Elsa Morante riceve un assegno da un milione di lire da Guido Alberti durante la cerimonia di assegnazione del Premio Strega, il 4 luglio 1957 (Lapresse/Archivio Storico)

La Storia è il terzo dei quattro romanzi di Morante. Il primo, Menzogna e sortilegio, uscì nel 1948. Non ebbe un particolare successo commerciale, ma piacque molto alla critica, e così fece conoscere la sua autrice come scrittrice di grande valore letterario, cioè artistico, e non solo come moglie di Alberto Moravia, uno degli scrittori più celebri di quegli anni, anche se questo aspetto della sua vita privata contribuiva alla sua notorietà: i due furono spesso paragonati ai filosofi francesi Jean-Paul Sartre e Simone De Beauvoir, la più famosa coppia di intellettuali al mondo. Con il suo secondo romanzo, L’isola di Arturo (1957), Morante vinse l’undicesimo premio Strega, il primo assegnato a una donna. La Storia arrivò diciassette anni dopo.

Ambientato in una serie di quartieri popolari di Roma tra il 1941 e il 1947, dunque tra gli anni della Seconda guerra mondiale e l’immediato Dopoguerra, La Storia ha come protagonisti principali la maestra Ida Ramundo e i suoi due figli. Lei è una donna ansiosa e spaventata dal mondo, che negli anni della guerra teme di essere perseguitata perché sua madre era ebrea. Nel 1943 il figlio maggiore, Antonio detto Nino, che ha 17 anni, entra nelle milizie fasciste di volontari per combattere; successivamente diventa partigiano tra le file dei comunisti e, dopo la guerra, si allontana dalla politica e si dedica ad attività illegali come il contrabbando. Il figlio minore, Giuseppe detto Useppe, nasce nel 1941 dallo stupro di Ida compiuto da un giovane soldato tedesco di passaggio a Roma: è un bambino molto precoce per certi aspetti, e in ritardo sui coetanei per altri, allegro, sensibile e affettuoso.

La trama del romanzo è abbastanza semplice, e contiene poche scene d’azione. Poco dopo la partenza di Nino con le Camicie nere, un bombardamento del quartiere San Lorenzo lascia Ida e Useppe senza casa. I due finiscono sfollati a Pietralata, alla periferia della città, dove restano fino al 1944, quando Ida trova una stanza in affitto nel quartiere Testaccio e riprende a insegnare nella Roma occupata dall’esercito nazista.

Gran parte del romanzo racconta le vicende di una serie di personaggi secondari, tra cui una gatta e due cani che hanno dignità di personaggi al pari degli umani. Tutti, come Ida e i suoi figli, hanno una fine drammatica: secondo la concezione di Morante sono vittime della Storia, che come diceva una frase sulla copertina della prima edizione è vista come «uno scandalo che dura da diecimila anni», una sequenza di continue prevaricazioni delle strutture di potere sulle persone. Nonostante questo il romanzo è pieno di scene allegre, per via della gioia di vivere dei personaggi e in particolare di Useppe.

Una pubblicità di La Storia pubblicata sulla Stampa il 6 luglio 1974: recita «Elsa Morante, La Storia. Un grande romanzo, una lettura per tutti. Prima edizione assoluta nella collana economica Gli Struzzi, pp. IV-665, Lire 2000».

Una pubblicità di La Storia pubblicata sulla Stampa il 6 luglio 1974 (Archivio Storico della Stampa)

Il successo commerciale della Storia in ogni caso si deve, oltre che al suo contenuto, anche alla strategia editoriale pensata da Morante, dal suo agente Erich Linder e da Einaudi per proporre il libro.

Innanzitutto per volontà dell’autrice la prima edizione non fu pubblicata con copertina rigida, come si fa normalmente con i libri nuovi, ma nella più economica brossura: essendo un libro di più di 600 pagine avrebbe avuto un prezzo di circa 4.500 lire, equivalenti a 37 euro di oggi, e dunque sarebbe stato poco accessibile proprio per il pubblico a cui voleva rivolgersi. Il 1974 era peraltro iniziato con la cosiddetta austerity, quel periodo di drastiche misure per ridurre i consumi energetici dovuto all’aumento dei prezzi del petrolio e alla conseguente crisi economica che portò l’inflazione al 19,1% e alla prima recessione del Dopoguerra. Così il libro fu stampato nella collana economica Gli Struzzi a un prezzo di 2.000 lire, pari a 16,50 euro di oggi (l’attuale edizione del romanzo, sempre tascabile, costa 17 euro).

Questa scelta venne sfruttata anche in ottica pubblicitaria e per questo era menzionata negli annunci sull’uscita del libro pubblicati sui giornali, che furono un altro strumento importante per la promozione, che fino ad allora era stato usato poco dagli editori. Anche un’altra scelta editoriale strettamente legata a quella sul prezzo venne a sua volta comunicata con fini promozionali, quella sul numero di copie stampate in vista dell’uscita: «Eccezionale è anche la tiratura iniziale decisa dall’editore Giulio Einaudi», diceva un messaggio pubblicato da vari giornali, «centomila copie, e da sola esprime il giudizio qualitativo che ne dà l’editore e la fiducia con la quale la propone ai lettori».

– Leggi anche: Come si spostano 230mila libri nello stesso momento

Centomila copie di un libro sono tantissime anche oggi: sempre per fare un confronto con un libro recente, Mondadori come prima tiratura aveva fatto stampare 125mila copie di Spare all’inizio di quest’anno. In parte questa decisione era dovuta all’interesse dei librai, che ordinarono 80mila copie della Storia, e in parte al costo imposto da Morante al libro: «Con la prima edizione ci ripagheremo sì e no la carta», disse il direttore commerciale di Einaudi Roberto Cerati a Prima Comunicazione.

Infine anche l’immagine scelta per la copertina, cioè una fotografia di Robert Capa che mostra il corpo di un bambino ucciso durante la Guerra civile spagnola, e l’enfatica frase riportata sotto contribuirono al lancio del romanzo, così come la data di uscita, appena prima delle ferie estive, uno dei periodi dell’anno in cui si leggono più libri.

La copertina dell'attuale edizione della Storia: riporta sempre una fotografia in bianco e nero, in questo caso di un bambino vivo seduto sulle rovine di una costruzione

La copertina dell’attuale edizione della Storia; dopo l’edizione negli Struzzi il libro non è più stato ripubblicato con la frase «uno scandalo che dura da diecimila anni» sulla copertina e su quella di oggi c’è la fotografia di un bambino vivo

Ma anche il dibattito che si sviluppò fin dalle prime settimane dall’uscita del romanzo ebbe probabilmente un ruolo nell’influenzare le vendite.

Le iniziali recensioni della Storia furono estremamente positive. Le prime due furono pubblicate dal Corriere della Sera del 30 giugno 1974, erano scritte dai critici Carlo Bo e Cesare Garboli; quest’ultimo paragonava il romanzo a I promessi sposi di Alessandro Manzoni e a Guerra e pace di Lev Tolstoj, due grandi libri dell’Ottocento. Sullo stesso giornale c’era anche un articolo della scrittrice Natalia Ginzburg (come Garboli amica di Morante) che, sebbene dedicato a un altro libro, terminava con una prima impressione su La Storia. Ginzburg arrivò a definirlo «il romanzo più bello di questo secolo», disse che le aveva suscitato «orgoglio di patria», lo paragonò a I fratelli Karamazov di Fëdor Dostoevskij e aggiunse di aver «a lungo pianto» mentre lo leggeva.

Queste parole di Ginzburg furono poi molto citate e canzonate per il loro sentimentalismo dalle successive recensioni negative.

La prima uscì l’11 luglio e fu quella di Enzo Siciliano sul settimanale Il Mondo: lo scrittore criticò la visione della Storia di Morante, a suo dire troppo disfattista e populista. Si espresse negativamente anche su molte scelte stilistiche, tra cui l’uso di gergalismi, dialettismi e soprattutto sui numerosi vezzeggiativi usati per descrivere il mondo di Useppe. Ancora più duro fu l’attacco che venne pubblicato il 18 luglio sul Manifesto e che diede inizio a un dibattito interno al quotidiano comunista, che in precedenza aveva pubblicato una recensione positiva del romanzo.

L’attacco era una lettera firmata dallo scrittore Nanni Balestrini, dalle giornaliste femministe Elisabetta Rasy e Letizia Paolozzi, e da Umberto Silva, regista e membro della commissione cultura del Partito Comunista Italiano (PCI). Paragonarono Morante a Edmondo De Amicis (1846-1908), l’autore del popolare romanzo per ragazzi Cuore, noto per il suo approccio patriottico e moralista e per le storie strappalacrime, attribuendole paternalismo nei confronti dei suoi personaggi.

Di grandi scrittori reazionari corre voce ce ne siano ancora, certo però non pensavamo ci fosse ancora spazio per bamboleggianti nipotini di De Amicis. Se la storia è veramente storia della lotta di classe, come certo pensano quel che non sono uomini tristi o compagni illusi, la Morante proprio non vuol che ce ne si accorga. Nel suo arcipelago di miserabilini (nazistini, bambini, uccellini, fottutini, gattini, anarchicini…) i poveri sono talmente poveri che neppure hanno più il bene dell’intelletto (per fortuna, dicono coloro che per questo li considerano creature poetiche, dalla Ginzburg alla Pagliuca) [Diletta Pagliuca, ex suora condannata per violenze inflitte a bambini con disabilità, ndr].
A noi La Storia non sembra altro che una scontata elegia della rassegnazione, un nuovo discorso delle beatitudini, che l’ideologia della classe sfruttatrice trova del tutto funzionale al proprio attuale progetto economico. Come i discorsi di altri scrittori vendutissimi che propongono un’etica della rinuncia e del sacrificio, che combacia perfettamente con le direttive di Carli-Agnelli-Rumor-La Malfa [ovvero il governatore della Banca d’Italia, il presidente di Confindustria, il presidente del Consiglio e, fino a qualche mese prima, il ministro del Tesoro, ndr].
In questo romanzo anche tutti gli altri meccanismi linguistici e stilistici ci sembrano perfettamente adeguati, nella loro gratificante falsità e maniera, al contenuto consolatorio e all’ostentata mistica della regressione che lo pervade.
La Morante è oltre tutto una mediocre scrittrice, e la sua scrittura non riscatta per niente, anzi conferma pesantemente la sua ideologia.

Balestrini e gli altri criticarono anche lo stile di Morante, che nella Storia rispettò abbastanza le strutture classiche del romanzo: in quegli anni erano contestate dal movimento sperimentale della Neoavanguardia, di cui Balestrini faceva parte – tre anni prima aveva pubblicato Vogliamo tutto, un romanzo sulla vita di un operaio praticamente privo di punteggiatura – e per cui si parlava di “crisi del romanzo”, per come lo si era inteso fino a quel momento. Per ragioni analoghe il critico d’arte e letterario Renato Barilli disse che il libro di Morante era «un passo indietro di cent’anni e più».

Per circa venti giorni il Manifesto pubblicò risposte alla lettera e alle sue repliche. Tra gli altri intervenne la giornalista Grazia Gaspari, che se la prese con i «geometri del marxismo» che «misurano con squadra e righello quanti proletari o sottoproletari ci siano tra i personaggi della Storia o il tasso di marxismo del romanzo in base al quale salvarlo o demolirlo» e «quelli per cui un libro per il semplice fatto di essere scritto in maniera semplice fa schifo». Rossana Rossanda, una dei fondatori del Manifesto, definì Morante «intellettuale che vende disperazione».

Infine Lidia Menapace, partigiana, attivista e collaboratrice del Manifesto, sottolineò che il giornale avrebbe dovuto interessarsi soprattutto all’operazione editoriale legata al libro, cioè al suo aspetto economico e sociologico, perché costruire una nuova cultura non «borghese» richiedeva questo tipo di riflessioni.

Nel suo libro Angela Borghesi mostra bene come all’epoca negli ambienti di sinistra ci si chiedeva «come si giudica un prodotto culturale da parte di chi si fa portavoce di una precisa ideologia» e se fosse «lecito valutarlo da un punto di vista estetico e politico insieme». La Storia, che da molti era letto come romanzo rassegnato nei confronti delle ingiustizie del mondo, si prestava a queste domande, dato che i militanti comunisti ancora credevano in un progetto di rivoluzione politica e sociale.

Nel suo intervento Menapace menzionò anche un sospetto nei confronti della narrativa contenente pathos che era presente anche in altre recensioni: «Se una cosa mi commuove o “prende molto”, diffido». Di questo aspetto della Storia parlò anche Italo Calvino in un’intervista sul romanzo che mostra quanto da allora siano cambiate le tendenze nella narrativa letteraria, dato che oggi si pubblicano molti romanzi che fanno piangere:

Oggi sentiamo che far ridere il lettore, o fargli paura, sono procedimenti letterari onesti; farlo piangere no. Perché nel far piangere ci sono pretese che il far ridere o il far paura non hanno. Cosa fare allora? Guardarsi bene dall’essere “umani” nello scrivere? Siamo in molti ormai a pensarla così; ma non è che aggirare l’ostacolo.

Tra le numerose recensioni negative che cominciarono a essere pubblicate nello stesso periodo anche su altre testate si fece molto notare quella sul Tempo di Pier Paolo Pasolini, che fino a qualche anno prima era legato a Morante da un rapporto di amicizia che poi si era guastato. Lo scrittore e regista fu molto duro con La Storia, criticò tra le altre cose i personaggi «improbabili» e «manieristici», l’«approssimatività rappresentativa e stilistica» e alcuni errori nei dialoghi dialettali. Inoltre accusò Morante di non aver «meditato abbastanza» sul «proprio progetto narrativo» e di avere un’ideologia personale sulla Storia «affascinante» ma di «estrema debolezza e fragilità», e non credibile.

Fino alla fine del 1974 e poi anche nei primi mesi dell’anno successivo le recensioni continuarono, positive e negative – anche su testate che generalmente non si occupavano di libri, come la rivista per parrucchieri Estetica e la rivista dell’Automobile Club d’Italia (ACI) Via! – accompagnate da articoli di costume sulla vita di Morante, sul suo rapporto con Moravia, da cui era separata, e con altri intellettuali di quegli anni. A ottobre ci fu anche una trasmissione televisiva dedicata al romanzo, in cui Garboli si confrontò con Siciliano. A quel punto Garboli aveva fatto un bilancio del dibattito, arrivando alla conclusione che visto il suo successo commerciale i critici si fossero sentiti esautorati dal loro ruolo di mediatori tra i prodotti culturali e il pubblico.

Secondo Borghesi, che ha studiato a lungo l’opera di Morante, il dibattito per quanto animato fu deludente per varie ragioni e in particolare per come la critica politica e quella letteraria furono mescolate. Secondo lei peraltro molti sbagliarono a vedere della rassegnazione nel romanzo, che invece sarebbe «sostenuto dal concetto di accettazione del limite». È di questa opinione anche Marino Sinibaldi, critico ed ex direttore di Radio 3, nonché autore del podcast del Post Timbuctu, che nel 1993 descrisse il dibattito sulla Storia come l’«occasione persa» dalla sinistra italiana per «mettere in discussione le proprie certezze prima del ruolo» e contestò l’idea che «il pessimismo comporti l’accettazione dell’esistente» e «il rifiuto della politica».

– Ascolta anche: La puntata di Comodino in cui si parla della Storia