• di Francesco "Kento" Carlo
  • Storie/Idee
  • Giovedì 28 dicembre 2023

Giorni di festa in un carcere minorile

«Se dovessi dirvi qual è il periodo dell’anno più brutto per i ragazzi rinchiusi, sarei incerto tra Natale e agosto, e difatti sono quelli i periodi in cui sembra si verifichino più incidenti, rivolte, evasioni. Ad agosto la cosa che manca di più è il divertimento, il mare, le ragazze. In questi giorni di fine dicembre è diverso, ovviamente. Ti manca la famiglia, ti manca casa. È per questo che, quando ho concluso il poetry slam di oggi, non mi sono azzardato a dire buon Natale»

Visita sull'isolotto di Nisida a Napoli che ospita un carcere minorile (non quello di cui si parla nell'articolo), 15 novembre 2023. (ANSA/CIRO FUSCO)
Visita sull'isolotto di Nisida a Napoli che ospita un carcere minorile (non quello di cui si parla nell'articolo), 15 novembre 2023. (ANSA/CIRO FUSCO)
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Sono settimane che i ragazzi si preparano a questa giornata. Io, in effetti, sono mesi. Le procedure e le trattative per l’organizzazione del nostro evento di Natale in carcere sono iniziate a settembre, quando l’estate sembrava non voler finire, e il caldo pesava sulle spalle come una cappa umida e appiccicosa.

In quei giorni l’associazione che mi supporta, e che si chiama pragmaticamente Crisi Come Opportunità, ha proposto all’IPM (Istituto Penale per Minorenni) un pomeriggio di poesia e rap all’interno delle mura alte e dei cancelli blindati, da tenersi a conclusione di un anno in cui abbiamo fatto rap (molto) e poesia (poca… ma non nessuna) insieme ai ragazzacci reclusi.

L’autorizzazione, stavolta, è arrivata senza intoppi ma, ovviamente, abbiamo mantenuto il segreto fino a quando non abbiamo avuto la conferma assoluta: l’aspettativa delusa è un morso crudele per chi sta tra le sbarre, e ho visto troppe volte imprevisti e problemi dell’ultimo minuto per potermi fidare di un ok dato a voce.

Prima di procedere è necessario un chiarimento: tutti gli episodi qui narrati sono realmente accaduti e i testi riportati tra virgolette sono stati scritti da ragazzi detenuti all’interno di un carcere minorile italiano. Nomi e dettagli sono stati omessi o modificati in modo da non consentirne l’identificazione, nel rispetto della privacy, della normativa vigente, e del diritto a una seconda possibilità che forse, per alcuni, è la prima in assoluto.

Non è la prima volta che presentiamo un appuntamento del genere: in passato è stato molto apprezzato sia dai detenuti che dagli educatori, e il ricordo è stato probabilmente il fattore determinante per la rapida approvazione di stavolta. Si tratta di un “poetry slam”, letteralmente uno “scontro di poesia”, in cui gli autori dei versi si sfidano ad alta voce, ed è il pubblico a decretare il vincitore o la vincitrice. Dal punto di vista della performance, è molto coinvolgente: gli slammer sono scrittori ma anche performer, visto che appunto trascinare il pubblico è l’arma decisiva per giungere alla vittoria.

Ho scelto di portare in gara soltanto autori esterni, già esperti, dando ai nostri ragazzi la possibilità di esibirsi come “special guest” tra una manche e l’altra. Ciò li esenta dalla pressione della gara ma non dalla gioia del palco. E poi c’è il rovesciamento dei ruoli, che è sempre la cosa più divertente: dall’essere giudicati passano, sebbene solo per un paio d’ore, a essere giudici.

Hanno delle lavagnette in cui esprimono il loro voto in decimali, come se dovessero valutare una gara di tuffi o di ginnastica, e non hanno nessuna paura di usarle: le valutazioni passano dallo zero al dieci senza troppo spesso soffermarsi sugli intermedi.

Prima di salire sul palco, vedo un paio dei poeti in gara inghiottire a vuoto: il pubblico è difficile, il contesto intimidatorio, la gara importante anche all’interno della nostra comunità di appassionati di versi e rime. Questo slam è, infatti, valido per il campionato nazionale della LIPS, e cioè la Lega Italiana Poetry Slam, che coordina tutti gli eventi in Italia e partecipa (spesso con ottimi risultati) ai campionati europei e mondiali.

Ma io non sono in gara: essendo semplicemente il conduttore del pomeriggio, mi posso permettere di godermi lo spettacolo dalla posizione più privilegiata. Da un lato, i poeti e le poetesse emozionati e un po’ intimiditi. Dall’altro, seduti in modo più o meno ordinato, i miei ragazzacci vestiti nei loro abiti migliori e più nuovi, perché questa è una delle rare occasioni sociali collettive in cui sfoggiare le Jordan nuove, il taglio di capelli più alla moda e magari qualche tatuaggio freschissimo e improbabile, sulla cui genesi preferisco non indagare.

Mi sorprendo per un attimo a pensare l’ovvio: molti di loro ascolteranno più poesie oggi di quante ne abbiano ascoltate in tutta la vita precedente. E certo, è bello per noi portare la poesia in un luogo che è il suo contrario, ma è anche un peccato il fatto che delle menti così vive, così fresche, non siano state esposte a questa forma di ispirazione fin dall’infanzia.

Quindi qual è il mio metodo di lavoro? Provare a prenderli in giro, usando il rap come mezzo e la poesia, “l’esprimersi” come fine. Barre, strofe, freestyle… quando l’unica cosa che conta è prendere una penna in mano e scrivere come cazzo mi sento, e cosa voglio dire agli altri, e rendermi conto che anch’io ho il diritto di essere ascoltato, come tutti gli altri adolescenti al mondo.

E su questo, scusate se me lo dico da solo, sinceramente quest’anno ho fatto un buon lavoro. I giovani rapper sono seduti in prima fila, e non perdono mai il contatto visivo con me o col mio socio Corrado, altrimenti noto come 1989. (sì, col punto dopo il numero!), che conduce insieme al sottoscritto. Da un lato scalpitano, perché non vedono l’ora che arrivi il loro momento dopo mesi di scrittura e prove. Dall’altro, si sentono investiti della buona riuscita dell’evento e quindi si sono auto-nominati custodi dell’ordine e della disciplina e, quando un compagno si distrae, chiacchiera durante una poesia, o si agita perché ha troppa voglia di andare a fumare, intervengono immediatamente in modo rude quanto efficace. E poi si girano di nuovo verso di me per vedere se ho notato quanto sono bravi e responsabili, e io avrei voglia di ridere, e invece faccio la faccia seria e annuisco impercettibilmente, in un gesto che è metà approvazione e metà ringraziamento.

È la stessa fiducia e la stessa confidenza che mi ha dato M. durante il corso, quando mi ha raccontato della prima volta in cui, quando era ancora un bimbo, è stato svegliato all’alba dai carabinieri, venuti ad arrestare alcuni componenti della sua famiglia:

A sette anni solo con le guardie dentro casa
Aria gelida e tristezza per tutta la giornata
Mi torna spesso in mente quel momento e la retata
E metà della famiglia mi è finita carcerata
Tutto marcisce ma niente scompare
Nel cuore mille angosce, non ci voglio più pensare
Malinconia, un cumulo di drammi
mio fratello che ci è andato sotto per tutti quei grammi.

Non smetterò mai di stupirmi di quanto possano essere adulti, e di quanto a volte possano essere bambini, di quanto raramente siano della loro effettiva età anagrafica di adolescenti. Negli scorsi anni, uno dei più simpatici e sbruffoni aveva dichiarato di essere perdutamente innamorato di una giovane rapper e cantante romana e, dopo aver scoperto che io e lei siamo amici, mi aveva dato il tormento affinché la invitassi a fare una performance in carcere.

Per convincermi, mi aveva spiegato tutta la tecnica che avrebbe usato per farla innamorare, declamandole i suoi migliori versi ma (siccome giustamente l’occhio vuole la sua parte) anche indossando una particolare maglietta che valorizzava i bicipiti e i pettorali scolpiti da anni di flessioni sul cemento.

Dopo mesi e mesi avevo ceduto, ed ero riuscito a organizzare l’evento in carcere con la suddetta rapper. Il giovane spasimante, poetico e fisicato come non mai, aveva indossato la maglietta perfetta… anche se pure quella volta era dicembre, e noialtri stavamo coi giubbotti. La giovane artista amata, alla quale ovviamente avevo raccontato tutto, si era detta disponibile a conoscerlo e ad ascoltarlo. Eppure, quando i due si sono trovati davanti, il ragazzo si è afflosciato come un palloncino sgonfio e, letteralmente, non è riuscito nemmeno ad alzare gli occhi da terra per dirle il suo nome. Chissà dov’è finito lui ora, e se ha imparato a parlare alle ragazze…

Il poetry slam di oggi, intanto, si è concluso. I detenuti vanno via a gruppi, controllati a vista dagli agenti di polizia penitenziaria. Chi è salito sul palco ha gli occhi che brillano per l’autostima conquistata. Chi non ha avuto il coraggio di farlo sorride con l’aria un po’ mesta. Forse ci riuscirà la prossima volta. Forse no, e va bene così. Certe parole sono fatte per essere condivise e urlate al microfono, certe altre le scriviamo solo per noi, e acquisiscono il loro senso soltanto nel buio di una cella, di notte.

Ripenso ai versi, carichi di rabbia, che il mese scorso ha scritto E., uno di quelli che non sono riusciti a raccogliere il coraggio di salire sul palco. Fa già rap in albanese e in inglese, da poco ha iniziato a utilizzare il suo italiano ancora un po’ incerto per tirare fuori la paura, il risentimento, l’ansia:

Stavo uscendo di casa, i carabinieri mi hanno fermato
perché sono nuovo nella terra italiana.
Quando sono arrivato ho capito:
in questa terra devo stare sempre agitato.
Vivo questo giorno come se fosse l’ultimo giorno,
sono entrato in questa strada fino a toccare il fondo.

Quelli che mi sorprendono di più sono un paio che conosco appena, e che non apprezzano particolarmente il rap. (Ebbene sì: è raro ma ci sono anche degli adolescenti dei nostri anni che non apprezzano particolarmente il rap!) Sono quelli che, zitti e concentrati, hanno prestato più attenzione alle poesie e, nell’esprimere il voto, hanno preso maggiormente sul serio il compito, con valutazioni pesate col bilancino: sette virgola quattro per questo poeta, otto virgola due per quest’altra. Magari qualcuno di loro stasera scriverà un verso su un quaderno, chissà.

Chi sono questi ragazzi? È la domanda più semplice, e quella a cui è più difficile rispondere. Nei momenti in cui sono lì insieme a loro sono semplicemente dei giovani come tanti altri, molto simili agli allievi indisciplinati di una scuola superiore di periferia, una di quelle a cui si iscrivono quasi soltanto maschi e dalle quali non vengono fuori troppi studenti universitari. Sono stato molte volte anche in quelle aule, certo. Ma lì non ci sono le sbarre alle finestre, né le gabbie, ancora più strette e pressanti di quelle fisiche, del reato commesso e della pena da scontare.

Se il discorso cade sui desideri e gli obiettivi per il loro futuro, ti rendi conto che spesso sognano una famiglia del Mulino Bianco che forse non esiste: «Tra dieci anni vorrei avere un buon lavoro stabile, stare insieme alla donna che amo, magari essere sposati, avere dei figli, essere un buon papà…» E ti viene quasi da sorridere di questa piccola ingenuità, finché non ti rendi conto che desiderano quello che spesso loro stessi non hanno avuto: una famiglia funzionale che si prende cura dei più piccoli.

Ora che per noialtri liberi non c’è più tempo, varchiamo un altro cancello blindato e siamo di nuovo in portineria, dove ci sono gli armadietti in cui abbiamo dovuto lasciare i cellulari e le chiavi, simboli di un’esistenza che inizia solo al di fuori del perimetro esterno. Tanto i ragazzi schiamazzano rientrando nell’area detentiva quanto noi siamo silenziosi. È una quiete che rispetto e apprezzo, perché la sento carica di riflessione e nuova amarezza.

Contrariamente a quello che si penserebbe, se sei un operatore o comunque un ospite il momento più difficile non è quello in cui entri in carcere, ma quello in cui ne esci. Quando entri sei carico di aspettativa, adrenalina e voglia di fare. Quando esci, e l’ultimo blindo ti si chiude alle spalle con un rumoraccio metallico che sembra un’esplosione, la prima cosa che ti viene da fare è un sospiro di sollievo. È qualcosa di naturale e giustificatissimo: il carcere è un luogo brutto per definizione, è una punizione. Quindi è bello uscire dal carcere, si prova sollievo. Ma, subito dopo, ti coglie il pensiero più reale e più triste: la mia vita continua… stasera vado a bermi una birra o torno a casa da chi mi vuole bene. La loro, quella dei ragazzi in cella, rimane sospesa lì.

Ecco perché non ci viene troppa voglia di fermarci a parlare lì fuori dai cancelli neri, e troviamo la scusa del freddo umido e del traffico che ci aspetta per disperderci rapidamente. Durante la notte, come lucciole sparse, mi arrivano i messaggi di tutti i poeti che hanno partecipato allo slam in carcere. Anche loro, stasera, stanno scrivendo.

Soddisfazione mista a un senso di perenne inadeguatezza.

Se dovessi dirvi qual è il periodo dell’anno più brutto per i ragazzi rinchiusi, sarei incerto tra Natale e agosto, e difatti sono quelli i periodi in cui sembra si verifichino più incidenti, rivolte, evasioni. Ad agosto la cosa che manca di più è il divertimento, il mare, le ragazze. Il caldo picchia forte, la maggior parte degli operatori sono in ferie (me compreso) e quindi molte attività si fermano. Hai più tempo per pensare, e il pensiero chissà in che direzione ti porta.

In questi giorni di fine dicembre è diverso, ovviamente. Ti manca la famiglia, ti manca casa, ti manca un abbraccio. È per questo che, quando ho concluso il poetry slam di oggi, non mi sono nemmeno azzardato a dire buon Natale né buone feste né, ovviamente, buone vacanze. Certo, la spiegazione più semplice è sotto gli occhi: non tutti i ragazzi sono cristiani, quindi Natale è festa solo per una parte di loro. Ma la verità è che, oggi più che mai, un augurio è uno schiaffo di ipocrisia in faccia a chi non farà un buon Natale quest’anno né, probabilmente, i prossimi.

Quest’anno, per me che ci vengo solo una volta alla settimana, è passato in fretta: 365 diviso 7 fa 52 virgola qualcosa. Se togliamo le vacanze, le volte in cui ero fuori città per concerti e quelle in cui il laboratorio è saltato per ragioni indipendenti da me, scendiamo a una quarantina in totale. Considerate che ogni incontro dura tre ore sulla carta, che si riducono a un paio effettive, e avrete l’idea di quanto sia poco il tempo che abbiamo passato insieme rispetto alla totalità enorme della reclusione. Di quel tempo abbiamo dovuto fare il nostro meglio, utilizzandolo per conoscerci, per fare gruppo e, finalmente, per scrivere. La squadra del laboratorio rap è composta da sette o otto ragazzi, di cui un paio hanno già pubblicato delle canzoni quand’erano liberi, metà fa rap in maniera abbastanza avanzata, e il resto sta iniziando a scrivere adesso.

Le prime cose che vengono fuori, inevitabilmente, sono ancora grezze: qualche spacconata, i soliti testi contro la polizia:

Pensano che siamo criminali
ma tutto questo lo facciamo per portare a casa i dollari.
Nella questura ci trattano come cani,
io gli dico 1312, siete tutti infami.

È chiaro che, nei primi momenti, hanno bisogno di sentirsi e di farsi sentire forti. Io li incoraggio ma non li assecondo: ok, ma in che cosa sei differente da altri mille rapper con i testi gangster? Dov’è l’amarezza di ciò che hai vissuto? Dov’è il vero senso della strada? E, se sono stato bravo a sollecitarli, a quel punto vengono fuori le vere meraviglie:

In mezzo ai traumi io cerco di curarmi
Cerco solo pace in mezzo a tutti sti marasmi
troppo piccoli per riuscire a capire
ma abbastanza grandi per soffrire
bambini dannati, incazzati come belzebù
chiedi dove vado? frate, dove vai pure tu
ora sto in carcere nella mia città
e sono le ferite che mi hanno portato qua
pensavo che finisse questo deja vu
ma sono le ferite che si fanno schiavitù.

Tra chi fa e ascolta musica, la fine dell’anno è tempo di Spotify Wrapped, il riepilogo che la piattaforma di streaming ti propina automaticamente e che ti racconta quanto hai ascoltato e quanto sei stato ascoltato. Per gli artisti particolarmente legati al mondo virtuale è un termometro di popolarità, e spesso causa di crisi e scenate se i numeri non sono quelli attesi. Per gli ascoltatori è qualcosa di più innocuo e piacevole: un viaggio nei propri gusti e, magari, nei ricordi più belli legati a una canzone o a un disco.

In carcere non c’è Spotify, e quindi non c’è Wrapped ma, sul mio computer, ho centinaia di tracce che quest’anno i ragazzi mi hanno chiesto di scaricare e passargli sui lettori mp3 portatili, unico strumento che hanno per ascoltare musica quando io non ci sono. Quindi mi posso azzardare a fare un Prison Wrapped in maniera un po’ artigianale. Iniziamo con tanto rap, trap, drill, ovviamente. Il neomelodico, che è “instant music” e folk tanto quanto il rap, e ne condivide la straordinaria potenzialità di raccontare la strada, l’oggi.

Ci sono delle mezze sorprese come Nino D’Angelo, e delle sorprese totali, come Claudio Villa o addirittura Mozart e Vivaldi. Ma c’è una categoria che batte tutti, e sono le strumentali: le basi vuote su cui i ragazzi si esercitano a scrivere, e che mi chiedono a centinaia per poi ascoltarle a ripetizione per ore e ore in attesa di quella che faccia scoccare la scintilla, facendo nel frattempo impazzire il compagno di cella (“cellante” o “cellino”, lo chiamano) che magari non condivide la stessa passione.

Anche questo mi parla della loro attitudine, del loro bisogno assoluto e urgente di essere ascoltati, dell’importanza di dare una penna a chi non ha mai scritto e un microfono a chi non ha mai avuto voce. Poesia, rap… quello poco importa. Tra qualche giorno inizia un nuovo anno, e per loro sarà un anno nuovo solo se noi, che siamo qui fuori, ci metteremo all’ascolto.

Francesco "Kento" Carlo
Francesco "Kento" Carlo

È un rapper e scrittore di Reggio Calabria. Da oltre un decennio tiene laboratori di scrittura in carceri minorili, comunità e scuole. Le sue ultime pubblicazioni sono il libro Barre - Rap, sogni e segreti in un carcere minorile (minimum fax), il disco Kombat Rap; (Time 2 Rap Records) e il podcast Illegale (Emons Record).

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